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Sofie Lotry

UNIVERSITEIT ANTWERPEN

Faculteit Letteren en Wijsbegeerte
Departement Taalkunde

Il rapporto lingua-dialetto
nella letteratura contemporanea veneta

Antwerpen, juni 2005
Eindverhandeling voorgelegd ter verwerving van de graad van licentiaat in de Romaanse Taal- en Letterkunde door Sofie Lotry
Promotor: Prof. Dr. D. Vermandere Lezer: Dott.ssa G. Mavolo


Ringraziamenti

Vorrei ringraziare tutte le persone che mi hanno aiutata in questo periodo di studio e con la tesi di laurea e senza le quali non sarebbe stato possibile realizzare questo lavoro. In primo luogo ringrazio i miei genitori che mi hanno sempre tranquilizzata nei momenti più duri, e in particolare mio padre per l’aspetto tecnico e per aver riletto il testo in italiano.

Ovviamente vorrei anche ringraziare gli scrittori Gian Domenico Mazzocato e Marco Franzoso per la loro collaborazione e le interviste molto interessanti.

Finalmente vorrei anche ringraziare gli amici italiani (e la loro famiglia) per i consigli e per aver collaborato al piccolo questionario: Giulia Checcin, Viviana Viggiano, Alessandro Ruzzon, Paolo Beggio, Giuliana Zattin, Antonio Ruzzon, Maria Martin, Donatella Zattin, Antonio Zannini, Paolo Tramarin, Anita Tirapelle, Luciano De Biasio e Stefania Casati.

 

 

Indice

 

I Introduzione………………………………………………………………..4

II Parte prima……………………………………………………………….11

1 Il repertorio linguistico italiano…………………………………………………………………………11

1.1 Sviluppo della lingua standard…………………………………………………………………..11

1.2 I confini della varietà: lingua e dialetto……………………………………………………….13

1.3 Il repertorio linguistico degli Italiani…………………………………………………………..15

1.4 Contatto linguistico………………………………………………………………………………….20

1.5 La situazione sociolinguistica dell’italiano contemporaneo……………………………21

1.6 Riflessioni finali………………………………………………………………………………………24

2 La situazione linguistica nel Veneto…………………………………………………………………..25

2.1 Delimitazione geografica…………………………………………………………………………..25

2.2 Il Veneto linguistico…………………………………………………………………………………26

2.3 Il repertorio linguistico nel Veneto……………………………………………………………..29

2.4 Riflessioni finali………………………………………………………………………………………31

3 Il dialetto e la letteratura…………………………………………………………………………………..32

3.1 La poesia veneta………………………………………………………………………………………32

3.2 Il teatro veneto…………………………………………………………………………………………34

3.3 La letteratura dialettale dal 1945 fino ad oggi………………………………………………35

3.4 La grafia dialettale……………………………………………………………………………………37

III Parte seconda: analisi (socio)linguistiche………………………39

1 Gian Domenico Mazzocato: “Il bosco veneziano”……………………………………………….39

1.1 La lingua standard ne “Il bosco veneziano”…………………………………………………40

1.2 Il dialetto veneto ne “Il bosco veneziano”……………………………………………………40

1.3 Il portoghese ne “Il bosco veneziano”…………………………………………………………46

1.4 Riflessioni finali………………………………………………………………………………………48

2 Dino Coltro : “I léori del socialismo”…………………………………………………………………50

2.1 Osservazioni preliminari sulla stesura del testo……………………………………………50

2.2 Le scarpe rosse (p. 87 – 101)……………………………………………………………………..51

2.3 Tra una guerra e l’altra (p. 77- 82)……………………………………………………………..59

2.4 Riflessioni finali………………………………………………………………………………………63

3 Marco Franzoso: “Edisol M. – Water Solubile.”………………………………………………….65

3.1 La varietà usata………………………………………………………………………………………..65

3.2 Tratti comuni a tutti i personaggi……………………………………………………………….68

3.3 Le caratteristiche linguistiche dei personaggi………………………………………………79

3.4 Riflessioni finali………………………………………………………………………………………95

 

IV Conclusione…………………………………………………………….100

V Bibliografia………………………………………………………………107

1 Testi e opere…………………………………………………………………………………………………107

2 Riferimenti bibliografici…………………………………………………………………………………107

VI Appendice……………………………………………………………….113

1 Carta della regione veneta………………………………………………………………………………113

2 Carta dell’Italia linguistica……………………………………………………………………………..114

3 Mazzocato…………………………………………………………………………………………………….115

3.1 Le domande della comunicazione personale………………………………………………115

3.2 Piccola inchiesta sulla comprensione di parole non-standard……………………….115

4 Coltro: estratto p. 79-80………………………………………………………………………………….119

5 Marco Franzoso…………………………………………………………………………………………….122

5.1 Domande dell’intervista con M. Franzoso dell’otto luglio 2004……………………122

5.2 Estratti di “Edisol-M. Water Solubile”………………………………………………………123

 

 

I Introduzione

 

Per questa tesi di laurea si è scelto di studiare la situazione sociolinguistica del dialetto e della lingua standard nella letteratura contemporanea veneta. Certi studiosi parlano della morte dei dialetti – già dall’Ottocento in poi – ma si tratta di vedere se è veramente il caso nella penisola italiana, e specie nella Regione Veneto. Bisogna esaminare se due amici che appartengono allo stesso paese non si parlano più in dialetto. Certo che al mercato ad esempio, si sente ancora molto spesso parlare in dialetto e non in lingua standard. In più bisogna vedere se il dialetto parlato oggi è ancora il ‘dialetto’ di prima, o se subisce tendenze di erosione o di innovazione. Non si può nemmeno dimenticare il tipo di alternanza tra il dialetto e la lingua standard, si tratta dunque di indagare se la commutazione di codice è presente al livello frasale o piuttosto al livello del dialogo.

Non ci sono molte fonti scritte sull’uso del dialetto nella letteratura contemporanea, ragione per la quale il mio interesse porta verso questa parte dello studio della letteratura. Come si vedrà più avanti in questo lavoro, a Padova è stata scritta una tesi di laurea sull’uso della lingua in Dino Coltro (uno degli scrittori esaminati in questa tesi), ma non ci sono articoli o libri sul rapporto tra lingua standard e dialetto nella letteratura contemporanea veneta.

Nella prima parte di questa tesi di laurea si darà una panoramica della teoria sociolinguistica, necessaria per poter capire la parte pratica (seconda parte) in cui si presenteranno le analisi dei vari testi scelti. Prima di tutto si presenterà un riassunto della storia linguistica dell’Italia, data la sua particolarità (specie in confronto alla Francia): essendo l’Italia un paese relativamente giovane (1860), per molti secoli sono mancate tendenze normative con una diffusione ‘nazionale’. A ciò si aggiunge una situazione diamesica particolare, dove il distacco fra la lingua scritta e quella parlata era molto importante. Si introdurranno anche i termini appartenenti alla sociolinguistica necessari per le analisi che seguiranno la parte teorica. Si rinvierà alla terminologia sociolinguistica per spiegare gli elementi ed i fatti osservati nei testi scelti.

