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Tacito Romanzesco
Venezia, Liceo Marco Polo, 9 marzo 2004
 

Neque enim ita apppellamus nisi antiquos,
horum autem temporum
diserti, causidici et advocati et patroni
et quidvis potius quam oratores vocantur.

(Tacito, Dialogus de Oratoribus 1, 1)

Nel 1426, grazie ai contatti tra il grande umanista Poggio Bracciolini e un monaco appartenente al monastero di Hersfeld, presso Fulda, si diffonde in Italia la notizia che in quel lontano convento prussiano dorme un fratello minore di Tacito. Del grande storico della Roma imperiale fino a quel momento era possibile leggere, peraltro in modo molto lacunoso, soltanto Historiae ed Annales. Sono anni di grande fervore e la caccia ai manoscritti sepolti, magari contenenti opere inedite o credute perdute, era una sorta di vera e propria febbre. Quel fratello dormiente, quel manoscritto, contiene nientemeno che le tre opere minori di Tacito, l’Agricola, il Dialogus de Oratoribus e la Germania.

Poggio Bracciolini era segretario del sarzanese Tommaso Parentucelli, destinato a salire al soglio pontificio col nome di Niccolò V. Niccolò V viene eletto nel 1447 e fu un grandissimo papa, il che, traducendo, significa che fu un abilissimo politico. È lui che convince l’antipapa Felice V ad abdicare, è lui che di fatto scioglie il concilio di Basilea e consente alla chiesa di superare il più drammatico scisma di quei secoli. Papa attento anche a tutto ciò che gli conferiva immagine e infatti la sua raccolta di codici antichi costituisce il nucleo originario della Biblioteca Vaticana.

Immaginarsi che colpo grandioso doveva essere ai suoi occhi un Tacito sconosciuto. Opere inedite dell’autore considerato fonte e autorità di ogni comportamento politico. E per di più reperito in quell’ambito tedesco che aveva visto un suo grandioso successo politico, quando nei primi anni Quaranta, era riuscito a conciliare al suo predecessore Eugenio IV l’appoggio dei principi elettori tedeschi nella dieta di Francoforte.

Solo quando viene eletto papa, Niccolò V riesce (o forse vuole) organizzare una missione in Germania che aveva diversi scopi, tra i quali il recupero del Tacito dormiente. Il compito viene affidato all’umanista Alberto Enoch d’Ascoli che effettivamente riesce a riportare il codice in Italia.

Il manoscritto arriva a Roma nel 1455, ben trent’anni dopo la sua scoperta. Le cose sono cambiate, però. Niccolò è morto e al soglio pontificio è asceso Callisto III, un papa che veniva dalla casata dei Borgia. Per capirci, è lo zio del futuro Alessandro VI che proprio da lui viene fatto cardinale.

Il panorama culturale ha subito un netto viraggio. Callisto è persona di grande cultura e amico personale di Lorenzo Valla e Flavio Biondo, ma i suoi interessi politici sono rivolti in tutta altra direzione. Egli cerca, senza sostanziali successi, di organizzare una crociata contro i Turchi. Si capisce che la grande operazione mediatica (far emergere dalle nebbie del nord una luce che rischiara la cultura latina) si sgonfia, perde di fascino.

E anche la situazione finanziaria gioca la sua parte: Callisto cerca di risparmiare ovunque può, per mettere insieme il suo esercito di crociati. Ne fa le spese brava gente come il nostro Enoch che di colpo si trova in mano un codice che lui aveva portato, sicuro della sua collocazione sul mercato e che ora si rivela all’improvviso di difficile smercio. Come è noto, in questo tipo di missioni che venivano generalmente appaltate, chi faceva il viaggio, acquistava e trasportava merce preziosa, di fatto anticipava e dunque rischiava in gran parte di tasca propria.

Una sorta di condanna a morte per un capolavoro assoluto e irripetibile. Perché il manoscritto venne smembrato. Possiamo immaginare che Enoch abbia calcolato che diviso in due o tre parti fosse più facile da collocare magari realizzando anche un utile più alto rispetto alla vendita in blocco. Tutto sembra congiurare, perché nel 1457 Enoch muore e non può dunque più gestire il suo tesoro. Qui si perdono le tracce del prezioso codice con le opere minori di Tacito. Solo nel 1902, Cesare Annibaldi scoprì in una biblioteca privata di Jesi, quella del conte Guglielmo Balleani, un codice che conteneva Agricola e Germania. Almeno otto pagine di questo codice, passato sicuramente per le mani di un umanista illustre come Stefano Guarnieri ma chissà come confezionato, furono riconosciute come appartenenti al codice originale, quello portato in Italia da Enoch d’Asoli.

Una storia, come si vede, misteriosa ed enigmatica, degna di un Indiana Jones della filologia.

Anche perché qui entra in gioco il nostro Dialogus de oratoribus, che del codice di Jesi non fa parte. Questa mancanza ha aperto tutti gli interrogativi sulla effettiva paternità tacitiana del Dialogus stesso.

Anche se va detto che, a dispetto di tutte le esercitazioni retoriche e stilistiche condotte sul Dialogus, uno studioso come Pier Candido Decembrio, che ebbe modo di vedere il manoscritto ancora integro, attesta che il Dialogus ne faceva parte ed è da considerarsi opera di Tacito. Decembrio, serve ricordare, è studioso autorevolissimo: biografo dei Visconti, traduttore di Omero, Polibio, Plutarco, abbreviatore (cioè estensore della minuta delle bolle papali) al servizio proprio di Niccolò V e Callisto III.

E oggi, occorre aggiungere, la maggior parte degli studiosi, pur evidenziando una certa inquietudine davanti a stilemi poco tacitiani, concorda sulla effettiva paternità tacitiana. Tuttavia il Dialogus sembra fatto apposta per moltiplicare gli interrogativi al suo riguardo.

Provo ad elencare. Quale Tacito ha scritto il Dialogus? Cioè un Tacito giovane, in pieno tirocinio letterario e non ancora padrone di uno stile proprio, non ancora consapevole dei propri mezzi espressivi? O un Tacito adulto, smagato, disilluso? Io propendo per la seconda ipotesi. È vero che uno scrittore giovane e in pieno apprendistato mette le coscienze di tutti a posto e quando qualcosa non torna, le oscillazioni e le incertezze stilistiche vengono comodamente ascritte alla mancanza di maturità.

Ma non si può trascurare l’unico punto abbastanza sicuro: la dedica a Fabio Giusto che è quasi sicuramente il Lucio Fabio Giusto che fu console nel 102 ed era sodale di Plinio il Giovane. Ed è abbastanza probabile che il Dialogus sia successivo al 96, cioè alla pubblicazione della Insitutio oratoria di Quintiliano (qualcuno parla addirittura di una risposta di Tacito al grande contemporaneo).

