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Vincenzo Morgantini, il romanziere ritrovato
Ateneo di Treviso, Palazzo dell’Umanesimo Latino, 19 gennaio 2007
 

La graziosa fanciulla rassomigliava
ad un modesto e solitario fiore delle Alpi,
il quale cresce e si apre al sorriso del cielo
ed al balsamo delle celesti rugiade
senza curarsi se venga o non vagheggiato
da sguardi profani e curiosi.

(Un fiore delle Alpi, cap. 3)

 

Vincenzo Morgantini, vissuto tra il 1840 e il 1916, fu ecclesiastico colto e sensibile. Nativo di Valdobbiadene (in località Ron), fu insegnante fino a quando (1876) decise di stabilirsi come mansionario a Santo Stefano. Fu poeta e traduttore di Venanzio Fortunato (è segnalata una sua traduzione della Vita di san Martino del grande poeta valdobbiadenese). Oltre al romanzo di cui parlerò oggi, Un fiore delle Alpi, con il cognome di Morgantin ne aveva firmati almeno altri due: Augusta, ovvero la vittoria della fede: racconto storico del secolo V ed Emma e Rosalia ovvero Le spine d’una rosa: racconto del secolo XIX.

Quella che vi sto per raccontare è la storia di una gentile scommessa fiorita nell’entourage di letterati e scrittori che in qualche modo gravita attorno alla casa editrice di Danilo Zanetti. La scommessa suona pressappoco così: era in qualche modo possibile riproporre a più di 120 anni dalla sua prima apparizione, un romanzo che ebbe largo successo e che si sarebbe potuto dire sparito dalla memoria collettiva se non fosse stato per qualche debole indizio di un paio di anziani signori i quali rammentavano di averlo letto ai tempi della loro infanzia?

Danilo Zanetti si è assunto il rischio di questa operazione, affidandomene la cura e l’incarico di scrivere l’introduzione, scegliendo di conferire al romanzo il pregio di una ristampa anastatica.

Le vicende editoriali di Un fiore delle Alpi hanno attraversato più di mezzo secolo, a dimostrazione di una fortuna letteraria che suggerisce anche molto di più degli eventi narrati, sul finire dell’Ottocento, dall’abate Vincenzo Morgantini. Un romanzo trasformato dal suo autore in pretesto per raccontare (anche) il Veneto tra Belluno e Treviso: la storia, il territorio, gli uomini. I monti e i fiumi, le devozioni, i santi amati e venerati dal popolo, le tradizioni, i luoghi sacri.

E, serve dire subito, Un fiore delle Alpi è romanzo popolare nel senso pieno di questa categoria, così come definiva Berchet nella sua Lettera semiseria: vicenda raccolta dall’oralità popolare che la tramanda e poi tradotta in forma letteraria da uno scrittore che ne fa uno strumento pedagogico.

Il fiore è Margherita De Giorgio, giovanissima e splendida figlia di Donna Lucrezia e di Antonio, personaggio molto influente nella Valdobbiadene dei primi del Cinquecento. E le Alpi, a questo punto si sarà già intuito, sono le Prealpi trevisane.Il romanzo reca come sottotitolo Romanzo storico del secolo XVI. Inizi del secolo XVI, per la precisione: l’anno in cui si svolge la vicenda è il 1511. La guerra dei cent’anni è finita da più di sessant’anni, ma la realtà politica ed economica in Europa e in Italia risente ancora delle conseguenze di quel conflitto.

A Cambrai, il 10 dicembre 1508, era stata messa insieme una coalizione che avrebbe dovuto di fatto decretare la morte di Venezia o quanto meno porre fine alla sua egemonia nella penisola: papa Giulio II voleva toglierle le ricche città della Romagna; il francese Luigi XII voleva le città lombarde su cui sventolava il leone marciano; Ferdinando d’Aragona nutriva apprensioni per il regno di Napoli. E sui domini di terraferma si appuntavano gli appetiti di Massimiliano d’Asburgo. Sconfitta ad Agnadello nel 1509, Venezia si salvò grazie alla diplomazia del suo senato.

Cedette a Giulio II le ambite terre romagnole nel contesto di una manovra grazie alla quale i serenissimi diplomatici seppero convincere il papa che la Francia si stava ingrandendo troppo. Ne sortì una lega (la lega santa, stipulata il 5 ottobre 1511) tra Venezia stessa, Roma e la Spagna (l’Inghilterra vi entrerà qualche mese dopo) che di fatto modificò irreversibilmente la struttura politica dell’Italia e i rapporti di forza interni ed esterni ad essa.