Il primo capitolo focalizza sulla situazione del dialetto e della lingua standard in tutta la penisola italiana. Si vedrà com’è la situazione linguistica italiana, qual è lo status del

 

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dialetto e dell’italiano standard, ma anche quale varietà di lingua viene usata dal popolo italiano nelle conversazioni formali ed informali. E’ interessante vedere come il contatto linguistico può provocare influssi tale l’interferenza e la commutazione di codice, e come si realizza questo contatto nella realtà parlata. In questo capitolo non si fa la distinzione tra le diverse regioni, anche se presentano differenze notevoli tra di loro. Lo status del dialetto non è uguale in tutta l’Italia, ma siccome si studieranno soltanto scrittori veneti la situazione nelle altre regioni è di interesse minore.

Dopo il quadro generale del primo capitolo si spiegherà la particolarità della regione veneta. Il Veneto è rimasto uno stato indipendente per molto tempo, chiamato la Serenissima, per cui il dialetto occupa uno spazio particolare. Il dialetto veneto fu la lingua ufficiale durante il periodo della Repubblica di Venezia ed è sempre molto importante per i veneti. Il dialetto rimase a lungo un codice di prestigio, accanto alla lingua standard che è diventata sempre più importante in tutto il territorio italiano. Si parlerà anche della differenza tra il veneto linguistico e quello geografico. Il triestino ad esempio appartiene linguisticamente al veneto, ma geograficamente Trieste fa ormai parte del Friuli Venezia Giulia. L’appartenenza linguistica al veneto del triestino si spiega con il fatto che il dialetto veneto ebbe un prestigio importantissimo durante il periodo della Repubblica di Venezia, quando questa teneva sotto controllo buona parte della costa adriatica. Questa particolarità veneta risulta anche dalle inchieste DOXA nelle quali si vede che l’uso del dialetto in Veneto è molto più frequente che nelle altre regioni. Anche oggi si osserva una dialettofonia molto forte all’interno del territorio veneto.

Il terzo ed ultimo capitolo della parte teorica porta sulla letteratura in dialetto veneto. Il Veneto conosce une letteratura dialettale molto ricca, forse la più estesa del territorio italiano come afferma Haller (1999). Questo terzo capitolo è suddiviso in quattro parti. E’ sempre stata scritta molta poesia in dialetto, sin dalla nascita della poesia. Si presenterà dunque la storia della poesia dialettale e si parlerà dei poeti più importanti per il Veneto. In secondo luogo si presenterà il teatro in dialetto, perché questo genere letterario si apre molto forte all’uso del codice dialetto. Si tratta di un genere trascritto, ma con un destino per l’uso orale. Il dialetto appartiene anch’esso alla lingua parlata – anche se esiste una letteratura dialettale – e si tratta di vedere quali furono o sono sempre gli scrittori più importanti. Non esiste soltanto la poesia ed il teatro in dialetto, ma c’è anche una parte della narrativa parzialmente o interamente scritta in dialetto (o in una varietà di lingua intermedia). La terza parte del capitolo parlerà della letteratura dialettale dal 1945 fino ad oggi. Si presenteranno gli scrittori dialettali più importanti insieme alla loro opera e si mostrerà l’importanza del dialetto

 

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nella letteratura del ‘900. Per concludere la parte teorica si presenterà brevemente il problema grafico del dialetto. Siccome si tratta di una varietà parlata non esiste una grafia unitaria per il codice dialetto. In più nei dialetti ci sono suoni che non sono presenti nella lingua standard e per i quali non esiste una rappresentazione grafica in italiano standard. Canepari (1984) ha proposto una grafia unitaria per il dialetto veneto che verrà discussa prima di iniziare la parte pratica delle analisi (socio)linguistiche.

Con queste tre parti teoriche si cerca quindi di abbozzare il quadro generale della situazione linguistica in Italia, e in Veneto in particolare. La problematica di cui ci si occuperà in questo lavoro è del resto intrinsecamente legata a questioni d’ordine sociolinguistico più generale: la determinazione del repertorio linguistico italiano e la valutazione delle varie forze in gioco è diventata sempre più problematica. Se prima degli anni Cinquanta si poteva parlare di una situazione in cui i codici (lingua e dialetto) erano ben distinti (sia sul piano formale che su quello dell’uso), per la situazione odierna tale quadro è molto limitativo e riduttivo. La ‘lingua standard’, come appare dagli studi sociolinguistici recenti, è sempre meno considerata ‘standard’ ma mostra particolarità ‘regionali’, soprattutto nella fonologia e nella fraseologia. Ma anche il dialetto è sempre meno ‘puro’ o ‘stretto’: numerose sono le osservazioni in cui ci si lamenta della perdita del dialetto, specie nei settori lessicali e morfologici. Il contributo di questo lavoro si situa pertanto anche su questo piano: si tratta di misurare in che modo la letteratura veneta contemporanea riflette queste incertezze e instabilità del repertorio, in base all’analisi di tre autori che segnano, in chiave diacronica, tappe diverse dell’impiego del dialetto.

La seconda parte – quella pratica – porta sull’analisi dei tre testi scelti: “Il bosco veneziano” di Gian Domenico Mazzocato, “I léori del socialismo” di Dino Coltro e “Edisol-M. Water Solubile” di Marco Franzoso. I testi sono stati scelti in base al loro interesse per la sociolinguistica e la dialettologia. Presentano tutti e tre ‘deviazioni’ rispetto alla lingua standard ed appartengono a sfere diverse per cui è interessante fare un confronto fra i tre autori. Verrà esaminata la forma del dialetto o della varietà non-standard, ma anche la forma della lingua standard stessa. Si tratta di vedere se gli scrittori usano la lingua standard come appare nelle grammatiche o se ci sono comunque elementi non-standard o substandard che entrano nelle loro varietà. Si studierà come questi tre autori utilizzano la varietà non-standard nelle loro opere e come si realizza la presentazione grafica di questa varietà. Esiste una norma

 

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grafica per la lingua italiana standard, ma non è necessariamente il caso per le varietà usate dagli autori esaminati. Sarebbe infine anche interessante vedere in che modo gli autori presentano delle somiglianze o delle differenze per quel che riguarda la forma e l’uso del codice dialetto nella loro opera. Sempre tenendo in mente la teoria sociolinguistica della situazione italiana contemporanea, si studierà l’uso del dialetto nei testi scelti e l’alternanza dialetto/lingua nella comunicazione mistilingue.

Siccome ho studiato a Padova durante un semestre, ho scelto la regione del Veneto come oggetto di studio per questa tesi di laurea. In più, i corsi di Dialettologia Italiana I & II e di Sociolinguistica frequentati all’Università degli Studi di Padova durante il secondo semestre dell’anno accademico 2003-2004 mi hanno presentato la situazione veneta e mi hanno permesso di capire una grande parte del dialetto veneto (e dell’italiano regionale veneto). Cercando autori contemporanei che scrivono l’intero romanzo in dialetto o soltanto parzialmente in dialetto, ho trovato Gian Domenico Mazzocato, il cui sito mi ha dato molte informazioni sull’opera dello scrittore trevigiano ed in base al quale ho scelto il romanzo “Il bosco veneziano”.

