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TI RACCONTO LA DIVINA COMMEDIA

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EDITORIALE PROGRAMMA
ILLUSTRAZIONI DI MARILENA FERRARA

L’INTRODUZIONE
Dante non si attualizza perché è eterno. Né lo si “traduce”. Ho provato a viaggiare con Alighieri dalle bassure del peccato alle altezze vertiginose delle beatitudini divine. Transitando per il luogo della penitenza e dell’attesa.
Tre regni ultraterreni (ma ricordiamo che inferno e purgatorio appartengono fisicamente alla Terra) in cui si raccontano un mondo morale e un mondo fisico.
Si ritrae una società che proviene dalla cultura cortese e cavalleresca e l’ha sostituita in molti luoghi con le Istituzioni comunali. Ma la stessa civiltà comunale è in crisi, preda di faide, risse, volgari interessi di parte. Gli organi politici sono in mano a corrotti e corruttori, concussi e concussori. Una complessità assoluta. Personaggi dalla forte personalità e personaggi di minor rilievo; densi nodi teologici e morali; momenti di tensione alta costruiti di volta in volta attorno a paura, sgomento, disagio, attesa, stupore, inconsapevolezza, gioia, amore e odio.
C’è un’intera civiltà. Ma c’è anche l’uomo colto nella sua essenza, al di là delle contingenze di tempo e spazio.
A Brunetto Latini, sotto l’eterna pioggia di fuoco che lo tortura senza scampo e senza fine, Dante dice m’insegnavate come l’uom s’etterna. Questa eternità dell’uomo è la Divina Commedia. Per chi la vuole (ri)percorrere in modo agile, magari come premessa ad una lettura dello straordinario testo originale.

LA VITA
Gli Alighieri appartengono ai gradini bassi della nobiltà fiorentina. La casata è di formazione recente e ha nello stemma un’ala di uccello (un semivolo, in termini araldici).
Gli inizi portano a Cacciaguida, nato qualche anno prima del 1100 e voce recitante dei tre canti centrali del Paradiso. È figlio di Adamo della potente famiglia degli Elisei e sposa una Aldighieri del ramo ferrarese di quella casata. Uno dei loro figli, Aldighiero, è il capostipite.
Gli Alighieri si stabiliscono nel popolo di San Martino al Vescovo, nei pressi di via de’ Magazzini. A due passi da quella che la tradizione indica come la casa di Dante. Qui era la chiesetta di San Martino in cui Dante celebrò il matrimonio con Gemma Donati.
Attorno al 1200 nasce Bellincione, il nonno di Dante. Suo figlio Alighiero (circa 1220-1283) fu cambiavalute. Mestiere che spesso sconfinava nell’usura, ma fruttò solo un paio di piccoli poderi. Dal suo primo matrimonio, con Bella degli Abati, nacque Dante. O Durante, con tutta probabilità, al fonte battesimale. Cioè resistente, che sopporta.
Non è sicura la data di nascita. Si può collocare tra il 14 maggio e il 13 giugno 1265. Nel Paradiso Dante dice di essere nato sotto il segno dei Gemelli.
Nemmeno sull’anno, il 1265, tutti gli studiosi concordano.
Nel secondo capitolo del Trattatello in laude di Dante, Giovanni Boccaccio racconta la leggenda secondo cui Bella, prossima al parto, avrebbe avuto la visione di un grande albero di alloro e di una fonte zampillante.
Il neonato Dante si nutrì delle bacche d’alloro e si trasformò in pavone. Dante non una sola volta cita la mamma, di cui poco sappiamo. Un fugace cenno è solo nel contesto dell’incontro con Filippo Argenti (If VIII, 43-45). Bella morì quando il bambino era ancora molto piccolo. È certo il giorno del battesimo, 27 marzo 1266, un sabato santo.
Gli studi di Dante non dovrebbero discostarsi dall’usuale iter educativo. Le arti del quadrivio (teologia, filosofia, fisica, astronomia) e del trivio(dialettica, grammatica e retorica).
Attorno agli anni Ottanta, Dante conobbe Brunetto Latini.

Brunetto racconta nel Tesoretto che Firenze lo inviò presso Alfonso X di Castiglia, per chiedergli di intervenire in favore dei guelfi. Ma la vittoria ghibellina di Montaperti (4 settembre 1260) trasformò la missione in esilio. Sette anni tra Montpellier, Arras, Bar-sur-Aube e Parigi, facendo il suo mestiere, cioè il notaio. Dante ne apprezzò l’umanità e l’impegno civico.
Sono gli anni in cui si diffondono in Toscana l’ideologia dell’amor cortese e le suggestioni della Scuola Siciliana fiorita alla corte di Federico II di Svevia sulla scia della lirica provenzale. L’amor cortese è una vera e propria scuola di pensiero. Si sviluppò in diverse regioni della Francia, irradiato dalla lirica in lingua d’oc, parlata in Provenza.
Ha il suo nume tutelare in Eleonora d’Aquitania (1122-1 aprile 1204), regina consorte di Francia dal 1137 al 1152, poi regina d’Inghilterra dal 1154 al 1189 e madre di due re.
I poeti adottano lessico e strutture del feudalesimo, vassalli della loro donna. I mariti sono sempre in giro per guerra e affari. Sono le castellane ad amministrare. Gli uomini di corte che non hanno seguito il marito, vivono nella sua orbita e si dichiarano sottomessi a lei.
E siccome i matrimoni sono sempre combinati e l’amore è tutt’altra cosa, ecco l’amore di corte. Desiderio fisico e, per definizione, amore adultero.