Questa collocazione temporale trova anche una suggestiva conferma nel clima morale che si respira nell’operetta. Uno dei dialoganti, Curiazio Materno, è l’oratore deluso, stanco, consapevole di quanto poco spazio esista per quello che oggi chiameremmo l’intellettuale organico, l’intellettuale militante. Curiazio si è ritirato, fa il letterato a tempo pieno, nel chiuso della sua stanza, per così dire, fasciato, riparato e difeso dal suo stesso studio.

Coincide questa immagine proprio con quella di Tacito che nel 100 ha partecipato al processo per corruzione e concussione intentato contro il proconsole d’Africa Mario Prisco. Tacito rappresenta la parte lesa, i derubati, i provinciali d’Africa, e suo collega è, guarda caso, proprio Plinio il Giovane. Dopo quel processo si ritira dall’attività oratoria per dedicarsi alla sua opera storiografica (anche se non rinuncia all’attività politica dato che fu tra 112 e 113 proconsole d’Asia).

Come se non bastasse, a complicare il quadro di mistero attorno all’operetta tacitiana, c’è almeno una lacuna abbastanza (non sappiamo quanto) estesa che ci impedisce di cogliere l’effettivo ruolo che ha nel dialogo e dunque nel dibattito un personaggio come Giulio Secondo che è stato forse uno dei maestri di oratoria dello stesso Tacito.

Infine anche la stessa scelta della forma del dialogo pone qualche problema nel contesto delle abitudini tacitiane. Ma qui possiamo semplicemente pensare ad un adeguamento del nostro autore alla prassi letteraria quando si debbono affrontare temi di questo tipo.

Tuttavia debbo dire che, a un quadro tanto complesso e frastagliato, sostanzialmente manca nella bibliografia relativa al Dialogus una domanda che invece a me pare fondamentale, una sorta di rasoio che può tranquillamente dirimere molti aspetti della questione.

La formulo così, molto semplicemente: il Dialogus può essere letto nella chiave della ideologia tacitiana? Si giustifica nel contesto del mondo concettuale dello storico? Rispondo subito che non solo il Dialogus esprime appieno e in modo vigoroso e netto l’ideologia tacitiana, ma che percorrendo questa strada mi sono convinto che solo Tacito può averlo scritto.

Cerco di ripercorrerla qui brevemente questa strada.

Intanto le coordinate esterne. Il Dialogus propone una discussione avvenuta attorno al 75, quindi sotto il principato di Vespasiano. Vi partecipano Marco Apro (maestro di Tacito e sostenitore dell’oratoria contemporanea) e Giulio Secondo (forse anche lui maestro di Tacito e il cui ruolo nel dibattito appare marginale o comunque non chiarito a causa di quella lacuna di cui si diceva prima). Sono i due più grandi oratori dell’epoca flavia. Poi ci sono Vipstano Messalla (sostenitore dell’eloquenza di impronta ciceroniana e parzialmente portavoce di Tacito) e Curiazio Materno (il più vicino di tutti al pensiero tacitiano e padrone della casa in cui si raccoglie il gruppo). Il primo è storico e oratore illustre, il secondo è autore tragico e di lui abbiamo solo le notizie che ci dà Tacito in questo testo. Ai quattro va aggiunto l’io narrante di Tacito stesso che nelle prime battute afferma di aver seguito giovanissimo, forse ventenne, il dibattito.

Serve ricordare anche che il Dialogus si colloca in maniera precisa lungo un filone prioritario della letteratura latina che appare sempre preoccupata di definire ruolo e valore dell’oratoria e, in stretta connessione, la figura del buono/perfetto oratore e la sua formazione. Il caposaldo di questa linea è Catone.

A lui Cicerone attribuiva qualcosa come 150 orazioni. E Quintiliano lo definì proprio per la sua attività oratoria “fondatore della storia”. Proprio Catone, agli albori del secondo secolo prima di Cristo, si preoccupa di definire la figura del perfetto oratore che doveva essere vir bonus, dicendi peritus. Cioè un galantuomo, consapevole degli strumenti del buono ed efficace esprimersi.

Oratori insigni furono Appio Claudio Cieco, i Gracchi, Scipione l’Africano, Lucio Emilio Paolo e quel Servio Sulpicio Galba che Cicerone ebbe a definire “divino nel parlare”.

E poi la generazione dei grandissimi, pur se di formazione diversa: Marco Antonio, Quinto Ortensio Ortalo, Gaio Giulio Cesare, Marco Giunio Bruto.

E naturalmente Marco Tullio Cicerone. Cicerone parlò come avvocato difensore, come pubblico ministero, come propugnatore dell’introduzione di determinate leggi e come avversatore di altre. Ben 58 delle sue 106 orazioni sono a giunte a noi. E poi l’arpinate ha scritto moltissimo per definire da una parte il percorso tecnico di formazione dell’oratore e dall’altra la figura ideale di chi esercita l’eloquenza per mestiere. Crasso, nel primo libro de De oratore, parla di arte oratoria come dono naturale (dono divino, si intende) che però va affinato, alimentato, perfezionato da una cultura vasta e differenziata: cultura giuridica, filosofica, letteraria, storica, artistica. E nel Brutus Cicerone si sente in dovere di tracciare la storia dell’eloquenza romana che va dalla cacciata dell’ultimo re a Cicerone stesso.

Quintiliano si pone sulla scia di Cicerone, circa la necessità di una equilibrata formazione intellettuale e morale. Ma proprio a lui, che poneva l’accento sulla tensione etica dell’oratore, sfuggiva che la crisi evidente dell’oratoria non era semplicemente tecnica, ma politica, storica, epocale. Non una crisi dovuta ai cattivi e incolti maestri, come lamentava Quintiliano, ma al venir meno della libertà di parola, alla piaggeria, all’inchino davanti al potere.

Sicuramente non è un caso che l’unico saggio oratorio da noi posseduto di un altro grande di quei tempi, Plinio il Giovane, sia una gratiarum actio, il Panegyricus con cui Plinio, appena nominato console, esalta l’imperatore Traiano.