Ma prima di quella lega santa (che fu dunque capolavoro diplomatico della Serenissima) la terra di san Marco era corsa e devastata dalle forze ostili e congiunte di Francia e Germania.

A moderata corsa avevano due cavalieri oltrepassato il castello di Cornuda e seguitavano la via, che per la stretta del Piave presso Quero, conduce nel Feltrino…: l’esordio del romanzo ci riconduce ad uno dei punti caldissimi della scacchiere bellico, quel Castelnuovo di Quero in cui, fin dal 1376 era stata eretta, sulla stretta naturale del fiume, una roccaforte che consentiva il controllo di ogni traffico tra montagne bellunesi e piana trevigiana.

I due cavalieri recano messaggi del senato di san Marco al provveditore di quella rocca, il nobiluomo Girolamo Miani. Gli dicono della minaccia nemica omai vicinissima e della necessità di resistere ad ogni costo e il più a lungo possibile.

Girolamo Miani (o Emiliani) è figura popolarissima per tanti motivi dalle nostre parti. Nacque a Venezia nel 1486. Dunque al tempo della vicenda narrata ha 25 anni. Nasce da un senatore della Serenissima, Angelo Miani, e da Dionora Morosini. Al principio di questo 1511 va a sostituire il fratello Luca, gravemente ferito in battaglia, alla reggenza di Castelnuovo di Quero di Piave. Il 27 agosto viene catturato e imprigionato da Jacques II de Chabanne de la Palice (il maresciallo di Francia il cui cognome viene spesso erroneamente trascritto come La Palisse). Il mese di prigionia lo spinse ad una revisione della sua concezione esistenziale. Il 27 settembre è liberato (in modo misterioso e miracoloso, ad opera della Madonna, come egli sempre sosterrà) e passa indenne tra i nemici. Si reca a Treviso a sciogliere il voto fatto durante la prigionia alla Madonna: rinunciare alle sregolatezze della sua vita. Si consacrò, già allora, ad un’opera di sostegno di poveri, vecchi e infermi. Riassunse per qualche tempo la reggenza di Castelnuovo e poi si dedicò alla cura dei figli del fratello Luca e del fratello Marco. L’inizio attivo della sua missione va posto nel 1528 quando prese a distribuire il suo patrimonio ai bisognosi e ad aprire loro la sua casa veneziana. Fu colpito dalla peste nel 1529 e ne guarì. Il suo itinerarium caritatis lo porta in diverse città del Veneto e della Lombardia dove erige istituti a favore dei bisognosi. Andava anche formandosi attorno a lui quella Compagnia che nel 1532 tenne a Merone il suo primo capitolo assumendo la denominazione di “Compagnia dei servi dei poveri”. Essa ebbe la sua formale stabilizzazione nel secondo capitolo tenuto da Girolamo nel 1534 a Somasca, nel bergamasco. In quel 1534 il Miani aperse il suo primo orfanotrofio a Milano, presso la chiesetta di san Martino: appartiene a quel 1534 il lieto giorno di cui parla Parini nel secondo sonetto dei due sonetti dedicati al Miani. Il nobiluomo veneziano rappresenta per il poeta lombardo uno degli eroi della sua riforma sociale in chiave cristiano-illuminista. Nel 1540 (dunque dopo la morte del Miani) la Compagnia ebbe l’approvazione da Paolo III e nel 1568 fu elevata a Congregazione dei chierici regolari di Somasca da Pio V. Girolamo morì l’8 febbraio 1537, nuovamente colpito dalla peste che aveva infierito in quell’anno in Somasca. Fu beatificato da Benedetto XIV il 22 settembre 1747 e canonizzato da Clemente XIII il 12 ottobre 1767. Il 14 marzo 1928 Pio XI lo ha proclamato patrono universale degli orfani e della gioventù abbandonata.

Ma torniamo a Quero e all’attesa del nemico. Girolamo Miani, che dispone di un presidio insufficiente, manda a chiedere aiuti a Valdobiadene, all’amico Antonio De Giorgio.

Comincia a dipanarsi qui una narrazione che lascia sullo sfondo proprio la vicenda personale del Miani.