Ma capace di nobilitare ed educare gli amanti. La vera nobiltà non è quella dello stemma. È piuttosto quella che nasce nell’animo e si traduce in un processo di educazione sentimentale. Può fiorire anche nel più umile e diseredato dei cavalieri.
È una rivoluzione culturale. Mette radici in Sicilia e poi in Toscana. Scrittori come Guittone d’Arezzo, Bonaggiunta Orbicciani, Chiaro Davanzati innestano sul tronco dell’amor cortese il tema dell’impegno civile e politico.
A Firenze, tuttavia, va maturando una sensibilità diversa. Un nobile, Guido Cavalcanti, raccoglie attorno a sé un gruppo di giovani poeti. Vogliono una lirica più fresca, più dolce. Ma anche più capace di scavare nell’animo umano e di approfondire gli aspetti psicologici. È la finezza, è la novità del dolce stile. L’autore della canzone manifesto, Al cor gentilrempaira sempre amore, è un bolognese, Guido Guinizelli (Bologna, 1237-Monselice, 1276), esperto di diritto e ghibellino.
È nella sensibilità dello stilnovismo che si inquadra il rapporto con Beatrice.
Dante la incontra una prima volta nel 1274 (ha nove anni, numero mistico) e una seconda nel 1283 (dopo altri nove anni).

Nel 1277 Dante ha 12 anni e viene combinato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Manetto Donati. Si imparenta dunque con la potente casata che diverrà punto di riferimento dei guelfi di parte nera. Il matrimonio si celebra nel 1285.
Gemma gli diede tre figli, Jacopo, Pietro, Antonia. Di un quarto, Giovanni, si trova traccia in un atto del 21 ottobre 1308. Pietro fu giudice a Verona e continuò il cognome. Gli altri due furono religiosi. Gemma non è mai nominata nella Commedia e non si sa se abbia condiviso l’esilio del marito.
Dante inizia subito dopo i vent’anni la carriera militare, come cavaliere. L’11 giugno 1289 combatte contro Arezzo a Campaldino, battaglia decisiva per affermare la supremazia fiorentina. Vi partecipa anche un altro poeta, Cecco Angiolieri. Combatte a Caprona, contro Pisa, il 16 agosto 1289.
Il 18 gennaio 1293 furono promulgati gli Ordinamenti di giustizia di Giano Della Bella che sbarravano la strada delle cariche pubbliche ai membri dell’antica nobiltà. Il 6 luglio 1295 i cosiddetti Temperamenti ne attenuarono il rigore. I nobili potevano aspirare alle cariche pubbliche iscrivendosi a un’arte, cioè a una corporazione.
Dante si iscrisse all’arte dei Medici e Speziali. Fu membro del Consiglio del Popolo (novembre 1295-aprile 1296). Poi fu nel Consiglio dei Savi che riformò le norme per l’elezione dei priori. E quindi, dal maggio al dicembre del 1296, fu membro del Consiglio dei Cento, l’organo dello stato che si occupava degli aspetti economici. Tenne la prima seduta il primo di ottobre 1289.
Firenze, città guelfa, era dilaniata da lotte intestine. Di qua i guelfi di parte nera, conservatori e capeggiati dalla famiglia dei Donati (Corso Donati sarà acerrimo nemico di Dante), di là i guelfi bianchi, aperti ai ceti popolari e autonomi rispetto al papa. Dante sarà tra questi ultimi, vicino ai Cerchi.
Nel 1300 è priore. I priori erano i rappresentanti delle arti. Sei, uno per ogni sestiere della città. La collegialità era formale perché ogni priore esercitava il potere per un bimestre. A Dante tocca quello compreso tra il 15 giugno e il 15 agosto. Quei due mesi sono l’origine di tutti i guai futuri.
Benedetto Caetani, dal 1294 papa col nome di Bonifacio VIII, vuole mettere le mani sulla ricca Firenze. In quel 1300 proclama il primo giubileo.
Rende possibile acquisire indulgenze fin dal Natale dell’anno precedente. Un bel cespite di guadagno.
In Bonifacio Dante vede l’emblema della corruzione della Chiesa. Lo condannerà all’inferno tra coloro che fanno commercio della religione. Il papa invia a Firenze Matteo d’Acquasparta, un francescano fatto cardinale da Niccolò IV. Frate Matteo è a Firenze ai primi di giugno. Ufficialmente ha il compito di pacificare il territorio, in realtà appoggia i neri.
Il 13 giugno si vota e Dante è fra gli eletti. L’Acquasparta pesca nel torbido e sfrutta risse pressoché quotidiane nelle vie di Firenze per ottenere la balìa, una sorta di dittatura.

