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Veneto per sempre
FOTOGRAFIA E ARMONIA
di Gian Domenico Mazzocato

Gondole affogate nella neve, immobili all’attracco, prigioniere del freddo, ostaggio della stagione. Un uomo (un gondoliere?) posa il suo piede tra l’una e l’altra, ha un gesto antico, tranquillo, consapevole. Sembra accarezzare. È l’immagine (paradigma e blasone dell’intera opera) che chiude questa straordinaria silloge di Cesare Gerolimetto, VENETO PER SEMPRE.

In didascalia e quasi in contrasto col gesto esperto ed affettuoso dell’anonimo gondoliere, Gerolamo Priuli, il doge munifico che all’atto della sua incoronazione fece cadere sulla folla radunata in piazza San Marco una pioggia di monete quanto alcun altro doge mai aveva fatto, proclama che li nobili et citadini veneti inrichiti volevano triunfare et vivere et atendere a darse piacere et delectatione et verdure in la terraferma et altri spassi assai abbandonando la navigatione et compravano possessione in terraferma et facevano palagi et spendevano denari assai…

Il tempo che passa, travolge, talora immobilizza. Un popolo di marinai che sciama dalla nave, che rinnega i rischi del navigare, che vuole godersi i suoi soldi in un piacere che si prolunga di giorno in giorno e annulla le notti. Il Priuli, a differenza del fratello Lorenzo suo predecessore e studioso dei classici, è rozzo e abbastanza ignorante. Ha studiato alla scuola della vita però, mercatando col Levante, stabilendo i suoi fondaci ad Aleppo, nella lontana Siria, e facendosi enormemente ricco. Solo che il clima è quello del grande evento che ha contrassegnato gli inizi del XVI secolo. Il 14 maggio 1509 ad Agnadello i serenissimi generali Nicola Orsini e Bartolomeo Alviano subiscono la più tremenda delle sconfitte. Venezia vede crollare il suo sogno di espansione. Battista Nani scrive, con enfasi forse eccessiva, che la Serenissima stabilì i suoi pensieri nell’arte della conservazione e della Pace.

O come ebbe a dire in anni recenti (con immagini alla superficie gentili, in realtà ruvidissime) un grande conoscitore del Veneto come Bepi Mazzotti il desiderio di scendere a terra è naturale per chi si trova su una nave ancorata in porto. Venezia è simile ad una gran nave e i veneziani sospirano la terraferma su cui sciamano tutte le volte che possono.

Comincia, da questo sospiro rivolto alla terraferma, la stagione della penetrazione e della trasformazione del territorio, del nascere ovunque delle ville. E nasce anche l’epopea di quella vita in villa che ebbe in Andrea Palladio il suo massimo interprete.

Civiltà della villa, degli ideali di bellezza e di armonia che furono elaborati da un Veneto (forse) felice e che Gerolimetto documenta in modo magistrale. Si capisce perché Palladio sia uno dei protagonisti della parabola culturale descritta in questo libro: non solo con le sue ville, ma anche con le sue piazze e soprattutto con il teatro Olimpico di Vicenza. Gerolimetto documenta, rielabora, fa suo. Ma non è questo che, per il momento, preme sottolineare.

Urge piuttosto dire l’esemplarità, la forza, la grande energia narrativa delle immagini del fotografo bassanese. La dialettica presente/passato, è così profondamente, radicalmente attiva in questo libro.

Rivedo l’immagine dello scopino che spazza, con gesto umile, San Marco, mentre in didascalia Goethe, il grande viaggiatore, ricorda trionfalmente che uomini intrepidi scavavano fossati, alzavano dighe, restringevano i diritti del mare. Rivedo la foto dei due anziani combattenti che camminano, patrio tricolore in spalla, davanti allo splendore di villa Barbaro a Maser. Rivedo la stanca pedalata del ciclista che avanza verso la mole imponente di villa Da Porto Pedrotti a Vivaro. Andrea Palladio gli (ci) rammenta come i frontespizi che servono a dare prestigio e suggestione alla villa fossero lo spazio destinato ad ospitare le insegne nobiliari. Simbolo che domina il territorio, che lo sorveglia.

