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Tanaquil l’etrusca
TANAQUIL L’ETRUSCA
ZANETTI EDITORE MONTEBELLUNA
Euro 15,00
Gli intrighi, il sangue, l’amore
il mistero degli Etruschi
 
Tanaquil è l’enigmatica regina
che tesse le sue trame tra Etruria e Roma
 
un grande affresco storico
che è anche avvincente “giallo”

 

La copertina è di Luca Genovese – Cartograph ha curato la cartina geografica dei luoghi.

Alta, la regina, e ancora bellissima. Il volto ovale, gli occhi scintillanti e azzurri, i capelli nerissimi raccolti indietro e acconciati in una treccia lunga. Le sue pupille, grandi e chiare come il cielo, vedevano quello che agli altri era celato, oltre ogni velo del tempo, oltre ogni offuscamento della memoria e ogni inganno dei sensi….

Così Mazzocato, traduttore della grande storiografia latina di Tacito e Livio, presenta Tanaquil, l’enigmatica regina etrusca, sposa di Tarquinio Prisco.
Nella natia Tarquinia, la capitale del popolo rasna, conservatrice e un po’ razzista, il giovane mezzosangue Tarquinio non può fare carriera politica. Allora Tanaquil taglia i ponti col passato e lo conduce a Roma, patria giovane, la nuova frontiera. Lì, grazie a lei, Tarquinio diviene re. Amato, temuto, monarca assoluto per 35 anni. Un giorno, mentre sta amministrando giustizia nel suo palazzo, Tarquinio viene ucciso. Prende le mosse una vicenda di indagini, di dubbi, di ricerca delle cause e dell’identità degli assassini.
Mazzocato scrive un coinvolgente giallo che è viaggio inedito nei misteri del mondo etrusco e indagine sui primordi della civiltà romana E anche esplorazione dell’anima di una donna, ad un tempo dolce e durissima, capace di sovvertire l’ordine costituito, gli affetti familiari, la propria storia personale.

La vernice di TANAQUIL L’ETRUSCA è avvenuta domenica 5 agosto nella sala conferenze dell’hotel Nigritella di Santa Fosca di Selva di Cadore. A presentare il libro e l’autore, il critico veneziano Paola Scarpa che ha sottolineato come quest’opera abbia un po’ spiazzato tutti i lettori abituati alla narrazione di vicende venete.
L’autore ha ricordato che “in fondo uno scrittore scrive sempre lo stesso libro” e ha sottolineato, ad esempio, la parentela stretta di Tanaquil con Tomaso, il protagonista de IL CASO PAVAN. Identica inquietudine, identica ricerca del bene e del male, perenne indagine sui misteri grandi della vita.

Per quanto un uomo sia accorto,
gli è impossibile spezzare l’ineluttabilità del fato,
perché l’invidia per il potere
rende malfida e ostile ogni situazione,
anche tra le mura domestiche.
(Tito Livio, Ab Urbe condita, I, 42, 1)
Proponiamo il primo capitolo
Straordinarie sono le conoscenze
che gli Etruschi possiedono,
utili a decifrare
l’accendersi delle folgori nel cielo.
Ma c’è una grande differenza tra noi, Romani, e loro:
noi siamo consapevoli che lo scoccare dei fulmini è dovuto
ad un urto tra due nubi,
loro, al contrario, credono che le nubi si scontrino
per far scoccare i fulmini.
Per dirla con altre parole:
gli Etruschi attribuiscono ogni cosa alla divinità
e dunque sono convinti che gli eventi
non abbiano un senso semplicemente perché accadono.
Pensano invece che accadano
perché devono rivelare qualcosa.
 