I priori non si sentono le mani legate e vogliono ribadire la loro autonomia dall’inviato papale. Per stemperare le tensioni mandano in esilio otto neri (in Umbria) e sette bianchi (in Lunigiana). Tra di loro è l’amico Guido Cavalcanti, destinato a morire a Sarzana, di lì a qualche mese.
Ancora gioco duro del frate, che chiede truppe a Lucca per imporre il proprio arbitrato. Odiato da tutti, anche dal popolo. Il 15 luglio subisce un attentato. I priori per attenuarne l’ira gli regalano una coppa d’argento, riempita di 2.000 fiorini d’oro. Rifiuta. È ben altro che vuole.
Quando, a settembre, viene revocato l’esilio (ma solo per i sette bianchi!) dai priori usciti dalle elezioni successive a quella di Dante, il frate cardinale scaglia su Firenze anatema, una forma di maledizione più pesante perfino della scomunica.
Il 22 novembre Bonifacio sollecita per lettera il clero francese a fare pressioni per un intervento di Carlo di Valois, fratello di Filippo IV. L’11 luglio 1301 Carlo è già in Italia. Scende verso Roma sfiorando i confini di Firenze e facendo sosta a Siena. Il 5 settembre Bonifacio lo investe del titolo di capitano generale dei territori della Chiesa. Lo invia in Toscana come pacificatore.
I bianchi fiorentini mandano allora un’ambasceria al papa per cercare di arginare l’irreparabile. Ne fanno parte Maso Minerbetti e Guido Ubaldini degli Aldobrandinelli da Signa, detto Corazza.

E Dante.
Nulla ferma Bonifacio e Carlo, tuttavia. Carlo approfitta del primo atto di disordine per mettere a ferro e fuoco Firenze. Il 9 novembre diventa podestà Cante Gabrielli da Gubbio, fantoccio del papa.
Firenze arde e Dante è bloccato a Roma.

Comincia il periodo delle purghe. Chi è contro Bonifacio è bandito. Due successivi provvedimenti (27 gennaio e 10 marzo 1302): Dante è travolto dalla valanga di condanne che si abbatte sui Cerchi e sui loro sodali. Il poeta si trova solo, isolato anche dai compagni di sventura che gli rimproverano l’intransigenza.
Un processo politico, basato sul sentito dire. Esclusione perpetua dalle cariche pubbliche, multa di 5.000 fiorini piccoli, due anni di confino. Per baratteria, il reato di chi trae illeciti profitti o guadagni da pubblici uffici. Dante se ne sarebbe macchiato durante il priorato.
La condanna suona falsa e pregiudiziale. Ma è formalmente ineccepibile, costruita rigorosamente sulle parole pronunciate da Dante in alcuni suoi durissimi interventi. Con Dante furono condannati Palmieri Altoviti, Lippo di Becca e Orlanduccio di Orlando. Non si presentarono a pagare l’ammenda e la condanna divenne a morte.
Da questo momento la vicenda esistenziale di Dante Alighieri coincide con la storia del suo esilio. Alcuni colpi di mano furono messi in atto da un gruppo di esuli, organizzato in esercito in cui Dante rivestiva i gradi di capitano. Nacquero, nel castello di Gargonza in val di Chiana e a San Godenzo (oggi nell’area metropolitana di Firenze), improbabili alleanze tra ghibellini fuoriusciti da tempo e guelfi freschi di esilio.