A chi parlano oggi quelle insegne? Sono mute per sempre? Risento la voce di Gerolimetto confessare che un libro così, anche se affidato al più grande fotografo del mondo, non è ripetibile perché più di metà del luoghi fotografati oggi non è più così. Nella pacata disperazione del fotografo è anche la sua capacità di raccontare.

Perfino la chiave di lettura del suo modo di scegliere e proporre immagini. Gerolimetto ama le forme del mondo classico (soprattutto -si sarà già compreso- nella loro rielaborazione all’interno della temperie culturale del rinascimento veneto) ma le accompagna sempre con un’annotazione tratta dalla quotidianità, quasi a stabilire due capisaldi temporali.

L’allora e l’ora: bisogna avere un gusto ben temprato, una preparazione culturale robusta, un senso alto del discernimento per muoversi in una direzione simile. E per salvarsi dal pericolo sempre incombente di cadere nella banalità.

Il fatto è che Gerolimetto non è un gratuito e pedante lodatore del tempo passato. È un intellettuale cui l’educazione a vedere con l’occhio della macchina fotografica ha affinato una sensibilità acuta, quella che porta ad isolare simboli anonimi, particolari all’apparenza insignificanti e farli assurgere al rango di metafore assolute. Il segno alto, la cifra dell’artista che non dimentica mai il proprio tempo e ha il coraggio di dispiegare le vele (si avverte una sorta di dichiarazione programmatica in quella vela latina che, regina volubile, si avventura nel vento agli esordi del libro) per una rivisitazione antiretorica del passato, del presente. Che è il modo unico per guardare avanti, al domani.

Quello che emoziona nella fotografia di Gerolimetto è questo senso poderoso del tempo. Che è voglia di documentare, di inventariare gli oggetti in un catalogo che in qualche modo li sottragga al volgere delle stagioni. Non sarà un caso, ad esempio, che alcune immagini rappresentino il carnevale e la voglia eterna che l’uomo ha di mettersi la maschera. Qui Oscar Wilde ci ricorda che solo l’uomo col volto celato è capace di dire ogni verità, senza alcun infingimento. A Este un figurante che già si è truccato da prete ritocca con gesto sapiente gli occhi a una bella, enigmatica signora.

Davvero: la liturgia del carnevale, già triste, a pensarci, e malinconico. Perché è un carnevale con la quaresima incombente, anzi che è già quaresima. E non recita la sua parte pure la suoretta che trascina la sporta della spesa sotto lo sguardo senza tempo delle statue chioggiotte di piazza Vescovile? E non celebrano un rito anche le mani che acconciano umili fiori di campo su un muretto di Monfumo? Dove vanno poi le due figurine che allungano il passo sotto il porticato dei Muttoni, col volto che guarda il santuario? Quale voglia di pellegrinaggio le sospinge? E non è la vita stessa un pellegrinaggio, fatto di piccole tappe quotidiane?

Eccola la bravura di Gerolimetto: la capacità di raccontare le piccole, anonime tappe di ogni giorno, di ogni momento della vita umana. Il lavoro del fotografo è proprio qui: sublimarli quei momenti, renderli eterni e significativi. Gli strumenti che egli ha scelto sono visibili, concreti in questo libro: Gerolimetto fa parlare (è proprio lui, fotografo/demiurgo a soffiare la vita, a regalare parola articolata e pronunciata) le pietre dei muri, i marmi belli e solari del vicentino Teatro Olimpico, le ville seminate come sorgenti di civiltà sul territorio.

E anche ciò che alla villa allude: i viali che vi adducono, i giardini intorno, i panorami intravisti da lontano. La parola appartiene anche agli scafi in regata visti da Malcesine, all’Adige che disegna la sua grande ansa nel cuore della città, al muro solitario e tragico (una sorta di monumento, di reliquia, forse un segno di confine) che si erge nel mezzo della sacca di Scardovari.

E appartiene, perché no, ai più umili abitatori di questo universo sempre meno a misura d’uomo: le oche di Tarzo; le vacche che affacciano il loro muso paziente e rassegnato in lunga fila alla fiera franca di Cittadella; il gatto altero (un reietto, è un gatto nero) re della solitudine nel parco della casa patrizia; le pecore che punteggiano di nero la neve di Sandrigo.

Perché Gerolimetto è anche consumato, abilissimo raccontatore della natura.