Infine mi pare opportuno ricordare un dato molto significativo circa il valore letterario della parola pronunciata. I 35 libri a noi giunti dell’opera di Tito Livio contengono qualcosa come 407 discorsi, in maggioranza in forma diretta. E la discussione attorno a quella che potremmo chiamare l’oratoria in Livio ha sempre attirato e coinvolto traduttori, critici, studiosi dell’opera del grande padovano. Del resto basta andare a leggere Machiavelli.[1]

Proprio il tracciato di questo breve diagramma, pone con forza il quesito da cui sono partito. Il Dialogus rispecchia la visione del mondo di Tacito, la sua concezione della storia, la sua visione dei destini umani? È ancora un documento della sua lucidità analitica? Troviamo anche qui la forza, il nerbo, l’austera e disincantata serenità del suo indagare?

Tacito si dichiara già nella dedica, che più che tale mi pare una dichiarazione programmatica. “Giusto Fabio, spesso ti rivolgi a me per sapere perché la nostra epoca, sterile e priva ormai della gloria che nasce dall’arte del parlare, a malapena si ricordi cosa vuol dire la parola oratore, mentre le generazioni precedenti hanno visto fiorire il talento e la gloria di tanti oratori eccellenti. Con questo nome, oratore, noi indichiamo infatti solo gli antichi, perché i moderni parlatori, prima di chiamarli oratori, bisogna definirli causidici, avvocati, patroni, o quello che vuoi tu”.[2]

Diserti, causidici, advocati, patroni: non uno solo di questi quattro termini può essere letto in accezione positiva. Diserti indica spregiativamente i parlatori che eccedono in ornamenti, fronzoli, orpelli. Oratori barocchi, diremmo noi. Causidici, parola che suona negativa anche in italiano, indica genericamente tutti coloro che difendono cause. Mestieranti del foro, diremmo noi. Esattamente come advocati e patroni.

Da tale promontorio duro e scoglioso, comincia la navigazione di questo Dialogus. I protagonisti si sorridono, sembrano duellare in punta di spada e ricamare argomentazioni, ma in realtà si scambiano arrembaggi, si sparano roghi immensi di fuoco greco, cercano di affondarsi reciprocamente senza andare tanto per il sottile.

Fuori di metafora: sembrano perfino parlare linguaggi diversi, sono separati da abissi, tra le diverse posizioni corrono distanze che perfino riesce difficile valutare. Giocano duro perché forse non sono nemmeno in grado di capirsi.

Già questo rilievo esterno ci permette di cogliere la mano di Tacito: il lessico è ricercato, aulico, talora soave e spesso aspro; la sintassi si muove con la consumata abilità di chi ha letto la prosa di Cicerone e la invidia, ma si sente più vicino al franto e nervoso procedere di Seneca. Si respira, pur in forme composte, un’aura di dramma che riporta in continuazione il lettore al quadro tragico dei tempi in cui gli eventi si svolgono. C’è grandezza in questo, un segnale di scrittura alta quale solo al genio è consentita. Ed è la mano di Tacito, io non ho dubbi.

La stessa mano, tanto per rifarmi ad un esempio noto, che tratteggia il quadro di piaggeria, di cortigianeria, di adulazione che segue alla morte di Ottaviano Augusto quando i senatori di Roma si profondono in lusinghe con Tiberio, sforzandosi di apparire sinceri, ridicoli perfino, nel tentativo di nascondere quello che stanno effettivamente facendo. La mano che riesce a tracciare qualche linea decisa, ma leggera su un foglio facendo comprendere che il disegno vero e pesante e compiuto è sull’altra faccia.

Il dialogo si snoda su due macrosequenze, giocate dal nostro scrittore con consumata perizia che riesce a conferire movimento ad una situazione collaudata (e bisogna aggiungere estremamente statica) come quella di un gruppo di amici che si ritrovano a discutere nella Roma di tre quarti di secolo. E non parlano certo di frivolezze come le quote offerte dai bookmaker per i duelli di gladiatori o dagli allibratori per le corse delle bighe. Si parte con il gruppo non al completo e ad un certo punto, ad inaugurare la seconda macrosequenza, interviene Vipstano Messalla. Tacito fa intervenire a cose già avviate colui che diventerà protagonista assoluto del Dialogus. Si tratta di un grande effetto scenografico, ma l’escamotage consente anche a Tacito di ricapitolare brevemente quanto si è detto e di ricordare velocemente le diverse argomentazioni addotte. È una sorta di trampolino di lancio che permette di entrare nel vivo della discussione per il coinvolgente e decisivo contributo di Messalla. Il nuovo venuto proprio perché non coinvolto nella precedente discussione e perché libero dalla zavorra della sterile dialettica che lo ha preceduto, può imprimere una svolta alla discussione stessa.

La prima macrosequenza, che potremmo definire di taglio pedagogico ed etico, ha una funzione introduttiva rispetto alla seconda.

Si esaminano alcune motivazioni di consolidata tradizione, di facile presa e anche di incondizionato coinvolgimento generale: l’oratoria decade per colpa di scuole e maestri inadeguati e tale decadenza è specchio del declino della pubblica moralità. Come si vede, sono gli argomenti cari a Quintiliano.

A questo punto sopraggiunge Vipstano Messalla e inizia la seconda parte del Dialogus.

“Materno, appassionato e quasi ispirato, aveva appena finito di parlare, quando entrò nella sua stanza Vipstano Messalla. Egli vide i volti tesi e intuì che il discorso avviato era di grande importanza: «Forse sono stato poco tempestivo», si scusò, «nell’intervenire ad una riunione segreta in cui magari state preparando la difesa per qualche processo».

«No, no», lo tranquillizzò Secondo, «anzi mi avrebbe fatto piacere che tu arrivassi prima. Intanto ti sarebbe piaciuto molto l’abilissimo discorso che ha fatto il nostro Apro per esortare Materno a rivolgere tutto il suo talento e tutto il suo zelo all’attività forense. Ma anche Materno ti sarebbe piaciuto con la sua difesa gioiosa della poesia: un’orazione risoluta, davvero utile a difendere i poeti e più simile ad una recitazione poetica che non al discorso di un oratore».

«Davvero», replicò Messalla, «avrei provato grandissimo piacere da questa discussione. Ma ciò che più mi emoziona è il fatto che voi, uomini di grande prestigio e oratori del nostro tempo, non solo esercitiate le vostre abilità nelle pratiche forensi e negli esercizi di declamazione, ma intraprendiate anche delle discussioni che nutrono la mente e che recano il godibilissimo conforto della cultura e della letteratura, non solo a voi che in questa discussione siete impegnati, ma anche a coloro che la ascoltano. Allora, per Ercole, vedo che tu, Secondo, vieni elogiato per aver dato, con la tua narrazione della vita di Giulio Africano, ai tuoi contemporanei la speranza di molti libri di ugual livello. Altrettanto viene rimproverato Apro, perché non ha ancora preso le distanze dalle dispute scolastiche e preferisce impegnare il suo tempo libero secondo le abitudini dei nuovi retori piuttosto che seguire il modello degli oratori antichi».