L’ambasceria che si reca a chiedere aiuto al De Giorgio ci porta nella casa di questi, a Valdobbiadene, dove regna sua moglie Donna Lucrezia e in cui risplendono la bellezza e l’animo sensibile di Margherita, sua figlia. Proprio l’amore contrastato di Margherita e del suo Gino costituisce il filone principale del romanzo.

La vicenda è esemplata in modo diretto e scoperto sui Promessi Sposi manzoniani. Personaggi e luoghi.

Senza incrinare il piacere di una lettura che resta in buona misura gradevole e fluida, citeremo il convento sull’altura feltrina del Miesna che ricorda il convento di Pescarenico; le fughe e i viaggi furtivi che fanno di Gino, l’innamorato di Margherita, un figlio diretto di Renzo; la figura di fra Gerardo che è un po’ fra Galdino (il nostro fra Gerardo va alla cerca dei piselli) e un po’ fra Cristoforo (perfino con un passato da uomo d’arme).

E la culminazione del racconto è nel ratto che un signorotto locale, Paolo Onigo, fa operare dai suoi bravacci nei confronti di Margherita: nell’orrore e nella paura che albergano nel cuore della fanciulla durante i giorni del rapimento, si vede nettamente stagliarsi in filigrana il profilo di Lucia. Il rapimento è narrato esattamente sulla falsariga del modello manzoniano, con identici ingredienti e particolari (perfino la vecchia che ha il compito di prendersi cura della fanciulla e il cibo rifiutato). Tra l’altro (capitolo diciottesimo) Morgantini cita senza mediazioni: …come nei Promessi Sposi nota il Manzoni degli Spagnuoli…

Una ulteriore suggestione manzoniana viene dallo stesso fra Gerardo, quando racconta la strada seguita per abbandonare il monte Miesna e raggiungere Valdobbiadene attraverso una via poco battuta -inesplorata anzi- e sconosciuta al nemico. Il suo viaggio è esemplato su quello del diacono Martino, così come lo leggiamo nell’Adelchi: avventuroso, irto di difficoltà e tuttavia sorvegliato e diretto da Dio. Perfino i particolari sono fedelmente ricalcati, come la provvista di pane al casolare di un valligiano. Un fiore delle Alpi aspira ad assumere un taglio culturale e poi (come risulterà evidente nel passaggio dalla prima edizione in volume alla seconda) agiografico. Nello specifico il romanzo vuole infatti essere anche un viaggio nella geografia e nella storia del Trevigiano (soprattutto nella sua parte settentrionale).

Molto densi i primi due capitoli in cui, mentre i messaggeri del senato galoppano tra difficoltà del terreno e imboscate verso Castelnuovo, Morgantini descrive la zona della stretta del Piave, rievoca le vicende della rocca/baluardo nei secoli, delinea il ritratto di Girolamo Miani (collegandolo alla storia della sua famiglia), ricapitola gli eventi politici tra 1508 e 1511. Il terzo capitolo è dedicato a Valdobbiadene, alla sua storia, ai suoi luoghi insigni, alla sua economia, alla sua bellezza e ai suoi uomini famosi.

Nel quinto capitolo è raccontata diffusamente una storia bella, tragica e gentile, di taglio cavalleresco e romantico, la vicenda di Rizzardo e Rosa da Vidor, accaduta nel 1328.

Il settimo capitolo ricorda che questa è zona dei Collalto. Di questa secolare famiglia si rievocano vicende diverse per arrivare a parlare di un cavalier Giovanni che un tempo era stato al servizio dei Collalto e che poi era andato a stabilirsi a Bigolino diventando semplicemente Giovanni da Bigolino, amico e sodale di Antonio De Giorgio e soprattutto padre di Gino, l’innamorato di Margherita. Nell’undicesimo capitolo si parla di Treviso, delle sue fortificazioni, del lavoro di fra Giocondo. Viene rievocata anche la recente distruzione di Feltre, effettuata dalle orde tedesche comandate da Giorgio Püller.

Anticipazione e annuncio di uno dei capitoli più interessanti (e alti) dell’intero romanzo, il dodicesimo, che racconta l’assedio e la distruzione di Montebelluna. Il racconto (sul quale agisce chiaramente il modello manzoniano della Milano prima in preda ai tumulti dettati dalla fame e poi devastata dalla peste) viene messo, con esiti decisamente efficaci, in bocca a Gino, il fidanzato, che faceva parte della guarnigione posta a difesa di Montebelluna.

