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Storia di un delitto d’inizio secolo

Storia di un delitto d’inizio secolo

ANIMATA DA “PIETAS”

(Giulio Galetto, Arena Di Verona, Giornale Di Brescia, Giornale Di Vicenza, 20 marzo 1998)

 

Il delitto della contessa Onigo è sostanzialmente un romanzo storico: “romanzo” per tutta quella parte di ri-creazione (manzonianamente si direbbe “invenzione”) delle anime dei personaggi (l’anima semplice dell’omicida, l’anima tormentata da ombre e conflitti della vittima); “storico” in quanto quel particolare fatto di cronaca viene sentito come emblematico di tutto un nodo di temi e problemi sociali, economici, di costume tali da assumere, appunto, un forte spessore storico.

È la storia che oppose all’intransigente e miope conservatorismo dei grandi proprietari terrieri la pressione delle plebi a lungo rimaste in gravissime condizioni di arretratezza e miseria in quel nord-est contadino nel quale la pellagra, con i suoi terribili effetti sul corpo e sulla mente, era il segno più vistoso di una piaga sociale che non poteva restare più a lungo irredenta.
Mazzocato vede nei fendenti d’ascia vibrati da Bianchet quasi un evento simbolico: il simbolo della insostenibilità di una situazione, di un necessario punto di svolta.
Il coro di personaggi che si muove attorno al delitto e alla sua ricostruzione nelle sedute del processo è, nelle sue diverse componenti (i popolani, i nobili o i notabili borghesi), quasi tutto portato a valutare come condannabile il comportamento della contessa e, in qualche modo, comprensibile se non giustificabile la rabbia omicida del pisnente: appunto, anche dalla classe da cui appartiene la Onigo o da chi le è meno distante, si avverte l’inevitabilità di un cambiamento.
Questa valenza storica non esaurisce, però, la valenza del libro. Il quale afferma la sua dimensione più propriamente letteraria nella particolare struttura pensata da Mazzocato e nelle possibilità espressive che in essa si attivano.
Il racconto si sviluppa su due piani: da una parte ci sono le pagine più nudamente narrative che seguono la vicenda del trasferimento di Pietro Bianchet da Treviso al carcere di Venezia, fino alla conclusione del processo; dall’altra parte, intercalate a questa cronaca, si immaginano le pagine di un diario tenuto da un cugino e amico della Onigo, il conte Francesco Avogadro, ufficiale di carriera, durante i giorni del processo veneziano.
E la vitalità del romanzo, ben al di là del quadro storico-sociale, sta proprio nel contrappunto fra la nuda cronaca degli eventi e gli squarci che i ricorsi e le riflessioni del conte Avogadro aprono sul passato di Linda, sui condizionamenti che hanno fatto di lei una donna dal cuore di pietra nei suoi comportamenti sociali, ma, nelle piaghe segrete dell’anima, una creatura che sconta nella solitudine e nella dolorosa scissione della propria personalità il destino di essere proprio lei, donna non ricambiata nell’amore e segnata dalla sterilità del suo grembo, l’anello estremo, il punto tragicamente conclusivo di tutta una storia: la storia della sua famiglia e della sua classe.
Così, fra cronaca dei fatti e analisi interiore, le pagine di questo romanzo (che magari talora possono dare l’impressione di una certa frammentarietà) trovano invece un motivo di forte coesione nel sentimento di una pietas insieme esistenziale e storica che anima la voce narrante, sia essa, nella finzione, quella del cronista o quella del personaggio-testimone, il conte Avogadro.
E la pietas che meritano –e non certo per un capriccioso paradosso- sia il carnefice, sia la vittima: perché entrambi, nella realtà più vera del loro vivere, sono stati vittime.

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