Apro di rimando: «Messalla, tu non vuoi proprio smetterla di ammirare tutto ciò che è vecchio e decrepito, mentre invece deridi e disprezzi le tendenze del nostro tempo. Molte volte ti ho ascoltato mentre, dimentico dell’eloquenza tua e di tuo fratello, sostenevi che oggi non c’è alcun oratore che regga il confronto con gli antichi. È una affermazione piuttosto ardita, mi pare, visto che tu non temevi alcuna critica malevola, negandoti da solo quella gloria che invece molti ti concedono»”.[3]

Decolla così, a colpi eleganti ma durissimi, la seconda parte del Dialogus che si preannuncia subito per quella che è: il tentativo di risolvere finalmente un dilemma antico. Se valga più l’abilità, il navigare a vista proprio dei praticoni o se invece si debba nutrire di cultura e di sensibilità letteraria il proprio dire. Non manca evidentemente il confronto tra gli antichi (sempre bravi) e i moderni (sempre in perdita rispetto al presente, come vuole un logoro luogo comune).

È anche il secondo, più alto, peculiare e qualificante, momento ideologico del Dialogus. Ruota tutto attorno all’intervento di Curiazio Materno e ha il suo nocciolo duro nei capitoli compresi tra il 38 e il 40 che sono di fatto i capitoli finali, la culminazione del ragionamento.

Qui Tacito sposta, con grandi abilità e sensibilità, il dibattito sul piano sociologico e politico.

Le parole di Materno sono improntate a grandi equilibrio, coerenza e saggezza. Sono anche fondate su un solido buon senso romano. Appaiono dunque, nella loro oggettiva serenità, credibili e persuasive.

Materno riconosce, forse con una venatura di dubbio, che “il sistema moderno riesce ad accertare più velocemente la verità. Ma stimolava certo di più l’eloquenza l’abitudine al foro in cui nessuno era costretto a concludere l’arringa nel giro di poche ore, in cui non vi era limite ai rinvii, in cui ognuno dava la durata che voleva al suo discorso, in cui non si pretendeva di limitare il numero dei giorni e dei patroni”.[4]

Troppo forse, e bisogna riconoscere che in qualche modo bisognava darsi delle regole. Per usare l’immagine che Tacito stesso impiega in questo contesto, bisognava mettere le briglie all’eloquenza. Infatti vi provvide Cneo Pompeo nei primi mesi del 52 a. C. quando esercitò il consolato sine collega.

Imbrigliare? Per non ingenerare dubbi e fugare equivoci Curiazio precisa subito che non erano regole liberticide, anzi. “Ma le cause continuarono a venir trattate tutte nel foro, tutte in pieno regime di legalità, tutte davanti ai pretori”.[5]

Curiazio cita tutta una serie di esempi e poi, di colpo, il suo discorso vira, si impenna. Penetra senza esitazione fino al cuore del problema. Dice che poco a poco lo smalto del furore oratorio si è offuscato.

Tranne in un caso, clamoroso. Una vicenda gialla, un processo alle Perry Mason di cui noi siamo informati da Quintiliano. [6]

Si tratta di un tentativo di estorsione su larga scala, addirittura un’intera eredità. Muore una donna ricchissima, Urbinia, e contro i legittimi eredi si fa avanti un tale che sostiene di chiamarsi Clusinio Figulo e di essere figlio della defunta. L’avvocato che patrocina gli interessi degli eredi lo smaschera e fa venir fuori la verità: è uno schiavo, Sosipatro, non nuovo a colpi del genere.

L’avvocato è Asinio Pollione, brillante, irruente, coinvolgente.

Ma il testo tacitiano, certamente non a caso cita quel processo. Riguarda un fatto privato, una vicenda tutto sommato squallida e marginale. Se un oratore può far brillare la sua facondia, è solo perché non si vanno ad invadere campi di interesse pubblico.

Insomma anche questo va annoverato tra i processi abitualmente viziati da paura e conformismo. Siamo, come ci ricorda il Dialogus, “nel bel mezzo del principato del divo Augusto, quando il lungo periodo di quiete, l’apatia indisturbata del popolo, l’ininterrotta tranquillità del senato, l’assoluta disciplina imposta dal principe avevano pacificato come ogni altro aspetto della vita civile, anche l’eloquenza”.[7]

…eloquentiam sicut omnia depacaverat.

È la natura stessa del principato che genera lo stato di cose, il prezzo necessario da pagare alla pacificazione.

Facile sentire, dietro alle parole tranquille, più accorata rassegnazione che il riconoscimento di un superiore livello di vita.

Ed ecco il fondamentale incipit del capitolo 39 in cui Tacito/Curiazio avverte il lettore: “Quello che sto per affermare, sembrerà di poco conto e risibile, ma tuttavia lo dirò, altro non fosse che per strapparvi un sorriso”[8]

A me pare chiaro che non si riferisce solo alla ridicola immagine dell’avvocato/oratore stretto nella sua paenula, nuova uniforme dell’oratoria decaduta e prostituita. La paenula è una mantellina che copriva anche le braccia ed era dotata della cuculla, una sorta di cappuccio. Era l’indumento di chi si metteva in viaggio e presagiva cattivo tempo. Da questo passo veniamo a sapere che la toga, vero e proprio paramento sacro di quella liturgia che era un tempo il processo, ha ora ceduto il passo a questo indumento dozzinale. Un segno fisico, visibile. Ma non si tratta solo di questo.

È come se il nostro dialogante lanciasse un segnale, come se dicesse: “Forzerò i toni, parlerò per antifrasi, occorre capire qualcosa di più e magari perfino il contrario di quanto io dica o possa dire”.

Intanto Tacito ci dice a che cosa sono ridotti processi: a due chiacchiere scambiate col giudice (che sappiamo essere spesso digiuno di diritto), sufficienti ad aggiustare le cose. Il giudice è tronfiamente consapevole del potere che il suo ruolo gli conferisce e dunque influenzabilissimo da due paroline ben congegnate.

Questo capitolo 39 gira attorno ad alcune poderose immagini tratte dal mondo delle corse ippiche.