L’alleanza produce qualche risultato nel 1302 con la presa dei castelli di Figline e Piantravigne, la vittoria in alcune scaramucce a Serravalle, Gaville e Ganghereto, la sollevazione di Montagliari e Montaguto. Ma si rivela tremendo errore politico. L’alleanza coi ghibellini fornisce alibi a Carlo e Bonifacio.
Dante, nei primi mesi del 1303, aveva trovato impiego come segretario presso il signore di Forlì, Scarpetta Ordelaffi. Ai suoi ordini tentò un nuovo colpo di mano con esiti disastrosi perché gli esuli furono sconfitti dal podestà di Firenze, Fulcieri da Calboli, nel Mugello, a Castel Puliciano. Dante è poi a Verona non si sa se in veste ufficiale, come ambasciatore dei bianchi presso gli Scaligeri, o come rifugiato politico. Da Verona si allontana forse in seguito alla nomina a legato e pacificatore di Toscana da parte di Benedetto XI (al secolo il trevisano Niccolò Boccassini, succeduto a Bonifacio il 22 ottobre 1303), del cardinale Niccolò da Prato. Ancora una speranza di rientro ed ennesima delusione.
È il 1304. Il 20 luglio gli esuli sono nuovamente sconfitti alla Lastra in val Mugnone (ma si combatté anche entro le mura di Firenze). Dante già aveva deciso di far parte per se stesso, guadagnandosi qualche sospetto di tradimento.
La notizia della sconfitta lo raggiunge ad Arezzo proprio nel giorno in cui vi nasceva Francesco Petrarca. Che ricorderà la coincidenza in una lettera al Boccaccio del 20 luglio 1366.
L’esule ormai senza speranza prese la strada del nord. Si recò forse a Bologna (1305) e certamente a Padova (1306) e nella Marca Trevigiana, alla corte di Gherardo III da Camino. Fu anche a Venezia e nelle città circostanti. È probabile che tra 1304 e 1305 abbia conosciuto Giotto, impegnato a Padova nella cappella degli Scrovegni.
Fu in Lunigiana, dove lo chiamarono i Malaspina, Franceschino, Corradino e Moroello, forse per raccomandazione del comune amico Cino dei Sigibuldi da Pistoia (1270-1336), giurista e poeta vicino allo stilnovismo.
È la primavera 1306 e Dante ricambia con quello che sa fare, il politico. Cerca di mediare tra i Malaspina e il vescovo-conte di Luni, Antonio Nuvolone da Camilla. Un successo. Ne scaturisce infatti, il 6 ottobre del 1306, la cosiddetta pace di Castelnuovo. Corrado Malaspina il Giovane avrà la sua apoteosi nell’antipurgatorio.
Dante è quindi ospite, nel Casentino, di Guido di Simone da Battifolle. Risiede nel palazzo di Poppi. Si vuole che qui, alla corte dei conti Guidi, nel 1307, abbia cominciato a scrivere la Commedia. È probabile però che gli inizi del poema vadano retrodatati (1304).
Inquietudine e precarietà tormentano il poeta. È probabilmente a Lucca, forse a Parigi, tra 1309 e 1310.
Si trova a Forlì quando, nell’ottobre del 1310, lo raggiunge la notizia che sta scendendo in Italia il nuovo imperatore Arrigo VII. Sta per arrivare il grande il pacificatore? Si profila per il poeta la possibilità di rientro in Firenze? È praticamente certo un incontro tra Arrigo e Dante, anche se è difficile dire in quali circostanze.
Enrico / Arrigo VII di Lussemburgo (1275-24 agosto 1313) è re di Germania dal 27 novembre 1308 su designazione dei sette Elettori e poi imperatore del Sacro Romano Impero.
Ricevette la corona imperiale il 29 giugno 1312 nella basilica di San Giovanni in Laterano. Il rito fu celebrato da tre cardinali ghibellini che gli si erano uniti durante la discesa in Italia. Non dal papa venuto dalla Guascogna, Clemente V (al secolo Bertrand de Got, 1264-20 aprile 1314) che nel 1307 aveva trasferito ad Avignone la sede del papato.
Ma non riuscì ad Arrigo la missione che pure tanta speranza aveva suscitato in Dante, il quale diffuse una lettera indirizzata ai governanti italiani perché lo accogliessero benignamente.
Arrigo si trovò contro Clemente V, Filippo IV di Francia e Roberto d’Angiò, re di Napoli. Morì il 24 agosto 1313, un venerdì, a ora nona nella chiesa di San Pietro a Buonconvento, una trentina di chilometri da Siena. Certamente avvelenato con l’arsenico, come ha rivelato un esame delle ossa.
Grande è la delusione di Dante. Accetta, ancor prima che la parabola di Arrigo VII sia conclusa, l’invito di Cangrande della Scala e si reca a Verona.
Aveva già sperimentato (1303-1304) l’ospitalità scaligera, con Bartolomeo, fratello maggiore di Cangrande. Il suo successore, Alboino, aveva avuto dei contrasti col poeta che si era allontanato. Ma nel 1312 Cangrande richiama l’intellettuale di prestigio. Che ne tesse l’elogio, nel Paradiso, per bocca di Cacciaguida.
A Verona Dante può già esibire il testo delle prime due cantiche. Non ha mai smesso di lavorare. Si può indicare in Lucca l’ambiente in cui ha prodotto l’Inferno e il Casentino per il Purgatorio. Dante revisiona profondamente le due cantiche e nel 1316 pone mano alla terza fatica.
Il 29 agosto 1315 si combatté una sanguinosissima battaglia a Montecatini tra i ghibellini comandati da Uguccione della Faggiuola e guelfi lucchesi e Fiorentini. Migliaia i morti. Firenze, contro ogni aspettativa, fu pesantemente sconfitta. Ma Uguccione non strinse d’assedio la città e non sfruttò il vantaggio. Firenze si riprese e chiuse ancora una volta le porte ai suoi fuoriusciti.
Troppe volte Dante ha confidato nei nemici di Firenze. Tra il 1318 e il 1321 è a Ravenna, ospite di Guido Novello da Polenta. Non sappiamo i motivi per cui si allontanò da Verona, dopo ben sei anni. Tuttavia i rapporti con gli Scaligeri non si interruppero del tutto. Il 20 gennaio 1320 Dante era a Verona per discutere la sua Quaestio de aqua et terra.
A Ravenna nacque, attorno a Dante, un cenacolo letterario. Fu scuola di formazione per giovani intellettuali come Giovanni Quirini e Pieraccio Tedaldi, che lo definirono dolce maestro. Ne fecero parte anche i figli Pietro e Jacopo.
Dante ricambia con le sue abilità di ambasciatore. Deve mediare tra Venezia e Ravenna, aspramente divise da contrasti commerciali. Non sappiamo se il governo della Serenissima gli abbia dato udienza e quali furono gli esiti dell’ambasceria.
Fatale Venezia, comunque.
Dante deve tornare via terra. Sulla strada del ritorno, nelle valli di Comacchio, contrae la malaria. Ha 56 anni. La malattia lo uccide al suo rientro a Ravenna, nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321.
I riti funebri furono celebrati nella chiesa ravennate di San Pier Maggiore (oggi San Francesco).
Le sue spoglie mortali (tra l’altro reclamate da Firenze quando, qualche anno più tardi, Boccaccio fece riscoprire ai Fiorentini il loro grande concittadino) furono smarrite, poi ritrovate abbastanza casualmente, infine spostate durante l’ultimo conflitto mondiale per timore dei bombardamenti.
Oggi il visitatore di Ravenna può raccogliersi in ricordo nella cappella costruita tra 1780 e 1781 dall’architetto Camillo Morigia su commissione del cardinale Luigi Valenti Gonzaga.
Siamo di fianco alla chiesa di San Francesco.