Gian Domenico Mazzocato è nato a Treviso nel 1946, dove insegna adesso in un liceo. Ha conseguito una laurea in lettere classiche all’Università degli studi di Padova. Oltre ad insegnare, collabora come giornalista pubblicista a diverse testate (adesso lavora presso “Il Gazzettino”). Gli ultimi anni fa soprattutto traduzioni di classici latini come “Agricola”, “Dialogo degli oratori” e nel 1997 ha pubblicato l’opera storiografica di Tito Livio. “Il bosco veneziano”, pubblicato nel 1999, è il suo secondo romanzo che ha subito conosciuto un gran successo e che viene sempre ripubblicato.

Ne “Il bosco veneziano” prima di tutto verrà esaminato il dialetto veneto come viene usato dallo scrittore trevigiano. A prima vista è molto chiaro quando si tratta del dialetto (messo in corsivo) o della lingua standard. Poi si studierà l’italiano standard usato da Mazzocato, perché presenta alcuni elementi che non appartengono veramente allo standard. Prima di riassumere il capitolo sul libro di Gian Domenico Mazzocato, si darà anche una piccola occhiata al portoghese che appare nel testo esaminato. Siccome i personaggi si trovano in Brasile a volte appaiono parole portoghesi (messe in corsivo) e si tratta di indagare come si presentano all’interno del testo ed in rapporto con gli altri elementi non-standard. In una comunicazione personale Mazzocato ha affermato che a volte appaiono parole non standard, ma non pongono un problema di lettura secondo lo scrittore trevigiano. Per questa ragione si è elaborata una piccola inchiesta per controllare le affermazioni dello scrittore.

 

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Durante le lezioni di Dialettologia Italiana si sono studiati diversi testi scritti in dialetto, tra i quali anche parte del testo di Dino Coltro, “I léori del socialismo” e “La nostra polenta quotidiana”. Sfortunatamente non è stato facile trovare i libri per poterne studiare la forma e l’uso del dialetto. Mi sono arrivati molto in ritardo, nonostante gli sforzi del relatore, Prof. Dr. D. Vermandere. Per questa ragione si è deciso di analizzare esclusivamente due capitoli di “I léori del socialismo” confrontrandoli tra di loro.

Non si studieranno i testi nell’ordine in cui appaiono nel libro, perché il capitolo “Tra una guerra e l’altra” è stato aggiunto soltanto nell’edizione più recente (2000). Si partirà da “Le scarpe rosse” che era già presente nella prima edizione de “I léori del socialismo” per analizzare come Dino Coltro ha inserito il codice dialetto nella sua opera. Si tratta anche di vedere se ci sono differenze rispetto all’uso del dialetto ne “Il bosco veneziano”. In secondo luogo si studierà il testo di “Tra una guerra e l’altra” per vedere se ci sono differenze tra i due testi scelti. Siccome il capitolo è stato inserito solo nell’edizione più recente, sarebbe molto interessante esaminare se lo scrittore mantiene la forma del dialetto o se c’è un cambiamento notevole. In appendice è stato inserito un estratto de “I léori del socialismo” per poter dare la possibilità al lettore di questo lavoro di capire meglio la situazione e l’ambiente della storia.

Dino Coltro è nato nel 1929 a Strà di Coriano (nella Bassa veronese), come figlio di salariati contadini. Ottiene il diploma magistrale dopo anni di studi irregolari, perché le famiglie di salariati contadini dovevano seguire il padrone e l’educazione non era ancora aperta a tutti. Dopo la laurea comincia ad insegnare e pian piano nasce l’idea di creare una scuola che conteneva numerosi momenti di aggregazione. Nel 1956 entra nelle ACLI dove lavora in modo intenso a favore dell’agricoltura. Bisogna aspettare l’anno 1973 per la sua prima opera, “I léori del socialismo”, della quale si discuterà nella parte seconda. Altri libri dello scrittore sono “Storie di Verona”, “Santi e contadini”, “La nostra polenta quotidiana”, “Parole perdute” e “L’altra cultura, l’altra lingua”.

Grazie all’organizzazione di un incontro con scrittori del Nord-est della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Padova, si è potuto incontrare Marco Franzoso che veniva a parlare del suo ultimo libro “Edisol-M. Water Solubile”. Il libro ha subito attirato il mio interesse per il suo uso della lingua e le idee di Marco Franzoso sulla forma della varietà usata.

Marco Franzoso, autore di “Edisol-M. Water Solubile” (pubblicato nel 2003), è nato nel 1965. Si è laureato in lettere ed adesso lavora per un’azienda pubblicitaria a Padova, dove vive con la sua fidanzata tedesca. Il fatto che ha una fidanzata non-italiana è molto importante

 

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per la varietà di lingua che usa nei suoi libri: Franzoso afferma di ascoltare gli stranieri per poi includere queste variazioni nei suoi libri. Scrive anche canzoni con Antonio Fiabane.

In questa tesi di laurea si studierà la varietà di lingua usata da Marco Franzoso, ma anche se ci sono differenze sociolinguistiche notevoli tra i vari personaggi o a secondo della situazione comunicativa di un personaggio. Prima di tutto si parlerà della varietà stessa, come si presenta e com’è la rappresentazione grafica. In secondo luogo si darà una panoramica delle caratteristiche di questa varietà senza tener conto della differenza individuale tra i vari personaggi. Si daranno sempre esempi tratti dal libro, ma a volte è importante leggere brani più lunghi per poter capire la situazione sociolinguistica. Per questo motivo sono stati inseriti estratti del testo nell’appendice. Per terminare il capitolo su Franzoso, si focalizzerà sul personaggio principale, Edisol, perché parla con gli altri personaggi in situazioni diverse facendo vedere variazioni mistilingue microscopiche. Siccome i personaggi non parlano quasi mai tra di loro, non è possibile indagare se presentano delle differenze a secondo della situazione comunicativa. Gli esempi sono sempre tratti dal testo “Edisol M.-Water Solubile” ed anche qui si sono inseriti nell’appendice gli estratti più lunghi. Nelle riflessioni finali vengono riassunte le differenze in due tabelle.

In tutti e tre i casi si tratta di testi prosaici e non di poesia o teatro. Si è scelta questa direzione della narrativa dialettale perché è meno ovvio trovare romanzi dialettali che non poesia o teatro in dialetto. La tradizione letteraria presenta un gran numero di teatro e poesia in dialetto, contrariamente alla narrativa dialettale che rimane molto ridotta. Non esistono molte analisi di narrativa dialettale; sarebbe quindi molto interessante studiare questa parte della letteratura in dialetto. Due interviste (con Marco Franzoso e Gian Domenico Mazzocato) mi hanno anche permesso di capire le intenzioni e le idee degli scrittori scelti. In appendice si trovano le domande delle comunicazioni personali.