“Allo stesso modo in cui sono le corse e i grandi spazi a provare la nobiltà dei cavalli, così anche gli oratori hanno bisogno di un terreno su cui muoversi liberi e sciolti da impacci: altrimenti l’eloquenza si indebolisce fino a spezzarsi”.[9]

E poco più in là, alludendo alla situazione odierna: “Il processo si svolge come in mezzo a un deserto, con una o due persone ad ascoltarti. L’oratore ha invece bisogno di avvertire clamori ed applausi come se fosse in teatro”. [10]

E poi ecco un crescendo irresistibile, nel quale il lettore avverte il peso fisico di questo oratore che è simile ad un cavallo di razza, assetato di ampi spazi, che ha bisogno di sentire gli applausi sulla sua pelle e dunque la pressione di una platea vasta e attenta, magari non sempre favorevole e, perché no?, perfino ostile. La sfida, l’agonismo, il sale della vita insomma. “Ed effettivamente agli oratori antichi accadeva così: tanti e tanto illustri cittadini stipavano il foro; intere clientele, intere tribù, delegazioni di municipi, intere popolazioni d’Italia assistevano ai dibattimenti più importanti; e spesso, quando giudicava che si dibattessero questioni che lo interessavano direttamente, era presente l’intero popolo di Roma. E tutti sanno che ascoltare l’accusa e la difesa di Gaio Cornelio, di Marco Scauro, di Tito Milone, di Lucio Bestia, di Publio Vatinio accorreva tutta la città e l’entusiasmo del popolo diviso in fazioni risvegliava e incendiava anche gli oratori più freddi. E così, per Ercole, ecco le orazioni che ancor oggi troviamo nei libri e che sono il maggior titolo di merito di chi le ha pronunciate”. Tutti i nomi si riferiscono ad orazioni ciceroniane[11].

Ed eccoci al capitolo 40. Qui dobbiamo immaginare che il tono della voce di Materno si alzi, che egli cominci a scandire le parole, quasi a martellarle. L’oratoria un tempo era un fuoco, e i potenti ne venivano attaccati. Senza paura: e anzi l’importanza dell’avversario era motivo di gloria.

“Davvero! Quanto fuoco e quante fiaccole accese apportarono al talento degli oratori le incessanti assemblee, il diritto -valido per tutti- di attaccare i più potenti, il vanto che veniva dall’avere nemici importanti. Moltissimi tra coloro che erano abili a parlare non risparmiarono nemmeno Publio Scipione o Silla o Cneo Pompeo e per demolire gli uomini più influenti, sfruttavano, con l’atteggiamento proprio di chi odia e atteggiandosi a istrioni, le orecchie del popolo.»[12]

E allora com’era la vera eloquenza? «Era capace di lasciare il segno, nutrita di insubordinazione (quella che qualche sciocco chiama libertà), compagna delle sedizioni, provocatrice di un popolo sfrenato, restia all’obbedienza e al rigore, insofferente, temeraria, arrogante, quale, insomma, mai nasce nelle città bene ordinate”.[13]

Attenzione. Dobbiamo ricordarci che Curiazio Materno ci ha detto qualche istante fa che userà l’arma dell’ironia, che bisognerà sentirlo dire una cosa e capirne un’altra. Lui, per questa eloquenza ribelle, nutre in realtà una grande ammirazione.

…magna illa et notabilis eloquentia si fa scappare a piena bocca in questo contesto. E poi, come se ce ne fosse bisogno, ci fa capire ancora che parla per antifrasi.

“Si è mai avuta notizia di un oratore di Sparta o di una città cretese? No, perché ci vengono tramandate come città severissime per disciplina e leggi. E non conosciamo nemmeno l’eloquenza dei Macedoni o dei Persiani o di qualunque altro popolo che sia stato tenuto a freno da un governo ben regolato. Invece si imposero alcuni oratori a Rodi e parecchi ad Atene. Lì il popolo poteva tutto, tutto potevano gli ignoranti e, se mi consentite il gioco di parole, tutti potevano tutto”.[14]

C’è bisogno di dire che l’inattaccabile, inossidabile, immarcescibile legalità che regnava a Sparta e a Creta sarà da intendere come dispotismo, come autoritarismo?

E prosegue incalzante: “Fino a quando la nostra città deviò dalla sua strada e fino a quando si consumò nelle discordie e nelle lotte di parte, finché il foro non fu pacificato, finché il senato non trovò concordia di intenti, finché non vi fu regola nei procedimenti giudiziari, finché nessun rispetto era dovuto ai potenti, finché i magistrati non ebbero limitazioni al loro potere, Roma produsse una più valida eloquenza, come un campo non domato dall’aratro produce erbacce rigogliose”.[15]

Dice: herbas laetiores. L’immagine delle erbacce rigogliose mi pare perfino trionfale, pensando a quanto più ricco di significati sia il latino laetus rispetto all’italiano lieto. Laetus è connesso con laetamen, quasi a dire che non possono esserci gioia e crescita e maturità senza una buona concimazione.

Personalmente non nutro dubbi. Mediato dalla struttura del dialogo e frenato dalla prudenza indotta dai tempi, qui troviamo nella sua interezza Tacito, con le sue nostalgie rassegnate, ma vivide nella memoria e ancora fertili di atteggiamenti eticamente decorosi.

Non a caso il capitolo (e di fatto il Dialogus) si chiude sui Gracchi e sul loro essere scomodi. Oggi diremmo, intellettuali molto poco organici al potere. La loro eloquenza “non fu per la repubblica tanto preziosa da tollerare anche le loro proposte di legge”.[16] Evidente ammirazione, anche se forzatamente sotto traccia

Negli Annales aveva detto esattamente le stesse cose. È vero che i Gracchi furono turbatores plebis[17]. Ma quando le cose si mettono male, anche per colpa loro certo, arriva a ristabilire l’ordine Cneo Pompeo. Davvero un rimedio?

Nel 52, in seguito ai tumulti che avevano sconvolto Roma dopo l’uccisione di Clodio, il senato ricorre a provvedimenti eccezionali e nomina Pompeo consul sine collega, una sorta di dittatura.

“Cneo Pompeo, eletto console per la terza volta con l’incarico di riformare i costumi, usò rimedi più pericolosi dei mali. Aveva fatto delle leggi e fu costretto lui stesso a sovvertirle. Finì col perdere con le armi quanto con le armi cercava di difendere”.[18]

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Se, per quanto concerne il Dialogus, il romanzesco appartiene alla sua storia, per così dire, esterna, per quello che a mio giudizio è il capolavoro tra le opere minori di Tacito, cioè la Vita di Agricola, si può parlare, in qualche modo, di romanzo in nuce.

Dico subito che la discussione del genere attorno a quest’opera esiste da sempre. Siamo nell’ambito della laudatio funebris, senza alcun dubbio, ma qui troviamo biografia, monografia storica, trattato di indagine etnografica, saggio di analisi politica.