(Seneca, Quaestiones naturales, II, 32,2)
 

Nell’aria si avvertiva l’odore del fumo.
Giù nella vallata, proprio dove il fiume formava la grande ansa e affiorava l’isola sacra al padre Tevere, ancora i falò alzavano le loro fiamme e ancora qualche pastore si attardava a spingere i buoi e le pecore attraverso i fumi sacri a Pale, la dea che purificava gli armenti, li preservava dalle razzie, li difendeva dalle malattie e assicurava abbondanti foraggi.
Erano i giorni festosi che riportavano la gioia dell’estate ormai prossima e la memoria del grande padre fondatore Romolo Quirino.
Sangue. Sangue ovunque, nel palazzo del re.
Sulla soglia, fino alle colonne, alte e ostili nel cielo ancora luminoso della sera incipiente. Sangue nella grande sala delle udienze e anche nelle stanze più lontane. I servitori e le ancelle avevano versato acqua in abbondanza, ma non erano riusciti a cancellare tutte le tracce del delitto orrendo.
Tanaquil si fermò un attimo sulla porta, stordita, appoggiandosi allo stipite. Il profilo delle colonne tagliava la linea dell’orizzonte, nitida, tersa. Si girò verso l’interno, guardò il seggio dal quale fino a poche ore prima Tarquinio aveva pronunciato sentenze e dettato leggi.
Vuoto.
Non era così che aveva pensato la sua vecchiaia, non così doveva venire la morte del suo uomo. E non c’era un simile presagio di morte, quando, tanti anni prima, aveva deciso di lasciare Tarchna, la città in cui era nata, che amava più di ogni altro luogo al mondo e in cui era diventata una straniera. Tarchna era il centro dei popoli del mare perché, alle origini stesse della sua gente, lì vicino era apparso Tagete, il vegliardo bambino che aveva rivelato tutti i segreti dell’aruspicina e della divinazione ad un vecchio contadino.
Al centro della stanza, un’ ancella stava alimentando il fuoco nel grande bacile di bronzo, sopra il quale veniva sacrificato ogni mese il miglior ariete del miglior gregge di Roma.
Dopo il sacrificio, i senatori, che col loro consiglio sostenevano il re, partecipavano alla stessa mensa. Al bagliore intermittente delle fiamme, dalle pareti occhieggiavano le immagini del grande primogenitore Italo e del padre Sabino, piantatore di viti. Le aveva dipinte un artista venuto da Oriente.
Da un lato l’effigie austera e misteriosa di Saturno assieme a Giano, dal doppio volto. Dalla parte opposta l’antico re Pico, condottiero in pace e in guerra degli Aborigeni e straordinario conoscitore dell’arte divinatoria, era raffigurato proprio nell’attimo in cui la malvagia maga Circe lo trasformava in picchio verde, l’uccello di ogni profezia. Le profezie…
Non c’era tutto quel sangue nel rito celebrato tanti anni prima.
Ormai era buio. E tuttavia il rumore della folla non cessava. Alle ancelle che le stavano vicino, a loro volta annientate dal dolore, ai servi che montavano la guardia alla porta del palazzo per impedire a chiunque di entrare, Tanaquil raccomandava il silenzio, la calma. Non aveva bisogno di parlare, le bastava un cenno della mano aperta e un ordine dato con gli occhi.
Alta, la regina, e ancora bellissima. Il volto ovale, gli occhi scintillanti e azzurri, i capelli nerissimi raccolti indietro e acconciati in una treccia lunga.
Era evidente a tutti che le sue pupille, grandi e chiare come il cielo, vedevano quello che agli altri era celato, oltre ogni velo del tempo, oltre ogni offuscamento della memoria e ogni inganno dei sensi.