 

LE OPERE

Il fiore

232 sonetti attribuiti da alcuni a Dante, che li avrebbe composti durante un soggiorno in Francia tra 1286 e 1287. La datazione è molto controversa. Lo schema è quello della corona di sonetti, elaborato da Guittone d’Arezzo. Una corona è un insieme di sonetti legati da un unico tema.

 

Detto d’Amore

Anche in questo caso l’attribuzione a Dante è controversa. Si tratta di un poemetto di 480 settenari a rima baciata (stesso metro del Tesoretto e del Favolello di Brunetto Latini). Ispirato a sua volta al Roman de la Rose, in qualche modo completa Il fiore. La prima parte (vv. 1-270) tratta degli aspetti psicologici di Amore, la seconda di quelli sociali.

 

Le rime

Dante non raccolse mai un proprio canzoniere. Solo nel Convivio e nella Vita Nuova il poeta espose in modo organico parte della propria produzione. Le Rime riuniscono liriche che vanno dalle prove giovanili a quelle della maturità. Liriche di ispirazione guittoniana seguite da quelle prodotte quando entrò nell’orbita dei due Guidi, Guinizelli e Cavalcanti. Tono e contenuti sono eterogenei. Dalle liriche d’amore alle tenzoni con Forese Donati (cugino alla lontana di Gemma, la moglie di Dante, e protagonista dei canti XXIII e XXIV del Purgatorio) e Dante da Maiano, il poeta fiesolano (?) contemporaneo e omonimo del nostro.

 

Vita Nuova

Vita rinnovata e sublimata da Amore. È la prima opera certa di Dante, composta dopo il 1292. Il testo alterna versi a parti in prosa che legano le liriche conferendo loro un andamento narrativo. 25 sonetti, cinque canzoni (una di una sola stanza), una ballata per raccontare l’amore per Beatrice.
Dapprima Beatrice concede il saluto, salvezza per il poeta e sorgente di beatitudine. Poi il saluto viene negato e la sofferenza è grande. Ma quando Beatrice muore (la morte è annunciata in un sogno premonitore) nasce un dialogo con l’anima dell’amata.

 

Convivio

Tra ultimo periodo fiorentino e primi anni d’esilio. È il latino convivium, il banchetto di sapienza. Il poeta, rivolgendosi a chi voglia dedicarsi alla vita pubblica, raccoglie le briciole di sapere che cadono dal tavolo degli eruditi. Enciclopedia pratica e perciò scritta in volgare. Dante vuole commentare 14 proprie liriche. Tuttavia il Convivio si ferma dopo quattro trattati, il proemio (13 capitoli) e il commento a tre canzoni: Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, Amor che ne la mente mi ragiona, Le dolci rime d’amor ch’i’ solia. Nel secondo trattato Dante insegna come si debbano leggere le scritture: Quattro sensi. L’uno si chiama litterale, e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole… L’altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna (l’esempio è Orfeo che ammansisce belve e muove montagne)… Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro… Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso. Le cose significate ci danno l’immagine del mondo metafisico

 