Ma è chiaro che qui Tacito è preso soprattutto dalla voglia di raccontare, di addensare attorno ad un personaggio forte e dalla moralità di alto profilo, un racconto esemplare. Chi legge non può sottrarsi alla fascinosa e perentoria convinzione che qui Tacito vuole raccontare il suo tempo raccontando, pur tra mille incertezze e oscillazioni, una storia.

Se lasciamo da parte l’ipotesi che il Dialogus sia opera giovanile, qui ci troviamo davanti all’esordio della sua scrittura. È un esordio di segno alto, in cui già emergono le doti del grande analista e del grande narratore, capace, per esempio, di dipingere con un solo tratto un carattere, un profilo psicologico, una complessa situazione morale.

Gneo Giulio Agricola entra nella vita di Tacito nel 77 d. C. Tacito ha attorno ai 23 anni, sta per fare o ha appena fatto il suo ingresso in senato. Si appresta ad iniziare una promettente carriera politica, questore di lì a poco, pretore dopo una decina d’anni. E si fidanza con la figlia di Agricola, allora quattordicenne. Una storia d’amore molto vera e molto bella, come apprendiamo dalla lettura di quest’opera.

E anche un matrimonio importante con il personaggio probabilmente più in vista della Roma di allora, forse addirittura più in vista dello stesso principe che è Vespasiano. Agricola usciva dal consolato e di apprestava a partire come legato imperiale per la Britannia dove lo attendeva una delle situazioni più esplosive dal punto di vista militare e politico di tutto il territorio su cui Roma aveva dominio.

Nell’88 Tacito viene fatto pretore e, una volta uscito dalla pretura si allontana assieme alla moglie da Roma, certamente per una missione politica di prestigio a nord. Forse propretore nella Gallia Belgica, forse legato in Germania.

A Roma sono accadute molte cose. Nel 79 è morto Vespasiano. Gli succede suo figlio Tito che però muore di lì a pochi mesi. Aveva acceso, a dispetto di un gran brutto carattere portato alla crudeltà e a una turbolenta vita privata, grandi speranze. Suetonio lo definisce “amore e delizia del genere umano”, ma Tacito, con maggior acutezza e con venatura polemica sottolinea che fu “felice nella sua brevità”. Quando muore, Tito ha 42 anni, si trova nella Sabina per una cura termale che invece di guarirlo gli fa contrarre una malattia ancora più grave. Le malattie non sono mai esenti da sospetti in questi anni. Come dimostrerà proprio la vicenda di Giulio Agricola.

Sale sul soglio imperiale Domiziano, fratello di Tito, e inaugura un quindicennio sul quale Tacito pronuncia un giudizio estremamente negativo, molto inquietante.

“…subentra la dolcezza dell’ignavia stessa e la pigrizia, prima odiata, finisce con l’essere apprezzata. Così per quindici anni (un periodo lunghissimo nella vita di un uomo) molti sono venuti meno per casi fortuiti, ma le persone più ardite sono venute meno per la crudeltà del principe. In pochi siamo sopravvissuti: non solo agli altri, ma, se posso dire così, a noi stessi”.[19]

Già, il difficile spesso è sopravvivere a se stessi.

Tacito, qualche anno dopo, nell’esordio della Historiae, racconterà così, asciutto e disincantato, questo periodo:

“Non voglio negare che è stato Vespasiano a far iniziare la mia carriera politica, e che Tito l’ha fatta avanzare e che poi Domiziano l’ha portata al suo apice. Ma chi si dichiara incorrotto assertore della verità, deve riferire di ognuno, ugualmente lontano da simpatia e odio”.[20]

Ma nell’Agricola vibra qualcosa di diverso, di ulteriore, di tragicamente personale rispetto a questa dichiarazione di neutralità.

Perché quando muore, il 23 agosto del 93, Agricola ha cinquantatré anni, è nel fiore della sua esistenza, detiene un prestigio personale che nessuno può uguagliare. Già, proprio nessuno, nemmeno lo stesso Domiziano. La res publica avrebbe potuto giovarsi ancora a lungo di quell’uomo, abile politico e abile stratega. Tacito non dice e forse non può dire che sia stata la gelosia di Domiziano ad uccidere il suocero. Manca la denuncia diretta perché mancano le prove.

Ma questo, per il lettore moderno, costituisce una fortuna. Tacito costruisce nella parte finale dell’operetta un clima di sospetto e di oppressione, un’aura di incombente ineluttabilità che è presagio e anticipazione dell’opera maggiore. Ma è anche qualcosa di più: l’indizio del narratore di razza che sa riflettere sui destini dell’uomo.

E, in sovrappiù, c’è una nota di dolente nostalgia, di angoscia per il tempo perduto e irrecuperabile. Perché Tacito non è presente agli eventi tragicamente conclusivi dell’avventura esistenziale di Agricola. E così, quando cinque anni dopo, dà corpo e scrittura ad una decisione da lungo tempo maturata nell’anima, scrive che quella morte ha risparmiato ad Agricola la vista di tempi ben peggiori. Però…

“Io e sua figlia non fummo provati solo dal dolore per il padre strappatoci; aumenta la nostra mestizia non averlo assistito durante la malattia, non averlo confortato durante l’agonia, non esserci saziati della sua vista e del suo amplesso. Almeno avremmo ricevuto le sue disposizioni e le sue parole che avremmo confitto nel nostro animo”.[21]

Siamo già alla fine dell’opera ed è certo questa la chiave in cui leggerlo o magari rileggerla.

Anche qui servono alcune coordinate esterne. L’opera ci viene consegnata dalla tradizione manoscritta col titolo De vita Iulii Agricolae liber e consta di 46 capitoli.

I primi tre capitoli hanno funzione introduttiva. Sfolgora, nell’incipit del terzo capitolo, quel “nunc demum redit animus”[22] che giustifica la possibilità, finalmente, di parlare di un uomo giusto come Agricola. Anche se -Tacito non può fare a meno di precisarlo, subito dopo questo allargarsi del cuore- è vero che dopo la morte di Domiziano è tornato il coraggio, ma il lettore deve sapere che il clima morale di fondo è sempre quello. Un principe pur illuminato come Cocceio Nerva ha davanti il problema eterno: conciliare l’inconciliabile, cioè principato e libertà.[23]

I successivi sei capitoli (4-9) percorrono brevemente i primi anni di Agricola, dalla nascita a Frejus in quella che allora era chiamata Gallia Narbonese al pontificato: Roma, l’Aquitania, la Britannia sono gli scenari della sua azione accorta dal punto di vista politico e abile dal punto di vista strategico e militare. Si segnala, si capisce subito che è il migliore della sua generazione.