Infinite volte, quando c’era una decisione importante o piccola da prendere, suo marito, i suoi figli, i fratelli, i patrizi di Roma e perfino popolani e servi si erano rivolti a lei, attendendo risposta, un responso definitivo.
E tuttavia Tanaquil, a due passi dalla stanza in cui il suo uomo stava morendo, si sentiva sola, incapace di decidere. Come se all’improvviso fosse stata travolta da uno dei naufragi che popolavano le più antiche leggende del popolo del mare.
Davvero nulla della conoscenza le era precluso e ogni segno le era chiaro monito di ciò che stava per accadere.
Ma quel delitto non lo aveva letto in nessun presagio: a che le erano serviti gli infiniti segreti dell’aruspicina e della divinazione? Si sentiva lucida, consapevole sul da farsi e insieme affranta, smarrita.
Soprattutto la impauriva la solitudine e le riusciva difficile pensare alla sua vita ora che già Charun, il demone dal naso adunco e dalla pelle che aveva il colore stesso della morte, stava per infiggere il chiodo che segnava il limite ultimo della vita del suo uomo.
Come erano state convulse e terribili le ore di quella giornata e chissà chi aveva ordito l’agguato mortale.
Tanaquil aveva l’anima desolata e vuota. Le pareva di essere a sua volta prossima a precipitare nell’Ade, dove le anime si muovono tristi e mute, sempre più flebili, incalzate da Vanth e da Nathum, senza fine, con angoscia.
I dubbi e le sensazioni crude di quelle ore attraversavano l’anima di Tanaquil. Le sembrò di risentire le urla dei due pastori, apparsi all’improvviso, alle prime ore del giorno, proprio davanti al colonnato.
Due fratelli, come parve di capire, venuti a diverbio per un campo lasciato in eredità da loro padre. Erano stati circondati dai servi e dai littori che facevano guardia al palazzo. Tutti cercavano di calmarli, di dividerli.
Ma non si erano dati per vinti, i due. Sbraitavano e chiamavamo a testimoni gli dei e i numi patrii.
Quanto era vero, urlavano, che su tutti loro vegliava il divino fondatore di Roma e suo primo grande re, quanto era vero che li proteggeva e li tutelava Romolo Quirino, padre di ogni romano che aveva casa tra il Palatino e il Viminale e ogni mattino levava lo sguardo verso il tempio del Quirinale a lui dedicato, quanto era vero che ogni giorno il carro del sole attraversava il cielo, doveva essere il re in persona a giudicare.
E il suo giudizio doveva esprimerlo proprio lì, dicevano, a due passi dal Fico Ruminale, dove Romolo e Remo erano stati esposti alle acque del fiume Tevere, simbolo eterno delle ingiustizie che i padri compiono contro i loro figli. E da dove si poteva scorgere il Germalo, l’anfratto in cui la lupa divina e mansueta aveva lasciato che i due bambini accostassero la bocca alle sue mammelle e si sfamassero col suo latte.
Urlavano e gesticolavano i due fratelli, si toccavano il cuore ogni volta che pronunciavano il nome del padre Romolo.
Il più anziano sosteneva di averlo lavorato sempre lui quel campo, sul lato orientale del colle Gianicolo, tanto è vero che lì aveva la sua casupola, tanto è vero che lì erano nati i suoi figli e dunque a lui spettava il possesso.
Il più giovane a dire, a ripetere, a giurare che proprio a lui, invece, per espressa volontà, il padre lo aveva lasciato. Poteva portare testimoni, e numerosi anche.