Nella conclusione si presenteranno i risultati delle analisi sociolinguistiche dei tre testi scelti, “Il bosco veneziano” di Gian Domenico Mazzocato, “I léori del socialismo” di Dino Coltro e “Edisol M.-Water Solubile” di Marco Franzoso. Dopo la conclusione generale, si presenterà un confronto tra i vari scrittori per vedere se usano il dialetto in un modo diverso o no. Oltre l’uso del dialetto – o di un’altra varietà non-standard – si tratta di indagare qual è la forma della varietà usata e se questi tre autori usano tutti e tre la stessa forma del dialetto. La presentazione ortografica del dialetto è un terzo punto interessante per quel che riguarda il

 

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confronto tra Mazzocato, Coltro e Franzoso: si studierà se da quel punto di vista ci sono differenze tra di loro o se usano tutti e tre il modello proposto da Canepari (1984).

Bisogna fare un’ultima osservazione per quel che riguarda il modello grafico di Canepari e le analisi della parte seconda. Si tratta della trascrizione fonetica usata in questa tesi di laurea. La ortografia normativa (per il codice standard) non corrisponde sempre alla realizzazione dei suoni, soprattutto nel caso delle consonanti ove ci viene pronunciato /t∫i/ ad esempio. Quando c’era bisogno di trascrivere foneticamente le parole dialettali, si è ripresa la trascrizione dell’alfabeto fonetico internazionale (IPA) e questi suoni sono sempre stati messi tra barre oblique (/ /) com’è la tradizione per le rappresentazioni fonologiche.

 

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II Parte prima

1 Il repertorio linguistico italiano

1.1 Sviluppo della lingua standard

 

L’Italia è rimasta diversificata per molto tempo sia sul piano politico-economico che sul piano linguistico. L’unità nazionale data del 1870, data abbastanza recente, ma quella linguistica è un fatto ancora più attuale, si realizza solo dopo il 19511 (DE MAURO, 1984). Prima dell’unità, l’Italia era un paese policentrico dove ogni Stato aveva una sua lingua, o forse si deve dire una sua varietà linguistica, o ancora meglio indicare questa variazione linguistica col termine diverse varietà parlate; fu dunque un paese di plurilinguismo (si discuterà della terminologia più avanti in questo capitolo). Anche se conviene attirare l’attenzione sul fatto che ogni paese fu plurilingue, l’Italia non ha conosciuto il centralismo linguistico come la Francia. Contrariamente alla Francia, la frammentazione linguistica italiana è continuata per molto tempo, anche a causa della debolezza di uno Stato centrale.

Il Cinquecento fu il secolo della ‘Questione della lingua’ dove Pietro Bembo giocò un ruolo molto importante. Fu Bembo a proporre il fiorentino scritto del Trecento come lingua nazionale dell’attuale Italia (non esisteva ancora l’Italia), ma questa codificazione della lingua non è avvenuta senza problemi. Il modello bembesco non fu subito accettato: si continuò a scrivere e a parlare in dialetto (si parlerà più tardi della terminologia) e non in lingua volgare. Il modello di Bembo fu destinato alla lingua letteraria, perciò troppo complesso per applicazioni pratiche. In Italia l’Accademia della Crusca2 fu fondata nel 1582, ma rimase un’iniziativa privata. Con Salviati (1583) nacquero gli interessi filologici e nel 1612 apparse il “Vocabolario della Crusca”, un dizionario ‘moderno’ con una forza normativa a causa della descrizione lessicale e ortografica esaustiva. Si scrissero anche scritti pratici in dialetto, accanto al teatro e alla poesia dialettali del Cinquecento, prova della vivacità del plurilinguismo italiano. Crebbe la necessità di avere una lingua che si capì anche in altri paesini ed in altre città: fu la nascita delle koinè regionali (già nel ‘500),

1 Al momento dell’unificazione nel 1870, il tasso dell’analfabetismo fu molto alto: l’80% della popolazione fu privata dal contatto con la lingua scritta. (DE MAURO, 1970: 37).

2 La Crusca fu il modello per l’Académie Française (fondata nel 1635). Ma l’Académie Française ha subito promosso leggi per imporre il francese unitario, il che in Italia avvenne soltanto dopo il 1870.

 

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nelle quali si trovano tratti regionali (ad esempio tratti settentrionali). Queste koinè non vennero usate dal popolo, perché questo parlò sempre in dialetto. Furono invece ‘create’ per motivi culturali, politici ed economici. Un vero testo dialettale del Seicento non si capisce, ma i documenti scritti in lingua regionale o in volgare si capiscono anche adesso. Il dialetto scritto venne considerato incolto, contrariamente alla situazione del dialetto nel Cinquecento durante il quale ebbe ancora una fascia colta. In Toscana, la situazione era leggermente diversa: la distinzione tra lingua e dialetto era soltanto possibile nella diastratia (strati sociali) e non nella diatopia (in geografia). Ciononostante si sviluppò comunque nei grandi centri una letteratura dialettale che non vide a rivendicare la parola popolare, ma che fu piuttosto uno strumento di stilistica.

Per la diffusione dei testi scritti la stampa ebbe un ruolo molto importante. Fu vantaggioso per la vendita scrivere in una lingua comprensibile non soltanto nel piccolo paese dello scrittore, ma anche in aree più grandi. Non si può però dimenticare che buona parte della cultura (come l’insegnamento universitario e le pubblicazioni della Chiesa) si svolse sempre in latino.

Nel 1764 avvenne la prima lezione universitaria (di Economia politica) in italiano, campo che era rimasto il privilegio del latino fino a questa data (COLETTI, 1988: 493). Il Settecento fu il secolo in cui ci si rese conto dell’importanza del rapporto tra lingua e nazione3. Nella letteratura, tuttavia, le commedie migliori furono in dialetto (ad esempio Goldoni che scrisse in dialetto veneziano, ma anche Gigli, Fagiuoli e Nelli pubblicarono in toscano). Le commedie dialettali sono un’illustrazione della distinzione tra la letteratura alta (per i pochi intellettuali) e quella bassa (per il grande pubblico).

L’uomo più importante dell’Ottocento fu Alessandro Manzoni e la sua celebra opera I promessi sposi. Manzoni pensò ad una scrittura nuova, quella del romanzo. Rifletté sulla lingua da usare come scrittore di questo nuovo stile letterario. La prima stampa de I promessi sposi del 1827 accentuò il toscano trecentesco nella sua lingua italiana. Le sue continue riflessioni sulla lingua portarono ad una revisione sostanziale dello stesso romanzo, nel 1840, nella quale usò esclusivamente la lingua italiana basata sul fiorentino colto e vivo contemporaneo. In questo periodo l’italiano non fu ancora una lingua effettivamente parlata perché non apparteva ad una società reale, ma soltanto alla sfera

3 Gian Francesco Galeani Napione introdusse anche la nozione di patria accanto alla parola nazione che era già nata durante il Settecento. Secondo Napione, “la lingua è uno dei più forti vincoli che stringa alla patria” (Dell’uso e dei pregi della lingua italiana, 1791) (COLETTI, 1988: 498).