Il più terribile degli avvenimenti che funestassero la mia vita…, esordisce Gino. Poi tiene uditori (e lettori) avvinti, rievocando le ore snervanti in cui si attende il nemico. E l’accorrere della gente dei dintorni, in cerca di scampo e rifugio, con le poche masserizie e il po’ di bestiame che era stato possibile salvare. Gli uomini arrivano trafelati seco traendo le esterrefatte mogli e i palpitanti figliuoli.

Il tempo di una forte esortazione, di un brivido d’amore e d’orgoglio per la propria terra e poi tutti i montebellunesi a difendere e a respingere. Gino e i suoi compagni operano miracoli di valore. Tuttavia il nemico prevale, le fiamme salgono al cielo mentre l’orribile notte involgeva il ruinato castello ed il cielo nuvoloso e privo affatto di stelle sembrava sdegnasse di mirar tanto orrore. Gino riesce a fuggire e anche la sua fuga è avventura.

Raccontata con brio e in modo incalzante: restano nella mente del lettore le scene di gioia selvaggia dei vincitori che si abbandonano ai bagordi tra le rovine della città distrutta insieme alle baldracche le quali non mancano mai in queste occasioni. Gino vi assiste, impotente e ormai sconfitto, nel buio.

Non è facile dimenticare il modello manzoniano pedissequamente ricalcato e l’enfasi della narrazione. E tuttavia è una pagina di segno a suo modo alto, che in qualche misura emoziona e coinvolge. Riporta al fervore di certi passaggi commossi (pur se artificiosi) del Guerrazzi, del Bazzoni, del D’Azeglio, del Venosta, del Grossi, del Varese. Insomma i difensori di Montebelluna stanno un po’ tra i lombardi che partecipano alla prima crociata e gli eroi di Barletta. Non è scadente carta di credito per il nostro bravo abate.

Il quattordicesimo capitolo rievoca la storia del trevisano santuario della Madonna Grande, i miracoli che hanno spinto la devozione popolare ad erigerlo e anche i miracoli attorno ad esso fioriti. E nel diciassettesimo capitolo il lettore viene portato in un altro luogo sacro, sul monte Miesna, dove i santi Vittore e Corona hanno la loro tomba. Davanti ad essa sono transitate legioni intere di pellegrini da ogni parte del mondo. Dei santi vengono rievocati fatti miracolosi e portenti in un quadro carico di religiosità popolare. Il ventunesimo capitolo torna alla politica attuale, con l’assedio di Treviso e gli eventi che si susseguono nel Bellunese e nel Friuli. C’è, nella narrazione del Morgantini, anche un po’ di gloria per il pastore Bartolo Mazzolini il quale scompagina da solo i tedeschi che risalgono disordinatamente in fuga la Val Mariec e la valle della Rimonta: nel buio della notte, il bravo e patriottico pastore lega torce accese sulle corna delle sue capre facendo credere che stia abbattendosi sui fuggitivi un esercito scatenato.

Dopo questa ultima digressione il romanzo si avvia a sciogliere il suo intreccio indirizzandosi verso l’immancabile lieto fine.

Con qualche mugugno da parte del lettore, come dirò tra poco.

Un fiore delle Alpi cominciò ad apparire a puntate il 2 settembre 1881 su un giornale trevisano che ebbe, tra 1878 e il 1882, vita contrastata e, come si è appena detto, breve, Il Sile. Si definisce, sotto la testata, religioso, politico, letterario. Afferma nell’editoriale del primo numero di rivolgersi al popolo, di voler parlare un linguaggio adeguato ad esso, perché un popolo senza Dio e senza morale è abile e potente strumento nella mano dell’astuto ambizioso. Giornale moderato, dunque, e sulle posizioni della Chiesa ufficiale. La sua ultima campagna di spessore, nell’ottobre del 1882, sarà contro la partecipazione al voto alle elezioni per il rinnovo nel parlamento. Assolutamente intransigente: né eletti né elettori, riafferma come molta stampa analoga, in un suo titolo del 29 ottobre.

Il Sile è pubblicato dall’editore Giuseppe Novelli che ha libreria e tipografia nel cuore storico di Treviso, a San Leonardo, al numero 1885, vicino al ponte sul Cagnan. La libreria offre anche un ricchissimo catalogo di buone stampe. I romanzi di appendice si inquadrano ovviamente nella pedagogia del giornale.

L’abate Vincenzo Morgantini esprimeva, altrettanto ovviamente, una posizione del tutto ortodossa e affidabile. Come narratore aveva alle spalle, tra l’altro, un’operetta di carattere edificante, il racconto della miracolosa apparizione della Madonna avvenuta a Caravaggio nel 1432 alla contadina Giannetta Vacchi.