- Chi ha difeso il campo due anni fa, quando ci hanno attaccato i predoni sabini? Chi ha rischiato la vita? E non erano certo briganti qualsiasi. Armati, fino ai denti, decisi a tutto. Di sicuro erano alleati con i Rasna, perché avevano armi di ferro, molto ben forgiate ed elmi e scudi proprio come i Rasna, ribatteva il primo, sempre urlando.

Il tono della sua voce era alto e aspro, impossibile che il re Tarquinio non udisse. E mostrava una ferita sul braccio destro. A fare giustizia doveva proprio essere re Tarquinio, sì, lui che era un Rasna, anche se solo per metà del suo sangue.
Entrambi brandivano una scure, che ogni tanto alzavano in preda ad una furia terribile. Sembrava proprio che fossero sul punto di avventarsi l’uno sull’altro, ma non trascuravano anche di minacciare i servi che cercavano di bloccarli.
Tarquinio aveva trascorso tutta la mattina ad amministrare la giustizia e poi si era ritirato nelle sue stanze, con un messaggero che veniva dalla Sabina e che gli portava notizie fresche sui movimenti di truppe attorno a Collazia. La situazione da quelle parti non era affatto tranquilla, anche se a comandare il presidio c’era suo nipote Egerio.
L’alterco dei due fratelli lo aveva distolto dai suoi pensieri mentre stava valutando se convocare i senatori per preparare una nuova guerra. Aveva mandato un servo a dire che li avrebbe ricevuti, che avrebbe ascoltato le loro ragioni e pronunciato un giudizio.
Il sole entrava da ogni finestra e il re, sul suo trono, sembrava un dio. A fianco gli stavano i littori. Per un attimo i due fratelli avevano smesso di urlare e lo avevano guardato, come intimoriti. Avevano mosso qualche passo verso di lui, le scuri abbassate.
Poi, a due passi dal re, quello col braccio ferito aveva ripreso ad inveire. Tanaquil era un poco discosta, dietro il trono.
Tremava. Qualche giorno prima, desiderosa di sincerarsi di come procedevano i preparativi per la festa della dea Pale, era scesa verso il fiume. All’improvviso il sole era scomparso dietro una nuvola e da questa era sbucata un’aquila che aveva volato a lungo nel cielo, compiendo giri sempre più stretti. Poi si era posata davanti alla regina e aveva depositato un uovo.
Un evento strano, inspiegabile. Ma la paura e l’angoscia avevano subito preso il posto dello stupore nel cuore della regina. Aveva raccolto l’uovo e, con cura infinita, ne aveva spezzato il guscio tra le mani serrate, a formare una coppa: nel rosso, ben chiara e marcata, brillava una goccia di sangue. Il più funesto dei presagi.
Si era inginocchiata lentamente in riva al fiume, a sciacquare le mani, quasi a esorcizzare nella corrente immensa, la visione del sangue.
Poi, buia in volta, Tanaquil aveva risalito col cuore che le scoppiava, il pendio verso il palazzo. Aveva controllato ogni cosa e non aveva trovato nulla fuori posto, perché i segni negativi non arrivano mai da soli. L’acqua in fondo al pozzo era limpida come in ogni altro giorno e gli uccelli che tornavano ogni anno da Oriente sospinti dal bagliore di Lusa, la Luminosa, avevano ancora una volta ripopolato i loro nidi, sotto il tetto.
E giù, verso il mare, il volo dei gabbiani non aveva nulla di irregolare. Non un fiore divelto dal vento, in giardino, non un solo albero disseccato.
Ma quel sangue nell’uovo dell’aquila rimaneva come un monito terribile e più e più volte Tanaquil, a sera, nel segreto della stanza più riposta, aveva delimitato con i suoi passi un altare ed evocato Aplu. Si era rivolta a lui, lo aveva pregato, lo aveva invocato. Lo aveva chiamato con tutti i nomi e gli appellativi che conosceva

- Dio di tutti gli oracoli, sorgente prima e ultima di ogni vaticinio, di ogni segno e di ogni presagio, guardiano e tutore di tutte le Sibille che ogni dio, ogni monte, ogni fiume abbia mai generato, tu che sei preannunciato dal drago pitone e suo uccisore, tu che sei vendicatore di ogni crimine, tu che sei accompagnato dal lupo e dal leone, custodito dal cigno, dal nibbio e dall’avvoltoio, cantore e conoscitore di ogni umana vicenda. Ti prego smentisci o conferma il segno del sangue.

Quella notte Tanaquil aveva urlato così forte che, nel palazzo, si erano svegliati tutti. Ma Aplu era rimasto silenzioso.
Lo aveva pregato davanti ad un simulacro che conservava in un angolo segreto e in cui Aplu era raffigurato in atto di suonare la cetra, coronato di alloro e straordinariamente bello. Gli occhi del simulacro erano rimasti vuoti, insondabili.
Nel ricordo delle ore notturne trascorse a interrogare l’oracolo, tremava Tanaquil, celata nell’ombra, dietro il seggio del suo signore, dell’uomo che aveva strappato tanti anni prima all’odio e alle calunnie della gente di Tarchna per portarlo a Roma, l’uomo che aveva amato e posseduto ogni notte, che aveva portato a sedere su quel trono. Tarquinio ascoltava i due fratelli, sempre più inferociti l’uno contro l’altro.
Tremava Tanaquil, perché solo in quell’istante aveva compreso che il sangue visto nell’universo piccolo dell’uovo altro non era che il sangue che di lì a poco avrebbe inondato e profanato tutto il suo mondo, il palazzo che poggiava i suoi muri nella roccia del colle affacciato sul grande fiume, la giovane città di Roma, la sua discendenza, perfino le fondamenta del tempio di Giove che Tarquinio aveva appena tracciato.
Né lei poteva fare ormai nulla, troppo tardi aveva riconosciuto il segno.

- Come è tutto chiaro ora, si disse con orrore, la morte che ho visto la stanno portando i due pastori.