 

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letteraria tranne in Toscana dov’era la lingua parlata dei colti. Le vere lingue usate in Italia furono i dialetti.

Nel 18614 avvenne l’unificazione dell’Italia con la quale dovrebbero nascere anche ‘gli Italiani’, il che secondo D’Azeglio non è ancora una realtà accertata. Ne “I miei ricordi” (pubblicato postumo, 1867), fa discorsi del tipo: “- badate, l’Italia è fatta, non gl’Italiani, bisogna rifare l’educazione”5. E non era nemmeno nata ‘la lingua italiana’. Manzoni ricevette il compito di elaborare un piano per l’italianizzazione linguistica del paese appena unito. Il numero del popolo istruito fu ancora molto limitato ed il dialetto rimase la lingua quotidiana.

Durante il Novecento, i dialetti locali si mossero di più verso i dialetti delle grandi città di quanto essi si avvicinarono più verso l’italiano: si sviluppò un italiano regionale. Non si tratta più di un dialetto, ma di una varietà dell’italiano più o meno comune con tratti locali, soprattutto cittadini. Le varietà di lingua usate nelle campagne rimanevano più stabili, mentre quelle dei centri cittadini subivano cambiamenti notevoli. Il bilinguismo tradizionale dell’Italia (italiano e dialetto) si trasformò piuttosto in una situazione di diglossia (si veda 1.5). L’invenzione della radio e della televisione posero le basi per l’introduzione della lingua italiana in tutte le case. Divenne necessario avere una lingua unitaria e la conoscenza di questa lingua, in questo caso una lingua parlata e non più un modello letterario come era stato proposto da teorici precedenti. Ma l’italiano parlato rimane sempre influenzato dall’oralità dialettale anche nel ventunesimo secolo: i dialetti sono ancora molto vivi accanto ad un italiano regionale e all’italiano standard. Si discuterà della situazione attuale dell’uso del dialetto e dell’italiano standard nella realtà italiana sotto il punto 1.5.

1.2 I confini della varietà: lingua e dialetto

 

La nozione di lingua viene discussa numerose volte negli studi linguistici. Ci sono diverse concezioni di che cosa sia una lingua. Berruto (BERRUTO, 2003c: 181) ne ritiene tre: una nozione linguistica della lingua nella quale lingua è più o meno l’equivalente di

4 La vera unificazione fu realizzata nel 1870, con l’annessione di Roma, quattro anni dopo l’annessione di Venezia (1866).

5 (http://www.cronologia.it/storia/a1835g.htm)

 

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un sistema linguistico con caratteristiche di tipo strutturale; la seconda interpretazione è quella variazionistica, per la quale una lingua contiene tutte le varietà di lingua; e l’ultima visione viene data dalla sociolinguistica: “una lingua è ogni sistema linguistico socialmente sviluppato, che sia lingua ufficiale o nazionale in qualche paese, che svolga un’ampia gamma di funzioni nella società, che sia standardizzato e sia sovraordinato ad altri sistemi linguistici subordinati eventualmente presenti nell’uso della comunità (che se sono imparentati geneticamente con essa saranno i suoi dialetti)” (BERRUTO, 2003c: 181). A questa nozione di lingua viene aggiunta la parola standard con la quale indica che si tratta di una lingua i cui tratti non sono marcati socialmente. In questo lavoro si utilizzerà lingua e varietà di lingua nel loro significato sociolinguistico. Nel territorio italiano la lingua è l’italiano e tutte le altre varietà possibili vengono indicate con il termine varietà o varietà di lingua. La lingua è socialmente sovrapposta alle varietà che esistono accanto ad essa.

La lingua standard si oppone al dialetto negli studi sociolinguistici per i quali un dialetto non può mai essere una varietà standard. La nozione di lingua standard è strettamente legata a quella di norma. La linguistica normativa ci obbliga a dire o a scrivere una cosa invece dell’altra: quello che si può e non si può dire. La lingua standard è codificata, le norme sono esplicitate ed ai parlanti viene imposto di usare la lingua in tale modo. Lo standard ha la funzione di prestigio ed è il modello di riferimento. Accanto al filone normativo, al quale appartiene tra altri Ammon (che parla di “codificazione” e “tendenza all’invarianza” [BERRUTO, 1987: 58]), esiste quello descrittivo. Questo pone come caratteristica della lingua standard i tratti linguistici non marcati (o meno marcati) lungo gli assi della variazione linguistica (diafasica, diamesica, diastratica e diatopica). Il quadro linguistico normativo serve uno scopo particolare: mettere in luce la struttura (spesso solo grammaticale) della lingua. Si tratta per certuni di delineare le caratteristiche della conoscenza/competenza linguistica strutturale di ogni parlante, quindi tutti conoscono la lingua standard, anche se l’uso devia dallo standard. Nelle tappe acquisizionali dell’italiano prevale comunque una generalizzazione ‘strutturale’, in genere anche rafforzata dall’insegnamento. Le ‘correzioni’ sociolinguistiche, in genere, avvengono solo dopo. Il filone descrittivo tiene conto di tratti meno marcati, perciò include anche l’italiano neo-standard (si veda lo schema di Berruto a pagina 19). Ovviamente è più semplice individuare l’italiano standard secondo i normativisti, perché esiste una codificazione scritta molto precisa. La sociolinguistica invece opta per una prospettiva rigorosamente descrittiva, che metta in luce le variazioni fra lo standard o la

 

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norma e l’uso concreto. Per questo motivo si parla in sociolinguistica della competenza comunicativa e non di quella puramente ‘strutturale’.

Il dialetto è una varietà linguistica definita in primo luogo in termini di variazione diatopica, cioè geografica. Per essere considerato un dialetto (D) di una lingua (L), si devono osservare tre condizioni: (1) la necessità di una vicinanza strutturale con la lingua L; (2) L deve essere la lingua-tetto di D; e (3) D ha parentela genetica con L. Si dividono i vari tipi di dialetti: quelli primari, secondari e terziari (A. Martinet, 1953). I dialetti primari sono varietà sorelle del dialetto dal quale si è sviluppata la lingua standard. I dialetti secondari si sono formati per differenziazione della lingua comune. I dialetti terziari sono varietà formate per differenziazione della lingua standard, dopo la diffusione di essa. La situazione italiana è un esempio di questi dialetti primari: i dialetti d’Italia non sono ‘dialetti italiani’: la lingua standard si è sviluppata in base ad un dialetto particolare, cioè il fiorentino trecentesco.