Un fiore delle Alpi è sicuramente opera di maggiore complessità, più matura, più ambiziosa e, come si è visto, con notevoli obiettivi culturali.

Per l’editore Novelli, Morgantini confezionò 28 capitoli che furono distribuiti nei numeri usciti nel terzo quadrimestre del 1881. Le puntate furono 83 anche se Il Sile reca una numerazione del tutto cervellotica, saltando alcuni numeri e doppiandone o triplicandone altri. Ogni puntata corrispondeva a circa un terzo di capitolo. Le ultime due puntate (di fatto il capitolo 26 e il capitolo 27) apparvero venerdì 30 dicembre e sabato 31, occupando addirittura due intere pagine del giornale (che constava in tutto di quattro pagine). Dal secondo numero del 1882 il posto che era stato del romanzo di Morgantini, fu occupato da un romanzo di Temistocle Montenovesi, La figlia del crociato, Episodio del tempo feudale.

Solo che in questa operazione saltano proprio le ultime pagine del romanzo di Morgantini. La pubblicazione si arresta alla fine del capitolo 27. E l’ultimo numero dell’anno preannuncia che la fine del romanzo apparirà nel supplemento che si sta per pubblicare Ma nella raccolta del giornale conservata dalla biblioteca comunale di Treviso (l’unica raggiungibile e, forse, anche l’unica esistente) di tale supplemento non è traccia, né si può dire che sia stato davvero pubblicato. Sta di fatto che il romanzo viene presto, prestissimo anzi, raccolto in volume: già il 28 marzo del 1882 lo stesso Sile pubblica in quarta pagina una pubblicità del romanzo che è in vendita al prezzo di una lira e 25 centesimi. La pubblicazione in volume a tamburo battente dimostra l’attesa del pubblico e il successo del romanzo stesso. Il volume è completo del ventottesimo capitolo, quello che era mancato ai lettori nella pubblicazione a puntate, che porta il lettore a 25 anni (cinque lustri) dopo i fatti narrati.

Margherita ha due figli piccoli (con qualche forzatura cronologica: Margherita, che si sposa giovanissima nel finale del romanzo, dovrebbe essere ben oltre i quarant’anni) ai quali il nonno Antonio De Giorgio racconta la santa vita di Girolamo Miani e la sua dedizione agli orfanelli. Il titolo del capitolo: Il cuore è per i miei orfanelli.

Appare anche una Conclusione in cui si racconta la brutta fine dei bravacci, Orsaccio e Moro, che avevano rapito Margherita. Si fanno inoltre alcune considerazioni di condanna per l’opera malefica di Paolo Onigo, il rapitore.

Significativa la breve prefazione che dichiara direttamente gli intenti dell’autore. Le finalità didattiche ed educative si fondono con la consapevolezza di quanto ricca e suggestiva possa essere la storia della Marca Trevigiana. Dopo un cenno polemico a tanti scritti che non… educano la ragione, [non] aprono l’intelletto a più larghi orizzonti e [non] rendono l’uomo migliore, Morgantini ricorda la sua terra (ricca di avvenimenti gloriosi), professa il suo amor di patria e la volontà di riportare alla luce storie e notizie che difficilmente si andrebbero a pescare negli annali, nelle memorie e carte polverose del passato.

Completano il libro, prima dell’indice e a sostegno del rigore di cui abbiamo appena sentito la professione, quattro pagine di Citazioni e note al racconto, preziose la loro parte.

Il testo in volume è di fatto lo stesso testo del giornale e viene usato lo stesso piombo. Solo la prima puntata viene ribattuta per un semplice adeguamento: su Il Sile, il carattere con cui era stata fusa la prima puntata è diverso da quello delle altre puntate.

Per il resto c’è solo la correzione di qualche macroscopico (e squalificante) refuso (ad esempio nel primo capitolo un improbabile paese di nome Rigolino riacquista il suo vero nome di Bigolino, ma il generale La Polissenon diventa, in più luoghi, La Palisse). Morgantini sente, in ogni caso il dovere di scusarsi e di precisare che il lettore, riflettendo che il testo è un estratto di giornale, perdonerà alcuni errori di stampa in esso incorsi.