De Vulgari Eloquentia

In latino, stessi anni del Convivio, i primi dell’esilio. Previsto in quattro libri, si arresta al capitolo XIV del secondo. Dante vuole alimentare l’insegnamento del volgare, linguaggio naturale, appreso da piccoli e parlato quotidianamente. Il linguaggio, unico nella bocca di Adamo, si è poi differenziato in parlate diverse. Dante enuncia la dottrina del volgare illustre.
Nessun dialetto italiano si avvicina al suo ideale. Dovrebbe essere illustre (illumina le cose e conferisce prestigio a chi lo usa); cardinale (nel senso di cardine attorno a cui girano le parlate regionali); aulico (si parlerebbe nella reggia di un ipotetico re d’Italia); curiale (il linguaggio delle corti italiane e dei tribunali). Discorso non tecnico ma politico. La frammentazione italiana ostacola l’affermazione di una lingua unitaria.

 

Monarchia

In tre libri e in latino. Monarchia, con riferimento preciso all’Impero, da difendere dalle prevaricazioni della Chiesa e dall’opposizione guelfa.
L’Impero è voluto da Dio per realizzare la felicità. L’autorità discende sull’imperatore direttamente da Dio e non ha fondamento la pretesa papale di ratificare la scelta degli elettori. I due soli: esiste totale eguaglianza tra imperatore e papa per quanto riguarda l’origine del potere e la funzione che essi assolvono. Datazione controversa.

 

Epistole

Le lettere sono 13, scritte in latino durante gli anni dell’esilio e incentrate prevalentemente su problematiche politiche. Nell’ordine: al cardinale Niccolò da Prato (primavera del 1304); ai conti Oberto e Guido da Romena per la morte dello zio Alessandro (1304); a Cino da Pistoia in accompagnamento del sonetto Io sono stato con Amore insieme (prima del 1306); al marchese Moroello Malaspina (1307-1308); ai regnanti d’Italia perché accolgano Enrico VII (1310); così una epistola ai Fiorentini (31 marzo 1311) e una all’imperatore stesso (17 aprile 1311). Legate a occasioni marginali le tre successive. L’XI è indirizzata ai cardinali d’Italia dopo la morte di Clemente V. La XII è indirizzata ad un amico fiorentino: Dante rifiuta le proposte per un suo possibile rientro in Firenze. Forse l’amnistia del 19 maggio 1315. La XIII (paternità discussa) è la dedica a Cangrande della Scala del Paradiso (prima del 1320).

 

Egloghe

In latino, scritte a Ravenna tra il 1319 e il 1321. Sono due componimenti di argomento bucolico. Risposta a Giovanni del Virgilio che gliene oppose altre due. Lo scambio avvenne per il rimprovero che il latinista bolognese rivolse a Dante, colpevole di ricercare l’alloro poetico scrivendo in volgare e non in latino.

 

Quaestio de aqua et terra

Il 20 gennaio 1320 Dante discute a Verona, nella chiesa di Sant’Elena, la struttura del cosmo secondo il sistema aristotelico-tolemaico che il poeta ha fatto proprio nell’architettura del Paradiso. In latino.

 

ANTOLOGIA
INFERNO
Canto V / Cerchio II

I lussuriosi, Minosse, Didone, Paolo e Francesca
Dante discende dal primo al secondo cerchio. Gli si para innanzi Minosse. Il dannato comprende a quale girone è destinato da quante volte quel giudice infernale si gira la coda attorno al corpo. Dannati e carnefici accomunati nella bestiale ripetitività della tortura subita e della tortura inferta.
Dante sta per incontrare una donna eccezionale. Prende l’iniziativa avviando una relazione con un ribaltamento totale rispetto alla letteratura amorosa. Francesca è la nuova Ginevra, la bella e tormentata moglie di Artù, che vede Lancillotto innamorato perdutamente e tuttavia legato dal giuramento di fedeltà al re. Ginevra gli si avvicina, lo prende per il mento, accosta la bocca e lo bacia con voluttà. Stabilisce il possesso su quell’uomo. È quanto fa Francesca.
Il canto è su tonalità drammatiche. Minosse che nell’Eneide era giudice autorevole, qui è mostro grottesco. E anche con lui Virgilio va per le spicce, quasi uno schiaffo.
Luogo orribile, d’ogne luce muto. E una turba di anime, preda di una bufera che dura per l’eternità. Travolte dalla tempesta come in vita furono travolte dalla passione.
I contrari venti, i sentimenti contrapposti. Dante incontra per la prima volta chi ha violato una norma morale. Il peccato più complesso, il tema dell’amore. L’amore nobilita e fa emergere gli aspetti più alti dell’animo umano. Come può sfociare nel peccato? Cosa corrode ciò che dovrebbe condurre alla purezza e alla bellezza?
La bufera infernale passa davanti alla ruina, forse indizio del terremoto generatosi alla morte di Cristo. Bestemmiano, le anime che la ragion sommettono al talento. I lussuriosi, che si lasciarono prendere dagli appetiti sessuali, rinunciando alla ragione che avvicina a Dio. Vivono in un freddo tempo, un inverno perpetuo.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, Amor, ch’a nullo amato amar perdona (vorrà dire che l’amore non può non turbare e, in qualche misura, coinvolgere la persona amata), Amor condusse noi ad una morte. Le regole di questa esperienza e il rovinoso sbocco.