I dialetti sono dunque sempre subordinati alla lingua standard dal punto di vista sociolinguistico, cioè sempre più marcati della lingua standard. Vengono ad esempio usati nella sfera familiare e confidenziale (a casa, sul lavoro, con una conoscenza, ecc.) ma all’università ad esempio (nelle comunicazioni in aula) si esige piuttosto l’uso della lingua standard. Quest’ultima appartiene soprattutto alla scrittura contrariamente al dialetto il cui uso viene spesso limitato all’oralità. Dal momento in cui un parlante deve scrivere non usa più il dialetto, ma l’italiano (anche se in alcuni casi non si tratta di italiano standard, ma di un italiano popolare). A scuola si insegna l’ortografia della lingua italiana e non del dialetto, per cui i parlanti dialettofoni non sempre sanno scrivere in dialetto. Però esiste l’idea della rivalorizzazione del dialetto per cui si insegna anche il dialetto ai bambini (come nel Veneto ad esempio). Nello stesso senso, la Liga Veneta e la Lega Lumbard hanno provato ad inserire il dialetto in situazioni ufficiali.

1.3 Il repertorio linguistico degli Italiani

 

Nella realtà italiana parlata non esistono soltanto la lingua ed il dialetto, il contatto di questi codici risulta in varietà diverse che si avvicinano all’uno o all’altro lato. Per di più, la lingua viene spesso marcata da fattori diastratici (socialmente), diatopici

 

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(geograficamente), diamesici (il canale della comunicazione) e diafasici (a seconda della situazione comunicativa).

L’italiano regionale si trova più vicino alla lingua italiana che ad un dialetto: si riferisce all’uso della lingua italiana in una regione particolare. Ci sono influenze del dialetto di tipo lessicale e grammaticale e si riconosce la pronuncia dialettale. Ovviamente questo uso regionale è anch’esso soggetto a variazioni come età, classe, sesso, istruzione, ecc. (BERRUTO 2003c). Nel lessico ci sono ad esempio modificazioni di significato: più ampio, oppure più ristretto oppure un significato diverso dall’uso nella lingua standard. Nella pronuncia e nella grafia si osservano per esempio nel Veneto la mancata distinzione tra consonanti semplici e geminate. Un tratto tipico del Veneto è lo scempiamento consonantico, cioè le geminate diventano semplici (vanno, terza persona plurale, si pronuncia /vano/). L’italiano regionale usato da un parlante monolingue si avvicina di solito più allo standard di quello usato da un parlante dialettofono meno colto. Importante è ricordare che l’italiano regionale è il risultato della variazione diatopica (geografica). L’italiano regionale piemontese non è affatto uguale a quello parlato nel Veneto o in Lombardia o in altre regioni.

Oltre l’italiano regionale esiste l’italiano popolare, la cui definizione è spesso un punto di discussione tra i linguisti. Si tratta di una variazione diastratica, cioè una diversificazione di tipo sociale. Le prime definizioni vengono da Tullio De Mauro (1970) e Manlio Cortelazzo (1972). De Mauro spiega che un testo scritto in italiano popolare è “un documento di come la maggioranza della popolazione italiana risolve negli anni Sessanta il problema di comunicare uscendo fuori dell’alveo dialettale” (DE MAURO, 1970). Cortelazzo parla di un “tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madre lingua il dialetto” (CORTELAZZO, 1972). Un testo in italiano popolare ci dà la prima impressione di essere scritto con errori. De Mauro basa la sua definizione sul fatto che prima della seconda guerra mondiale, le persone non avevano occasione di scrivere. Dopo la guerra hanno provato a scrivere ed il risultato viene chiamato italiano popolare. Cortelazzo accentua il livello di scolarizzazione: chi ha una scolarizzazione bassa scrive in italiano popolare pensando di scrivere in italiano standard. Come dominio di ricerca prende le lettere di prigionieri di guerra o lettere di immigrati, si tratta dunque di un ‘scrivere per necessità’. Nell’italiano popolare entrano influenze del parlato (dialettale), semplificazioni di vari tipi ed ipercorrettismi (a causa del voler scrivere bene). Nei casi in cui l’italiano popolare si presenta in contesti scritti si osserva l’incongruenza grafica: una parola viene scritta in modi diversi. Per quel che riguarda la sintassi, si osservano le

 

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(2) e le concordanze ad sensum (3). Nella morfologia, il tratto più importante è l’uso del ci che si espande (4), e la fonologia viene influenzata dai tratti regionali. dislocazioni a sinistra o a destra (1), il che subordinante generico6

(1) Lo vuole un caffé? (dislocazione a destra)

(2) Si sentiva che era piovuto che era poco lì. (BERRUTO, 2003b: 61)

(3) … sono tutti gente che … lasciano… (BERRUTO, 2003b: 62)

(4) ci [ai nipotini] dico che è brutto emigrare (BERRUTO, 2003b: 63)

 

Come si vede nello schema di Berruto a pagina 19, si tratta di due varietà che appartengono alla sfera orale, anche se a volte si usano anche in testi scritti (cf. asse di variazione diamesica). Si deve però fare l’osservazione che l’italiano popolare non equivale necessariamente a italiano regionale popolare come nello schema di Berruto. con il termine di italiano popolare ci si riferisce in genere alla problematica dello scritto di una popolazione ancora poco esposta al modello standard scritto (per il parlato useranno molto più facilmente il dialetto, o una koinè dialettale). L’italiano regionale popolare (schema Berruto a pagina 19) è la variante parlata marcata in diastratia (popolare rispetto a regionale neo-standard). La varietà parlata socialmente più alta in questo schema generale è l’italiano parlato colloquiale (cf. asse di variazione diastratica), ma l’italiano regionale e l’italiano popolare sono sempre socialmente più alte dell’italiano gergale o l’italiano informale trascurato. L’italiano standard letterario è soprattutto marcato dal punto di vista diastratico e diamesico: socialmente si tratta di una varietà più alta ed appartiene alla lingua scritta (come indica il termine letterario). Il centro (le varietà standard) dello schema di Berruto non presenta un bel cerchio, cioè anche queste varietà sono marcate in un modo o un altro (si nota che l’italiano neo-standard viene anche usato in contesti orali). Le lingue speciali, come l’italiano burocratico, l’italiano tecnico-scientifico e l’italiano formale aulico, appartengono prevalentemente alla sfera scritta (ma si osservano anche usi orali) e sono socialmente le varietà più alte. Si usano soltanto in situazioni specifiche e non nella realtà quotidiana. Il parlante italiano adatta la sua varietà a seconda della situazione (dalla situazione dipende anche se bisogna usare una varietà scritta o orale; chi appartiene a questa situazione tiene conto del livello sociale della varietà usata).

6 Viene anche chiamato il che polivalente.

 

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In una specifica realtà linguistica non si vede esclusivamente una variazione diatopica o diastratica. Molto spesso la varietà di lingua usata dai parlanti viene influenzata da elementi diastratici e diatopici allo stesso tempo. La classificazione delle varietà di lingua rimane un punto di discussione: linguisti diversi definiscono i vari parlati italiani in un modo diverso.

Una conseguenza già discussa dell’incontro di più varietà di lingua risulta nell’italiano regionale e popolare, ma questi nuovi tipi di varietà sono soltanto la fase finale del contatto (che non avviene necessariamente) fra i codici.