Il romanzo ebbe evidentemente largo successo. E allo scritto dell’abate Morgantini toccò di essere ripreso e riedito più di mezzo secolo dopo, nel 1935, a Milano. L’editrice Áncora ripubblicò il volume arricchendolo con 6 tavole fuori testo e 67 illustrazioni inserite nel testo: fotografie che da una parte illustrano gli ambienti (tra Quero e Venezia) che fanno da teatro alla vicenda, dall’altra propongono la figura di Girolamo Miani (compreso il suo ritratto più famoso, dipinto da Leandro Bassano e conservato nel veneziano museo Correr). Nel 1934 era stato celebrato il quarto centenario della fondazione della congregazione somasca e la riedizione del libro (con tale sovrabbondanza di fotografie) certo si inquadrava nelle iniziative a ricordo.

Lo riprese in mano un Sacerdote Somasco che firma con le iniziali A. S. una introduzione in cui dichiara la centralità del primo difensore del Piave…il veneto patrizio Girolamo Miani, comandante la fortezza di Castelnuovo, trasformatosi poi da eroe della patria in eroe della carità e Padre degli Orfani. Un libro di intreccio meraviglioso oltre che tutto permeato della morale cattolica. Un libro, inoltre, che svolge la sua azione in luoghi già famosi, ma divenuti famosissimi in quasi tutto il mondo, per essere stati teatro della grande guerra, e testimoni di mirabili eroismi.

Dietro alla sigla A. S. si cela il padre somasco Angelo Stoppiglia che morì a Genova proprio in quel 1934, dopo aver preparato tutto il materiale per la riedizione del romanzo di Morgantini. Padre Stoppiglia è uno studioso significativo nella storia della congregazione somasca perchè agli inizi del Novecento ne ha ordinato tutto l’archivio storico producendo anche una poderosa serie di studi sulla figura del fondatore e sulla congregazione stessa.

L’intento dichiarato dunque è quello di riproporre in primo piano la figura del fondatore della congregazione somasca, che viene, in modo molto facile, presentato come precursore dei fanti che avevano combattuto, durante la prima guerra mondiale, sul Piave.

Amor di patria e origini della tradizione somasca radunate in un solo libro, sospinto, per buona aggiunta, da una vicenda molto piacevole a leggersi. Che chiedere di più in questo 1935, anno XIII dell’era fascista, in clima di post-conciliazione?

Con tutta probabilità il revisore passa in tipografia per la composizione, un esemplare dell’edizione trevigiana, con qualche annotazione in margine, qualche cambiamento (come si dirà), con una distribuzione diversa del testo grazie all’introduzione di parecchi capoversi in più, certo per rendere più appetibile all’occhio l’approccio.

Il nostro bravo sacerdote somasco cambia l’incipit che diventa più discorsivo, meno solenne; dà una ripulitina allo stile: lavora soprattutto sul nesso aggettivo-sostantivo e, per esempio, le sofferte angherie diventano le angherie sofferte; riammoderna l’ortografia (avanzare -ma non in tutti i luoghi- al posto di avvanzare, sopruso al posto di soppruso, biglietto al posto di viglietto ecc).

Sopprime qualche sfoggio di erudizione. Ad esempio, sul finire dell’ottavo capitolo, Morgantini descrive il mal d’amore di Margherita e designa la medicina col nome di arte di Esculapio. Nessuna traccia nell’edizione milanese.

Svecchia un po’ il lessico (prigione diventa prigioniero, la terra adusta diventa terra arsa) talora con disinvoltura perfino eccessiva: quando Morgantini parla di un certo gruppo di piante dice ellera e caprifico che, nella traduzione del revisore, diventano alloro (cosa, evidentemente, del tutto diversa) e caprifico.

E qualche volta finisce per impoverire il testo. Nell’incipit del terzo capitolo viene presentato il Miani che si prefigura nella mente il combattimento ormai vicino: gli pare di sentire i rumori echeggiare per tutta la vallata, ripercuotendosi di balza in balza, di roccia in roccia. Che nella revisione diventa un ben meno suggestivo di rocca in rocca.