Dalla folla di dannati si stacca una schiera in lunga riga. Semiramide, che libito fé licito in sua legge. È la regina degli Assiri che promulgò una legge che autorizzava l’incesto per giustificare le sue perversioni. Poi Cleopatra e Didone che per Enea tradì il giuramento fatto sulla tomba del marito Sicheo.
Quindi Elena, Achille, Paride, Tristano. Virgilio indica più di mille figure. Dante è colto da pietà, turbamento, angoscia. Si confronta con una passione violenta e rovinosa, così lontana dalla lirica provenzale e siciliana, dallo stilnovismo.

Francesca da Polenta, figlia di Guido il Vecchio, e Paolo Malatesta. Di famiglia ravennate la prima, riminese il secondo. Di Paolo, Francesca aveva sposato il fratello Gianciotto (o forse era stata a lui promessa) nel quadro di un’alleanza politica. Gianciotto li aveva sorpresi assieme e uccisi.
Francesca e il suo dolore. Ringrazia il poeta. Gli dice che pregherebbe per lui ma la preghiera non sarebbe accettata. Non le è amico il re dell’universo.
Parla di Ravenna: Siede la terra dove nata fui / su la marina dove ’l Po discende / per aver pace con i seguaci suoi. Il Po, umanizzato nel trovare pace con gli affluenti.
Poi Francesca evoca. Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, dice, esattamente come Guido Guinizelli, Al cor gentile rempaira sempre amore.
Francesca è figlia di una cultura raffinata ed elegante. Racconta la sua terra, la sua storia, le sue letture. Ma non può far coincidere talento (i desideri sensuali) con la ragione (la purezza e la corretta tensione morale).
Dante alla fine sviene.
Quelle che hanno perduto Francesca sono le sue letture giovanili. Paolo e Francesca leggono una vicenda del ciclo arturiano. Interrompono, con tremore, la lettura perché sentono ingrandirsi il sentimento, non sanno come controllarlo. Quando leggemmo il disïato riso / esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciòtutto tremante. Lancillotto bacia Ginevra e Paolo bacia Francesca.
Nel rapporto tra Ginevra e Lancillotto, chi funge da intermediario tra i due è il siniscalco Galehaut. Dunque tra Paolo e Francesca, il libro è il vero galeotto, perché li costringe a rivelarsi.

 

PURGATORIO
Canto I / Antipurgatorio

La via della risalita, Catone
La luce dopo il buio. Questo è il luogo dell’attesa. Le anime, già salve, aspettano di salire in paradiso. Un’alba luminosa (ma ancora si vedono le stelle) accoglie i due poeti, fuori della burella.
Il tema dell’attesa. Catone, severo custode. Di lì a poco farà, con modi spicci e burberi, fretta alle anime. Non si perde tempo quando c’è da espiare.
Lo scopo è affrettare la visione di Dio.
Dante sta per salire la montagna. Sarà la narrazione struggente dello smarrimento umano e di come questo si possa recuperare. Noi andavam per lo solingo piano / com’om che torna a la perduta strada, / che ’nfino ad essa li pare ire in vano.
Dante invoca le Muse, in particolare Calliope, la musa dell’epica. Quella di Dante è impresa solitaria ed eroica. Dovrà adeguare le scarse possibilità del suo ingegno alla grandezza della missione. La navicella del mio ingegno.
Che le Muse intervengano con la potenza che permise loro di sconfiggere le Pieridi, poi trasformate in gazze.
Nel mattino risplende Venere, simbolo d’amore e di concordia. A oriente, preannuncio dello spuntare del sole. E brillano quattro stelle. Viste solo dalla prima gente, cioè da Adamo ed Eva. Gli uomini non le vedono, e non è solo dato astronomico, ma morale. Sono simbolo di prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.
Appare un vecchio maestoso dai capelli bianchi. La barba cade in doppia lista sul petto. Sul volto brilla la luce delle quattro stelle. Catone l’Uticense.
Pompeiano, pagano e suicida per non cadere nelle mani di Cesare. Emblema della verità non solo politica ma anche morale (che di quella politica è garanzia). Un profeta biblico, sacerdote del rito che abilita Dante a proseguire il viaggio. Siamo di fronte al gesto sublime del suicidio/martirio già lodato da san Tommaso nella Summa Theologiae.
Si presenta con estrema durezza. Crede che i due siano dannati evasi dall’inferno o due anime cui, per una legge che non gli è nota, è consentito sovvertire l’ordine divino. Son le leggi d’abisso così rotte? Virgilio spiega.
Dante è un vivo e lui ha avuto, da una donna inviata dal cielo, il compito di guidarlo. Risiede nel limbo, lì dove si trova anche la moglie di Catone, Marzia. In nome suo Virgilio chiede benevolenza. E al suo ritorno le parlerà del marito. Catone è duro. Marzia appartiene al suo passato. Ora, gli basta solo sapere che i due sono lì per ordine di una donna del cielo. Non serve altro. Istruisce Virgilio.