 

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(BERRUTO, 1987)

 

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1.4 Contatto linguistico

 

In un discorso di bilingui ad esempio ci possono essere interferenze, cioè tratti lessicali, semantici, fonologici, morfosintattici dell’altra varietà di lingua. E’ il risultato del contatto di queste due varietà. Weinreich (1953) ha introdotto questa nozione di interferenza definendola “esempi di deviazione dalle norme dell’una o dell’altra lingua che compaiono nel discorso dei bilingui come risultato della loro familiarità con più di una lingua, cioè come risultato del contatto linguistico” (WEINREICH, 1953:3). Un esempio di interferenza sarebbe la frase “Portame i libros” (MORETTI, 2000:104), detto da uno spagnolo parlando italiano, oppure “Mio padre ha condotto tutto il tempo” (MORETTI, 2000:105), causato dall’influsso francese conduire.

Accanto alle interferenze appaiono prestiti a causa di un incontro di diverse varietà di lingua: sono gli elementi linguistici (di una varietà A) che vengono accettati nel sistema linguistico che ha subito l’influsso (varietà B). I presiti inglesi sono numerosi anche nella lingua italiana: computer, internet, nightclub, zapping, ecc. I prestiti rimangono invariati o possono essere adattati al codice di arrivo (in questo caso l’italiano).

Una terza conseguenza è la commutazione di codice (oppure code-switching): l’alternanza di due o più varietà in un discorso di un parlante plurilingue. Nel discorso di un unico parlante appaiono almeno due lingue (o varietà di lingua, ad esempio dialetto e lingua standard). Il parlante spesso non si accorge della commutazione di codice, per lui, non si tratta di un discorso un po’ caotico o disordinato come viene interpretato da un estraneo. Un esempio di un code-switching italiano – svizzero tedesco tratto da Moretti (MORETTI, 2000: 107):

(5) “Ma questo è quello che dico io, das isch genau daas won [sic] ich säge … (Pizzolotto 1991, 116) [« è esattamente quello che dico io »]”.

 

Ci sono diverse funzioni di questa commutazione di codice, ci possono essere vuoti lessicali in una varietà che vengono riempiti grazie al lessico dell’altra varietà; nella Svizzera tedesca, l’uso dell’italiano tra una commutazione di codice mostra l’identità complessa dei parlanti, sia sul piano linguistico sia su quello politico (MORETTI, 2000: 109); ma non possiamo escludere lo scopo ludico (ad esempio per mettere in evidenza la pointe di una barzelletta, ma anche per prendere in giro la gente non-italofona nel caso

 

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italiano), o il fatto di far vedere le conoscenze proprie di una varietà. Gumperz (1982) fa la distinzione tra un code-switching situazionale che dipende dunque dalla situazione ed un code-switching metaforico che ridefinisce la situazione grazie alla creatività. Per aver una commutazione di codice valida è necessaria una struttura lineare della frase nelle due varietà di lingua. Un code-switching tra l’italiano ed il tedesco in una frase come “*Gianna nicht mangia” o “*Gianna mangia nicht” (BERRUTO, 2003: 221) non è riuscito perché non in italiano è preverbale mentre nicht in tedesco postverbale.

1.5 La situazione sociolinguistica dell’italiano contemporaneo

 

L’Italia rimane sempre un paese di plurilinguismo dove i dialetti sono molto vivi. Si potrebbe definire il repertorio linguistico degli italiani come “una situazione di bilinguismo endogeno [...] a bassa distanza strutturale con dilalia”. (BERRUTO, 2003a: 5)

In primo luogo il bilinguismo è una nozione molto ambigua. Diversi autori danno una definizione diversa di che cosa sia il bilinguismo tra cui ci sono due estremi: MacNamara (1967) (tra altri) considera bilingue chiunque parli più di una lingua (o varietà di lingua), l’altro campo giudica bilingue solo chi possiede una conoscenza perfetta di due varietà di lingua. Esistono diversi criteri per esaminare se una persona è bilingue o no: soprattutto il grado di competenza e il modo di apprendimento (sin dall’inizio o appresa dopo) sono i fattori più importanti. Una persona può essere considerata bilingue secondo Bloomfield (1933) se ha appreso una lingua straniera senza perdita della lingua materna. Weinreich (1953) ha una sua visione sul bilinguismo che sarebbe intermedia rispetto alle prime definizioni: “Chiamerò qui bilinguismo la pratica di usare alternativamente due lingue. La persona che si comporta in questo modo verrà definito come ‘bilingue’”. Weinreich pone come base della sua definizione l’uso delle varietà di lingue e non tiene conto del grado di competenza. Per Titone (1972), psicolinguista, un bilingue possiede la capacità di usare una lingua senza pensare nell’altra lingua. Grosjean (2001) definisce i bilingui come: “those who use two (or more) languages (or dialects) in their everyday lives.” (GROSJEAN, 2001 : 11). Include dunque immigranti che parlano la lingua del paese con difficoltà, ma anche gli interpreti professionali che parlano due lingue. In ogni caso, il bilinguismo è un fatto assolutamente normale nella società, il monolinguismo avviene più spesso in nazioni dove c’è un’identità nazionale unica. Oltre un bilinguismo esiste un

 

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cosidetto semilinguismo (o semibilinguismo) per indicare un parlante che non parla bene né una varietà né l’altra. Sono parlanti che mischiano le due varietà senza avere una padronanza piena in una delle due.

Una seconda nozione della definizione della situazione contemporanea dell’italiano è endogeno: il bilinguismo non è recente a causa di immigrazioni, ma è un fatto radicato storicamente. Si tratta inoltre di un bilinguismo a bassa distanza strutturale cioè le strutture delle lingue o varietà di lingua hanno un grado alto di vicinanza strutturale, contrariamente alla distanza abbastanza grande tra l’inglese e l’italiano per esempio.

L’ultima parte della definizione contiene il termine dilalia, una nozione proposta da Berruto che la distingue da una situazione di diglossia. Nel caso della diglossia, c’è una varietà alta ed una varietà bassa: esiste una coesistenza di due varietà (A e B) ciascuna con un ruolo definito, socio-funzionalmente ben differenziato. Ad esempio l’Italia dove il rapporto tra la lingua nazionale e i dialetti viene considerato come un rapporto di diglossia. Berruto fa ancora la distinzione tra diglossia e dilalia, la cui caratteristica si trova nel fatto che almeno una parte della popolazione usa il codice A (la varietà alta) nella conversazione usuale. Per Berruto, la situazione italiana non è una di diglossia ma di dilalia: tra il codice A e B le differenze sono dunque contestuali e non tanto sociali (BERRUTO, 2003c): l’uso del codice dialettale non è quindi necessariamente segno di un’appartenenza sociale, ma di un contesto specifico (famiglia/amici) in cui questo dialetto viene usato.