La volontà di rendere piano il testo si fa, d’altronde, cattiva consigliera anche altrove. Nel ventesimo capitolo, dove si racconta il rapimento di Margherita, l’espressione di Morgantini è chiara ed efficace, a registro col contesto tutto drammatico: L’acqua del Piave faceva sentire un sordo rumore e già i piedi… Là dove il revisore decisamente banalizza: Il Piave fu presto raggiunto e già i piedi…Talora il revisore, quando si entra nel territorio dell’educazione e della pedagogia, si fa prendere dall’enfasi e dallo slancio. Dove Morgantini (parlando dell’infanzia di Girolamo Miani, nel secondo capitolo) dice Si suole predicare che ora i figli nascono colla malizia, e con sentimenti di insubordinazione e inaugura un lungo paragrafo sull’educazione, il revisore taglia corto e indirizza una forte perorazione al lettore chiamando in campo la madre del Miani: Oh se tutte le madri imitassero donna Dianora…

Qualche volta anche entra in gioco anche lo zelo agiografico. Parlando di Miani, il revisore, nel secondo capitolo, semina un valoroso soldato che non appare nella fonte. E non mancano lo scrupolo moralistico e l’ossequio al nihil turpe: le dieci o dodici baldracche che Gino vede, miste ai vincitori, durante la sua fuga, si attenuano in qualche donna di cattivo affare.

Ovviamente il curatore deve anche attualizzare in qualche modo i riferimenti all’attualità. E deve ricordare ancora una volta che tra la precedente pubblicazione e l’attuale, in quei luoghi si è combattuta una guerra. Ecco dunque, nel terzo capitolo, l’inserimento di un paragrafo intero a ricordare il conflitto.

Tuttavia sono anche altre le variazioni che testimoniano il cambiamento di prospettiva, di gusto, di sensibilità. E anche diversi sono gli indizi che propone la revisione operata in seno alla congregazione somasca.

Ne do conto (in maniera forzatamente sommaria ma completa) seguendo la successione dei capitoli.

Nel secondo capitolo Morgantini parla di traditori e annota che nelle nostre ultime guerre patrie vi furono altri Trivulzi, e questi ebbero la sorte di essere dichiarati eroi. Il riferimento è non solo a Gian Giacomo Trivulzio che aveva tradito e si era posto al servizio di Carlo VIII, ma anche ai quattro Trivulzio che nel 1412 assassinarono Gian Maria Visconti: sottolineatura politicamente scorretta e cassata nella revisione.

Il quarto capitolo (Donna Lucrezia, la madre di Margherita) è quello che più esplicitamente cerca di costruire un itinerario pedagogico e didattico. Morgantini propone le sue riflessioni sull’educazione che donna Lucrezia dà a Margherita, in contrapposizione all’odierna educazione di cui qualcuno dei miei pochi lettori potrebbe essere infatuato. Il revisore semplifica molto, taglia parecchio e, nell’elenco delle cose che si dicono al giorno d’oggi indispensabili per la buona educazione di una fanciulla, di suo aggiunge un chiarificatore se non sa fare dello sport, anche con grave pregiudizio di se stessa. Dunque: buona è l’educazione di Margherita anche perché la nostra eroina non pratica alcuna disciplina sportiva. Perfino imbarazzante.

Morgantini dedica poi un paragrafo intero alla morale naturale, …più una morale di convenienza che altro. Il revisore cassa dalla prima all’ultima parola.

L’undicesimo capitolo (Un pranzo in casa del De Giorgio) è un pretesto per esaminare, attraverso le chiacchiere dei commensali, la situazione politica. Quando si viene alla contrapposizione tra tedeschi e latini, il revisore in parte abolisce e in parte attenua il passaggio in cui si parla della razza germanica che sta per allargare le braccia e minacciare noi latini, che fummo una volta i suoi padroni.

Il quattordicesimo capitolo ha il suo nucleo narrativo nella miracolosa liberazione di Girolamo Miani. Il revisore sente di dover aggiungere un particolare al racconto del Morgantini, a sottolineare l’orrore della prigionia. Là dove l’autore dice che ognuno dei suoi carcerieri era un fiero carnefice, il revisore dettaglia che il carnefice si faceva un dovere di tormentarmi, come meglio gli riusciva attraverso i fori della robusta inferriata che ci separava.

Il diciottesimo capitolo vede il nostro revisore tagliare parzialmente una lunga tirata su Paolo Onigo e sul clima di equilibrio da lui costruito attorno a sé tra odio di cui era oggetto e terrore che incuteva. Nel successivo capitolo viene rimosso qualche particolare realistico. Orsaccio fa le ultime raccomandazioni ai bravacci incaricati del rapimento. Dice di far buon uso delle maschere se volete portare a casa la pelle senza occhiali e le spalle senza fregagioni. Occhiali e fregagioni spariscono nella revisione. Il capitolo conclusivo riferisce la vita di Girolamo Miani cui fu conferito di nuovo l’incarico di Provveditore di Quero (nonostante la prassi di Venezia fosse quella di non rinnovare l’incarico ad un magistrato che avesse fallito -e Miani era stato sconfitto- nel suo compito) e che poi imboccò la strada della carità e delle opere pie.