Dovrà cingere con un giunco senza nodi la fronte di Dante e lavargli il viso perché non si presenti col volto offuscato davanti al primo degli angeli custodi. Troverà i giunchi nella parte più bassa, dove battono le onde. Tessuto simbolico denso. Il giunco è l’umiltà che vince ogni battaglia. E solo una pianta che sa piegarsi e resistere, può allignare su un lido battuto dall’acqua.
Dante scende, …sì che di lontano / conobbi il tremolar de la marina.
Giungono in una landa in cui il sole non ha ancora fatto evaporare la rugiada. Virgilio la raccoglie e lava il volto di Dante. E sulla spiaggia svelle un giunco per cingergli la fronte. Dove strappa, immediatamente ne spunta un altro. Le virtù non si consumano mai. Anzi crescono quanto maggiore è l’uso che se ne fa.

 

PARADISO
Canto XXXIII / Empireo

Bernardo prega Maria, la visione della divinità
La preghiera più intensa di tutta la storia letteraria.
Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio, // tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura. // Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore. // Qui se’ a noi meridïana face / di caritate, e giuso, intra ’mortali, / se’ di speranza fontana vivace. // Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz’ali. // La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre. // In te misericordia, in te pietate, / in te magnificenza, in te s’aduna / quantunque in creatura è di bontate.
A Dante ora servono adesione emotiva e l’abbraccio più vasto di conoscenze e cultura. Nel segno del veltro, dell’ansia di un ordine da ricostruire, della fiducia che questo sia possibile.

Dante ha condiviso col lettore l’angoscia della partenza, i trasalimenti e i ripensamenti, le incertezze e le perplessità, le rivelazioni. Questo racconta, non la visione di Dio che è per definizione indicibile.
Maria, vergine ma anche madre, ha saputo accettare con umiltà un ruolo difficile e questo l’ha innalzata sopra ogni altra donna. Lei è meta certa del progetto di redenzione. Lei ha nobilitato a tal punto la natura umana che colui che ne è stato creatore non ha disdegnato di farsi sua creatura.
Con l’aiuto di Maria, il pellegrino giunto alla meta chiede a Dio, autore della sua imperfezione, di accettare la sua imperfezione.
Nel ventre di Maria, Cristo ha preso forma umana e ha riacceso l’amore di Dio verso gli uomini. Per questo il potere della madre divina è immenso.
I voti e le domande di grazia, se disgiunti da lei, non hanno ali per volare.
Nella parte finale la preghiera si intride della storia personale di Dante.
Or questi, che da l’infima lacuna / de l’universo infin qui ha vedute / le vite spiritali ad una ad una, // supplica a te
La preghiera è accolta con gioia. Giunge, come in un gioco di specchi, alla sorgente di ogni luce, nella quale solo allo sguardo di Maria è concesso penetrare. Anche Dante può guardare …ché la mia vista, venendo sincera, / e più e più intrava per lo raggio / de l’alta luce che da sé è vera…
L’ineffabilità estrema. Quello che Dante ha visto è troppo superiore alla memoria e alle parole. Oltraggio, da oltre, al di là. Resta una sensazione di infinita dolcezza. Il ricordo è neve al sole, labile come le foglie su cui la Sibilla scriveva i responsi.
Dante, i cui occhi tanto hanno faticato ad abituarsi alla luce del paradiso, ora sente che si perderebbe se distogliesse lo sguardo da Dio. Lì è radunato tutto ciò che nell’universo si squaderna, si disperde. È letargo l’attimo della visione. Maggior oblio che i venticinque secoli trascorsi dall’impresa degli Argonauti.
Il pellegrino mistico percepisce un mutamento nella profondità della visione.
Non è Dio, perfezione assoluta, a mutare. È la sua vista che cresce di capacità e dunque avverte in modo sempre nuovo. Dante vede la Trinità, tre cerchi di tre colori uguali che si riflettono l’uno nell’altro come arcobaleno da arcobaleno. I cerchi coesistono ma misteriosamente. E subito dopo l’altro incommensurabile mistero: la compresenza in Cristo della doppia natura, umana e divina. In uno dei tre cerchi, quello che sembra generarsi dal primo, si scorge la figura umana. Capire come divinità e umanità siano nello stesso luogo, nella stessa visione, assomiglia al vano sforzo dello studioso di geometria che cerca la quadratura del cerchio.
Il poeta non ha penne per volare. La comprensione arriva, in modo misterioso, per una folgorazione. Dio muove il desiderio di sapere (desio) e la voglia di adeguare la volontà (velle).
A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, // l’amor che move il sole e l’altre stelle.

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