Tacito fa girare questi capitoli attorno ad un dolente nucleo centrale che ci riporta al clima oppressivo dei tempi. La morte della madre di Agricola è solo un cenno fuggevole, e tuttavia significativo.

L’anno seguente[24] inflisse un duro colpo al suo animo e alla sua casa. I soldati della flotta otoniana, vagando senza alcun freno, sottoposero a saccheggio Intimilio[25], in Liguria, e uccisero la madre di Agricola nei suoi possedimenti. Depredarono le sue terre e gran parte del suo patrimonio (questa era stata la causa dell’uccisione). Agricola partì per tributare con pietà figliale gli onori funebri e fu raggiunto dalla notizia che Vespasiano aveva assunto l’impero: subito aderì al suo partito.

C’è qualcosa di tragico e ineluttabile, nella accettazione stessa, quasi come un evento normale, della morte di una donna che se ne sta pacifica e tranquilla nei suoi possedimenti.

Tra il 77 e il 78 Agricola è console e subito dopo gli viene conferito il comando delle operazioni in Britannia. In quei giorni Tacito sposa sua figlia. Agli usi e ai costumi della Britannia, alla sua storia e ai tentativi di Roma di mettere le mani sull’isola sono dedicati i capitoli dal 10 al 17. L’excursus è funzionale ad una tesi di fondo: le popolazioni britanniche sono feroci, primitive, regolate dalla forma più primordiale del diritto e cioè dalla legge del più forte. E proprio per questo Roma non è mai riuscita a sottomettere completamente e in modo stabile l’isola.

Impresa che riesce ad Agricola. Lo dice chiaro e tondo, Tacito. Agricola è riuscito dove tutti avevano fallito. A cominciare da Giulio Cesare.

“Primo fra i Romani, il divo Giulio portò un esercito sul suolo britannico: pur terrorizzando gli indigeni in una fortunata battaglia e pur essendosi impadronito della zona costiera, si può dire che egli abbia indicato quella terra ai posteri, non che l’abbia trasmessa loro”.[26]

I ventun capitoli che vanno dal 18 al 38 raccontano i sette anni, tra il 77 e l’84, della campagna britannica, con una culminazione assoluta sulla decisiva battaglia del monte Graupio.

Il movimento è nettamente ascensionale. La Britannia viene presentata come una sorta di continente concluso in sé, con regole e usanze proprie, difficile da esplorare, ancora più difficile da sottomettere. Vorrei aggiungere difficile da decifrare, da capire. Ma è annotazione che appartiene alla sensibilità moderna e non certo a un imperialismo, come quello romano che ha come prima regola, quella di dettarsi da sé le proprie regole.

E infatti qui può accadere di tutto. Perfino che una donna, Boudicca, guidi alla riscossa il suo popolo. Era accaduto un quindicennio prima, nel 61. Boudicca era stata sconfitta, aveva subito il supplizio e le sue figlie erano state stuprate.[27]

Perfino che una cohors Usiporum[28], una coorte di Usipi, arruolata da Roma in Germania e trasferita in Britannia, impazzisca in blocco, si ribelli e uccida un centurione e alcuni legionari per poi intraprendere una surreale circumnavigazione della Britannia, un po’ guerrieri, un po’ predoni, poi cannibali nel loro stesso gruppo per sopravvivere alla fame e infine schiavi venduti sui mercati europei. Tacito, il nostro romanziere in nuce voglio dire, sa bene che raccontare queste cose, funziona.

Tutto, naturalmente, è funzionale a lui, ad Agricola, presentato come una sorta di demiurgo capace di imprimere una svolta alla storia, sovvertendo perfino le regole della tradizione strategica e bellica di Roma.

Lo si era capito subito. Già al suo arrivo aveva fatto vendetta di una terribile e devastante incursione messa in atto dalla tribù degli Ordovici, una incursione che aveva risollevato il morale delle popolazioni indigene.

“Agricola decise di affrontare il pericolo anche se le truppe erano disseminate per la provincia, anche se i soldati pensavano che fosse imminente la stasi invernale delle operazioni… Agricola radunò le legioni e pochi ausiliari e poiché gli Ordovici non avevano coraggio di scendere in pianura, fece salire lui l’esercito sulle alture. Si pose davanti alla schiera perché il rischio esigeva lo stesso coraggio da parte di tutti. Sterminò quasi tutto il popolo, consapevole che il successo deve essere sfruttato subito e che il terrore che avrebbe potuto incutere in seguito dipendeva da come aveva iniziato”.[29]

Già, Agricola demiurgo che sovverte regole, prende alla sprovvista, sorprende i suoi stessi soldati abituati al comodo trantran della guerra combattuta a stagioni fisse, su posizioni ben delineate. Questi ventun capitoli sono da leggere tutti su questa falsariga: affascinanti, muscolari, pianificati. Un disegnatore odierno non potrebbe creare un supereroe più perfetto e cattivante. Se si deve far la guerra perché andare tanto per il sottile e non combattere anche d’inverno?

Mi limito a due esempi, omogenei, ma molto diversi tra loro. Il primo si riferisce al sesto anno di campagna militare, l’83 dell’era volgare. Agricola vuole andare sempre più a nord. Tacito qui dimostra di saper usare la scrittura in chiave spettacolare, evitando peraltro enfasi eccessive.

“Con Agricola, la flotta divenne per la prima volta parte operativa dell’esercito: seguendo le altre forze, essa forniva un grande spettacolo, perché la guerra avanzava insieme per mare e per terra; e spesso, nei medesimi accampamenti, fanti, cavalieri e marinai mettevano in comune provviste e allegria, vantando le loro imprese e le loro avventure. E dalle spacconerie dei soldati usciva un singolare confronto: di qua le profonde foreste e le montagne altissime, di là le tempeste e le onde ostili; da una parte la terra e i nemici, dall’altra l’Oceano sconfitto. Da quello che riferirono alcuni prigionieri, lo spettacolo della flotta stordiva i Britanni poiché ormai sembrava svelato il segreto del loro mare e preclusa ai vinti anche l’ultima possibilità di scampo”.[30]

Più forte della natura stessa, sovvertitore della storia. Si noti come Tacito giochi con grande abilità sugli effetti di straniamento, guardando ad Agricola prima attraverso gli occhi della truppa, poi attraverso gli occhi del nemico. Ne scaturisce un isolamento scultoreo di Agricola, un semidio sospeso tra cielo e terra.

E la grandezza del romanziere in nuce non si ferma qui, perché Tacito fa apparire Agricola come assolutamente consapevole di questa sua dimensione. Ed è il secondo esempio che propongo, direttamente dal discorso che Agricola rivolge ai suoi prima della decisiva battaglia di Graupio.