Era scritto nei loro gesti, nei loro occhi, nelle parole che urlavano, nel loro odore perfino.
Quando il pastore che era rimasto in silenzio comprese che tutta l’attenzione era rivolta al fratello, eluse la guardia del littore che gli stava vicino, varcò con due passi lo spazio che lo divideva dal re e gli vibrò un colpo terribile con la scure, proprio tra gli occhi.
E subito il fratello lo aveva imitato portando un colpo al cuore del re, reclinato sul trono.
Le due scuri erano rimaste lì, una sul pavimento, una ancora infissa nel petto di Tarquinio. Erano fuggiti, i due, e nessuno aveva pensato a fermarli.
Tarquinio aveva già gli occhi offuscati quando fu disteso sul suo letto.
Tanaquil comprese immediatamente che Roma aveva bisogno di un nuovo re. Aveva imposto a tutti il silenzio. Aveva inviato un messaggero a chiamare suo genero Servio. E anche a Ocrisia, la madre di Servio, e a sua figlia Gaia aveva fatto sapere che le voleva vedere con urgenza.
Per tutto il resto della giornata sui pavimenti della reggia era stata versata acqua lustrale.
Tanaquil convocò i medici migliori di Roma, ma non fece neanche vedere loro il re. Li trattenne appena un poco, quanto bastava per raccomandare di mostrarsi sorridenti e fiduciosi.

- Dite a tutti che il re sta bene, che le ferite sono leggere, che tornerà presto in pubblico, aveva ordinato loro, dolce e imperiosa insieme.

Tanaquil avvertiva chiaramente che la gente di Roma era preoccupata. I popolani andavano radunandosi sempre più numerosi sulla Via Nova, proprio sotto le finestre del palazzo, fin da porta Mugionia e giù fino al Foro.
A sera capì che doveva parlare loro. Si affacciò alla finestra e chiese silenzio, alzando una mano. La sua voce si udì forte, come uno squillo di buccina guerresca. La regina parlò con calma e nelle parole c’erano gioia e sollievo, fiducia e sicurezza.

- Il re sta bene, disse Tanaquil sorridendo. Due pazzi ubriachi lo hanno aggredito anche se nessuno ne conosce ancora il motivo. Ma la ferita è superficiale e presto il re tornerà tra voi ad amministrare giustizia e a guidare la sua fanteria e i suoi cavalieri alla conquista di qualche città dei Latini o dei Sabini. Gli unici che devono aver paura sono i nemici di Roma.

Aggiunse che, se aveva tardato a presentarsi e a parlare al popolo, era perché, dopo aver sentito i medici, voleva anche interrogare gli dei, per avere i loro vaticini.
Non mentiva, almeno in questo, Tanaquil: davvero aveva evocato Cilens, dea della sorte umana, Tinia padre di tutti gli altri dei e Vetis, signore della morte e della distruzione. Tutti avevano fornito segni di male: Tarquinio non sarebbe sopravvissuto.
Ma Tanaquil sapeva di non poter raccontare la verità alla gente di Roma.

- La Fortuna e Giove, riferì, hanno detto che ancora lunga e fertile sarà la vita del re. Per i medici non è stato difficile lavare la piaga, e nessun organo vitale è stato toccato. I chirurghi hanno ricucito con cura le labbra della ferita e fasciato con bende di lino il re. Tarquinio un po’ si lamenta, ma è naturale in una situazione come questa. Del resto, a lenire la sofferenza sono già arrivati i sacerdoti che abitano sul monte Soratte. Si sono portati dietro tutti i loro miracolosi unguenti anestetici. E forse già domani Tarquinio riapparirà in pubblico.

Tanaquil era stata convincente e la folla si disperse.
Poi si diresse verso le stanze del re. Voleva essere con lui quando l’anima gli fosse uscita dalla bocca e avesse intrapreso il malinconico cammino verso l’Ade e la corrente torbida dell’Achrun. Lì lo attendeva Charun, il traghettatore con le mani a forma di serpe, Charun, che quando ha deciso che un uomo debba morire pianta un chiodo.
E il destino è fatto, in quel colpo di maglio tremendo e irrevocabile, e il filo della vita reciso.

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