In questo VENETO PER SEMPRE fanno da cattivante fil rouge le foto di paesaggio. Il fotografo ama la neve (fuori e dentro i contesti urbani), il ghiaccio e il gelo, le nebbie, le brume, le foschie e le nuvole grazie alle quali sa disegnare contrasti violenti di colore. Obbligatorio fermarsi davanti a queste Tre Cime di Lavaredo, vive e pulsanti come buoni giganti emersi per prodigio da ere lontane, sentinelle e baluardi. E il vicentino lago di Fimon allude ad una geografia dell’anima dilatata e rigorosamente partita in due campiture contrapposte di verde e di blu. Le rocce che strapiombano sul Garda sono graffiti incisi con pazienza millenaria nell’infinito scorrere delle geologie montane. La visione che aggredisce con violenta e selvaggia bellezza chi si affaccia dal passo Pordoi ha i tratti decisi di una foto in bianco e nero, senza sfumature. Le colline di Bassano, viste dall’altipiano, hanno un brulicare che sa d’inferno dantesco, fumigoso, denso di minacce. Di contro, il tripudio dei papaveri davanti al lungo casale di Dueville ha la densità di un mare diventato rosso all’improvviso per chissà quale miracolo: nello stesso istante cogliamo, nel paradosso felice della creatività artistica, la forza della tempesta e la pacatezza di una bonaccia. I gelsi e i pioppi, ritratti in lunghe, allineate geometrie, descrivono con piacere estetizzante un’avventura antropomorfica: immagini, nemmeno troppo velate, dell’uomo e del suo stare nella dimensione terrena. I mosaici dei campi sul delta del Po alludono senza mediazione alla pazienza umana, unica e intelligente arma utile a sopravvivere: una tessera dietro l’altra, un frammento che si incastra in un altro frammento. Piano, con rigore, per co-abitare e con-vivere in modo utile per tutti.

Il paesaggio acquista così una profondità eccezionale (sia dal punto di vista culturale che più squisitamente estetico) e ogni profilo, ogni silhouette (di montagna, di campanile, di merlatura castellana) sono un segno inciso con mano felicissima, senza esitazioni. Su questa strada, abilità e sensibilità hanno condotto Gerolimetto a fotografie che sono sintesi assoluta di significato e significante.

La nebbia che confonde i colli attorno a Teolo; le figurine che si muovono in casuale processione sul trevisano lago di Lago; i campanili di Nove e Cartigliano che emergono, malinconici e desolati e, per così dire, anacronistici come Don Chisciotte e Sancho Panza, dal mare di bruma colto nell’intervallo tra due merli di castello; l’alba livida che sorge attorno al tempio del Canova; l’uomo e il cavallo, icone fatue e fantasmatiche nella foschia di Montemerlo, tutto è costruito con abilità (e anche con la saggezza di chi molto ha visto e molto ha meditato) con una sorta di non-colore, in una dimensione metafisica e surreale che rimanda a certi balletti felliniani o alla stampa sgranata di antichi dagherrotipi.

La foto che è blasone di questa poetica del non-colore, credo sia da ravvisare nel gruppo di umani che lascia la barca al centro di un lago ghiacciato (che è ancora il lago di Fimon) e guadagna la riva con passo triste sull’acqua divenuta pietra. Anche questa una fotografia che è paradigma di quell’andare verso terra, di quello sciamare verso riva che non è rinuncia, ma accettazione del fatto che la vita è, prima che ogni altra cosa, evento. Che ogni stagione ha il suo frutto e chiama comportamenti propri e peculiari.

L’esile guscio che i ghiacci del laghetto hanno stretto in definitivo e forse esiziale assedio, assomiglia molto alle gondole veneziane di bacino Orseolo, sotto la neve. E la gente che si trastulla sulla spiaggia di Cortellazzo, disegna contro la sabbia, il mare e il cielo (un unico, appena distinto colore, un ocra increspato e luminoso), l’avventura quotidiana dell’esistere.

Che è pur sempre viaggio. Talora viaggio minimo, talora il chiacchierio della gente di Burano, talora il rito del caffè al bar della trevisana piazza dei Trecento. Ma anche viaggio importante, destinato al mutamento: il transatlantico che attende alle bocche della laguna o il viaggio lungo e misterioso della morte. Quanta intensità, quanto umanissime microstorie nella veneziana Isola dei Morti.