È certo il capitolo che più preme al nostro revisore che lo segue passo passo.

Parlando del ricovero per gli orfani aperto dal Miani a Como aggiunge scrupolosamente al nome di Bernardo Odescalchi, vicino al Miani in questa opera, quello di Primo Conti. Nello stesso tempo cassa (difficile dire perché) il particolare riferito dal Morgantini secondo il quale alcuni degli orfanelli che trovarono ricovero a Como provenivano da Bergamo. Poi dettaglia maggiormente la collocazione geografica del villaggio di Somasca e sostituisce ad una frase di Morgantini, una frase, per così dire più ampia ed enfatica: aperse una casa che stabilì centro delle sue istituzioni, là dove Morgantini aveva detto aperse una casa e vi stabilì la sua Congregazione. Offre poi maggiori dettagli dell’episodio che vede protagonista un nemico del Miani e delle sue iniziative benefiche, tale Mazzoleni. Contestualmente si infittiscono le immagini relative all’iconografia del Miani.

Dovendo scegliere una pagina a mo’ di esemplificazione, mi soffermo sul racconto particolarmente interessante che fa Gino circa l’assedio di Montebelluna e la sua distruzione.

“Io facea parte in questi ultimi giorni della guarnigione che difendeva la fortezza di Montebelluna… Il nostro bravo capitano antiveggendo un attacco nemico vicino, mentre alcune bande di soldati imperiali si facevano vedere di quando in quando nelle vicinanze della fortezza verso il Montello, aveva ben provigionata la piazza e fornita d’armi e d’armati e si occupava alacremente per infiammare i difensori alla più eroica resistenza. Noi eravamo pronti e quasi quasi anelavamo all’istante di attaccare la zuffa: il popolo solo temeva e al minimo segnale che indicasse … il nemico vicino alle mura, al più leggero ed infondato bisbiglio che annunziasse il pericolo imminente, il terrore manifestavasi sopra il volto di ognuno. … In quello scoraggiamento mortale del popolo che cominciava sordamente a lamentarsi del Capitano, perché aveva stabilito di resistere ad uni costo, mentre i timorosi, ed erano tra la plebe i più, avrebbero amato meglio aprire le porte agli imperiali ed impetrare codardamente la sovrana clemenza, furono raddoppiate le scolte sulle porte e sui forti bastioni, ingrossate le file e incoraggiate, perchè non venissero meno nell’ora suprema del cimento… Da tre giorni aspettavamo il nemico … quando ai primi albori di iermattina la scolta della rocca avanzata diede il segnale di allarme. Il nemico infatti si avvicinava alla fortezza, e il luccicare delle armi manifestavasi poco dopo ai nascenti raggi del sole, mentre un sordo rumore, che non era quello delle opere giornaliere, quando ogni cosa sembra destarsi ad una vita novella dopo il silenzio della placida notte, accostavasi ognora di più, di modo che in breve tempo … eravamo cinti per ogni parte da un muro di armati, muro che avvicinandosi gradatamente venivasi stringendo e facendosi più saldo e compatto. Un numero sì grande di nemici non si era fino ad allora veduto sotto le vetuste mura di Montebelluna. Erano intanto accorsi nella fortezza, come a sicuro rifugio i miseri abitanti delle vicinanze, seco traendo le esterrefatte mogli ed i palpitanti figliuoli, quali sopra gli omeri od appoggiati in braccio, quali condotti a mano e trasportando seco quel poco di ben di Dio che potevano salvare in tanta confusione e in tanto terrore. Alcuni si cacciarono innanzi i loro bestiami, o portavano poche masserizie, dolenti e lacrimosi per dover abbandonare la casa ed il resto sotto il ferro devastatore…”

Vincenzo Morgantini ci regala qui una pagina epica, di grande spessore e di grande impatto visivo. Una scena di popolo e di paura che riassume bene la sua opera, ne suggerisce, per così dire, l’atteggiamento intellettuale. Morgantini era bravo a raccontare e a descrivere, bravo a cogliere umori e caratteri. Davvero non è poca cosa e sono onorato di aver fatto qualcosa per strapparlo dall’oblio.

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