La regia è sapiente. Prima ha parlato Calgaco[31], capo riconosciuto dei Britanni che proprio davanti al pericolo romano si sono ricompattati, e hanno trovato coesione. A lungo, con vibrato furore, partendo proprio da questa immagine demiurgica di Agricola che sembra dare ordini perfino a terra, mare e cielo. Poi ricorda ai suoi conterranei la storia di fierezza del popolo isolano e infine fa loro presente che non è una semplice battaglia quella che si apprestano a combattere, ma una guerra di civiltà. Chi ne uscirà sconfitto, perderà l’appuntamento con la libertà e l’identità nazionale ed etnica.

Quando parla ai suoi[32], Agricola sembra quasi tener conto di quanto Calgaco ha appena detto. E in qualche modo gli risponde. Ai suoi ricorda, a sua volta, come quella battaglia sia l’epilogo di una lunga campagna.

“Finalmente li incontrate, ma non perché vi abbiano atteso: siete stati voi che li avete sorpresi. La disperazione e lo stordimento della paura estrema li hanno inchiodati qui, sulle loro stesse orme, perché voi riportiate una vittoria bella e memorabile. Basta con le campagne militari: chiudete con una grande giornata cinquant’anni di guerra. E provate alla repubblica che i ritardi della guerra e i motivi della rivolta non sono mai stati colpa dell’esercito”.[33]

Non solletica solo l’amor proprio dei suoi soldati, ma li fa sentire su una sorta di spartiacque della storia. Non vi è dubbio: qui si celebra un rito. C’è qualcosa di misterioso e sacrale in questo, una sorta di investitura: il demiurgo investe delle sua divine facoltà l’intero esercito, per quella sola occasione delega ogni soldato ad essere demiurgo insieme a lui.

E Tacito? Tacito, travolto dalla potenza stessa della sua scrittura, passa in sottordine lo scrupolo storico. Come tutti i grandi scrittori scrive in bianco e nero, quando serve rinuncia alle sfumature. Ho la sensazione che perfino bari con i numeri. Ci dice che a cadere furono diecimila Britanni a fronte di soli trecentosessanta Romani.

I panorami, fisici e morali insieme, dei due eserciti: il vincitore e lo sconfitto:

“La notte, trascorsa nell’allegria per il bottino fatto, fu piacevole per i vincitori. I Britanni, sparsi qua e là, piangevano e mescolavano il loro pianto con quello delle donne; abbandonavano le case e le incendiavano, con furore, di loro iniziativa…”.[34]

Gli eventi successivi dimostrarono che la vittoria non fu poi così netta e risolutiva. In questo stesso contesto[35] si fa beffe della campagna condotta da Domiziano nell’83 contro la popolazione germanica dei Catti, dopo la quale l’imperatore celebrò un trionfo fittizio. In realtà quella fu una campagna militare di buoni risultati che portò al consolidamento dei confini in quello scacchiere.

Ma Tacito non va tanto per il sottile. Grande generale Agricola, militare da operetta Domiziano, trionfo meritato quello del primo, plateale messinscena il secondo. Non fu così, ma qui bisogna procedere in bianco e nero, tutto il bene da una parte, tutto il male dell’altra. È la dialettica ignobile tiranno/nobilissima vittima di cui da sempre si nutre la tragedia.

E nascono proprio qui le straordinarie pagine finali. Tacito sottolinea la sorniona prudenza di Domiziano, che è il primo a decretare onori trionfali per il generale vittorioso. Ma nasce in lui il tarlo del sospetto, la gelosia per un successo autentico, il timore che Agricola possa, sulle ali del consenso popolare e militare, aspirare al principato. E si addensa una pesante aura di dramma.

Agricola ha pagato con la sua vita e con i suoi anni più fertili il suo retto agire, la sua intelligenza, la sua abilità. Tacito poco a poco instilla nel lettore un dubbio: che la colpa del male non sia nel fatto che esista un cattivo principe, ma che esista semplicemente il principe, tout court.

Quando torna a Roma, tutto sembra congiurare perché l’arrivo in città avvenga di notte, lontano dai clamori. E Domiziano lo accoglie con un brevi osculo, un bacio frettoloso[36].

Quale possibile salvezza? Anche la risposta a questa domanda porta alla tragedia. Forse solo nel riflusso nella dimensione privata. Agricola è davvero se stesso quando, dopo il suo ritorno, prende a gustare tranquillità e quieto vivere. E quando si reca nel foro si fa accompagnare da un paio di amici soltanto: ma come, un uomo del suo prestigio, ben altro codazzo dovrebbe avere al seguito.[37]

Su Roma incombono continue minacce. Ogni volta che si parla di un generale atto a risolvere questa o quella questione ai confini, salta fuori il suo nome, Agricola. Faceva paura anche disarmato, solo, bonariamente in compagnia di pochi e scelti amici.

Gli eventi precipitano. Agricola rifiuta questo o quell’incarico in zone periferiche dell’impero. Domiziano lo ascolta bonariamente, sembra scusarlo. E tuttavia lo mortifica. Quando un magistrato rinunciava ad una carica aveva diritto ad una indennità molto ingente, e Domiziano non la concede affatto ad Agricola.

“Forse si era risentito che non gli fosse stata richiesta, forse comprendeva che sarebbe sembrata il prezzo del rifiuto da lui stesso imposto”.[38]

Si arriva così allo straordinario finale, che leggo e con cui chiudo, perché qui risiede un esempio mirabile della scrittura di Tacito e un indizio importante del romanziere in nuce, che gioca, ora sì, sui chiaroscuri del dubbio, sulle certezze trattenute tra le labbra e non pronunciate.

“Nessuno, alla notizia della morte di Agricola, provò gioia o dimenticò subito. Il compianto cresceva quanto più girava la voce che egli fosse stato vittima di veneficio: io non posso riferire nulla di accertato. Del resto, durante tutta la sua malattia, lo andarono a trovare sia i liberti più influenti sia i medici imperiali …: forse era attenzione nei suoi riguardi, forse un modo per spiarne la fine. …Nel giorno della morte gli ultimi istanti di Agricola furono annunziati da staffette a Domiziano” il quale “ostentò dolore nel portamento e nel volto: si era ormai liberato della persona che odiava ed era più abile a nascondere la gioia che il dolore. Letto il testamento nel quale Agricola nominava Domiziano coerede della buonissima moglie e della figlia affezionatissima, il principe se ne rallegrò come si trattasse di un omaggio o di un segno di stima. Tanto era accecata la sua mente e tanto corrotta dall’adulazione continua, da non sapere che un padre buono designa coerede un principe, solo quando costui è malvagio”.[39]

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