Emerge l’umanesimo coinvolgente e colto di Gerolimetto. Un umanesimo forgiato e cresciuto in quel Nord-Est che non è solo latitudine e longitudine di un benessere atrofizzato nel mero godimento del denaro. Oggi che il modello veneto appare stanco e per molti aspetti in declino, fa bene ascoltare voci come quella del fotografo bassanese, che ci riportano ad un patrimonio valoriale in cui a recitare con voce da protagonista è la storia.

Non l’oblio, non la smemoria, non la chiusura. Le voci critiche, appassionate, dolenti, nutrite di meditazione e riflessione hanno sempre eco grande e inestinguibile. Guardo i volti dei contadini che trebbiano il frumento: da quale preistoria tecnologica sarà uscito il loro trattore? Guardo i due profili scuri che salgono la scalinata innevata dell’abbazia di Praglia: quale voglia di preghiera le guida? Cosa resta nelle loro anime delle memorie fogazzariane che qui aleggiano e cui Gerolimetto allude nel calligrafico disegno di muri e portali? Guardo il bambino che cammina senza paure nell’acqua alta di piazza San Marco: quali rotte gli riserverà la vita? Guardo la faccia dura dello sfalciatore che, immerso fino al petto nell’acqua del Sile, lavora per il benessere del fiume e dunque per il benessere dell’umanità che sul fiume si affaccia: quanti prima di lui e quanti dopo di lui in quel gesto umile e utilissimo? Sono i gesti che eternano l’uomo e scandiscano il suo rapporto con la natura.

Gerolimetto si è fatto narratore di questo umanesimo che è consapevole di un passato antichissimo. È evidente la dimensione in cui è cresciuta e maturata la sua vocazione artistica: nello stesso mondo rarefatto, prezioso, eletto e ad un tempo -non è paradosso- concretissimo disegnato da Andrea Palladio e Vincenzo Scamozzi e dagli artisti che hanno illustrato e dilatato gli spazi delle loro ville, dai Tiepolo allo Zelotti.

Si allude qui dunque ad una dimensione temporale e spaziale che si costruisce attorno ad un ideale di bellezza pura. Che non è bellezza disumana od oltreumana: è bellezza umanissima, a portata di mano. Mi resta negli occhi la facciata piatta di villa Contarini a Piazzola sul Brenta. Penso alla sua vastità. La villa è immensa, quasi una città. Ai tempi del suo splendore poteva accogliere contemporaneamente 150 ospiti con servitù e cavalli, aveva due chiese e cinque organi, un conservatorio e perfino due teatri. Addirittura una tipografia. Una corte vera e propria, un segno alto di civiltà: non un semplice dato economico, ma un mondo che ospitava artisti e concerti, che faceva risuonare le voci di poeti e filosofi, che delineava un ideale esistenziale di grande prestigio.

Che resta di quel mondo? Risuonano ancora nelle vaste sale le voci dei poeti?

Gerolimetto ci provoca. Ritrae villa Contarini coperta da una coltre spessa di neve. Le statue in primo piano recano sulle spalle e sul capo un pesante saio candido. La balaustra che regge le statue è una lunga striscia bianca, priva di grazia. Il velo della neve che scende, allontana e offusca la nobile facciata.

Il messaggio è chiaro, diretto, perfino duro. Quella della villa antica è oggi civiltà perduta, ossidata, corrosa. All’umanesimo luminoso di allora si è sostituita una logica del perbenismo e dell’utile. Gerolimetto non pensa alla villa liberata dalla neve come ad una improbabile, patetica Arcadia che esisteva solo nelle scialbe fantasie di qualche damina o di qualche snervato poetastro.

Pensa piuttosto al genio umano che ha saputo creare la villa cioè il capolavoro, pensa all’intelligenza di chi sa costruire e sa disegnare, pur nelle difficoltà contingenti, un superiore ideale di armonia. Dove paesaggio e costruzioni umane convivono attingendo bellezza e motivazioni etiche l’uno dall’altra.

Lui, fotografo, si sente impegnato alla testimonianza. Sillaba con voce chiara il suo dolore per un mondo bello che fatica sempre di più a rintracciare. Fotografia come testimonianza, come presidio, come sentinella, come memoria, come coscienza critica.

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