Lo stesso Berruto spiega l’italiano come una “gamma di varietà” che formano un “continuum con addensamenti” (BERRUTO, 1987: 29). In Italia coesistono diverse varietà ma non si distinguono confini netti tra una varietà ed un’altra, si tratta di un passaggio graduale. Però nel continuum “le diverse varietà coincidono con addensamenti dei fasci di tratti lungo il continuum, in maniera che gli addensamenti principali possono trovarsi anche non agli estremi del continuum” ( BERRUTO, 1987: 29). I vari tratti non appartengono soltanto ad una varietà, ma si sovrappongono parzialmente. L’inesistenza di confini netti delle varietà nel continuum vale anche per i parlanti che corrispondono alle varie varietà: studenti o professori universitari parlano a volte quasi un italiano popolare.

L’italiano contemporaneo rimane sempre sottoposto ad influssi innovativi. Le varietà giovanili ad esempio hanno un influsso considerevole: “L’italiano contemporaneo deve alle varietà giovanili l’accelerazione della fase innovativa” (RADTKE, 2003: 224). Le varietà giovanili portano ad un lessico più ricco e hanno importanza nella formazione di parole con suffisso. L’espressione fuori di testa per dire matto non veniva utilizzata da

 

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persone adulte fino alla fine degli anni Ottanta, ma adesso è entrata nel lessico dell’italiano contemporaneo (RADTKE, 2003: 222). Un suffisso molto produttivo di influsso giovanile è –oso: si formano neologismi come cazzoso (da cazzo) o palloso (da palla). La lingua pubblicitaria e quella dei mass media hanno anche una grande importanza per l’italiano contemporaneo: l’influsso è considerevole. Si osservano questi influssi più nell’Italia settentrionale che nell’Italia meridionale (RADTKE, 2003: 228).

In Italia sono pochi quelli che possiedono l’italiano standard come lingua materna, questa varietà viene solo di rado appresa come madrelingua (però dalle analisi di Berruto e di Marcato risulta che c’è una minoranza di italofoni, cf. infra). Chi ha la pronuncia standard, l’ha dovuta imparare per motivi socio-professionali, perciò essa rimane sempre artificiale. Pochi parlano veramente l’italiano standard: Mengaldo “la vera realtà parlata dell’italiano sono gli italiani regionali e locali; si può anzi dire [...] che l’italiano parlato è sempre regionale (o locale)” (MENGALDO, 1994: 96-97).

Si può porre la domanda come sarà il futuro della situazione linguistica italiana. Secondo Berruto (1994), ci sono scenari diversi: oppure il mantenimento della situazione attuale; oppure una ‘trasfigurazione dei dialetti’; o anche una morte dei dialetti, ma con numerose varietà regionali e sociali (non si può dimenticare che si parla già della morte dei dialetti dall’Ottocento in poi); ed il quarto e ultimo scenario sarebbe quello delle molte Italie e dunque una maggiore differenziazione regionale. La situazione attuale per Berruto non corrisponde al 100% a quella descritta da Carla Marcato (2002) in Dialetto, dialetti e italiano, forse dovuto al fatto dell’anno in cui sono scritte le opere. Secondo Berruto, due terzi della popolazione conoscono ed alternano l’italiano ed il dialetto, una quarta sarabbe monolingue italofono ed una piccola minoranza della popolazione conoscerebbe una dialettofonia esclusiva o quasi esclusiva. Marcato parla sempre di una minoranza di monolinguismo dialettofono (6-7%), ma secondo lei, il 40% conoscerebbe soltanto l’italiano. Significa che in una decina d’anni, c’è più o meno un aumento del 15% di monolingui italiani. Il tasso dell’alternanza dell’italiano ed il dialetto sarebbe intorno al 50%, sempre meno dei due terzi indicati da Berruto. Secondo queste cifre, l’Italia conosce una diminuzione dell’uso del dialetto (stretto) ed una crescita di monolingui italiani (non si intende solo l’italiano standard, ma anche quello regionale).

 

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1.6 Riflessioni finali

 

In questo primo capitolo si è offerta una panoramica della situazione sociolinguistica dell’Italia contemporanea. Per la sua storia, l’Italia è un paese linguistico particolare. La delineazione delle diverse varietà non risulta sempre molto chiara, ma in alcuni casi ci aiuta ad identificare una varietà (come si indicherà parlando di Gian Domenico Mazzocato e “Il bosco veneziano”).

La realtà linguistica può essere rappresentata come una “gamma di varietà”, caratterizzata da un continuum con addensamenti (BERRUTO, 1987). Il fatto che non si tratti di un gradatum sarà illustrato studiando la lingua in Marco Franzoso, sempre tenendo conto dell’importanza della sociolinguistica. Esistono molte varietà all’interno dell’Italia ed il loro contatto provoca effetti come le interferenze o commutazioni di codice. E’ interessante vedere perché uno scrittore usa una lingua invece di un’altra. La situazione italiana è particolare e la letteratura riflette a volte questa tipicità italiana, introducendo varietà oltre l’italiano standard. Il modo in cui queste varietà sono presenti nella letteratura contemporanea può essere molto diverso, come si vedrà nell’analisi dei testi scelti.

Le nozioni sociolinguistiche sono importanti in questo lavoro per l’analisi del testo stesso “Edisol-M. Water Solubile, detective, patriota e poeta in El strano caso dei meteoriti verdastri”, per il testo di Gian Domenico Mazzocato, “Il bosco veneziano” e per l’analisi di “I léori del socialismo” di Dino Coltro. Si ricorrerà a termini come lingua, dialetto, italiano popolare, italiano regionale, ecc.

 

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2 La situazione linguistica nel Veneto

 

La situazione linguistica nel Veneto è particolare rispetto alle altre regioni dell’Italia: la dialettofonia è ancora molto viva in questa parte della penisola. La presenza della forte dialettofonia risulta anche in una letteratura dialettale molto viva (si veda 3).

2.1 Delimitazione geografica

 

Dal punto di vista politico, il Veneto è una regione italiana settentrionale che comporta le grandi città come Verona, Vicenza, Padova, Treviso e Venezia. Si stende ad ovest fino al Lago di Garda, a sud fino alla città di Ferrara (che appartiene all’Emilia Romagna), ad est fino al Mare Adriatico ed a nord fino alla frontiera austriaca. Il Veneto confina con l’Emilia Romagna a sud, la Lombardia ed il Trentino-Alto Adige ad ovest e con il Friuli-Venezia Giulia al nord-est della regione (Appendice 1: carta della regione veneta).

Comporta le province di Padova, Rovigo, Verona, Vicenza, Venezia, Treviso e Belluno. Queste province sono importanti per la variazione linguistica all’interno della regione veneta, che mostra tratti specifici oltre quelli regionali (cf. 2.2).

Come già indicato, il Veneto politico non corrisponde al 100% al Veneto linguistico7. I dialetti di tipo veneto si trovano nella regione del Veneto tranne nella provincia di Belluno, il cui dialetto è del tipo ladino per Cortelazzo & Paccagnella (1992), ma non tutti i linguisti sono d’accordo. Per Canepari (1984), al contrario, il bellunese appartiene ai dialetti veneti. La provincia di Pola (in Istria) non appartiene più al territorio italiano, ma ci sono sempre tratti che assomigliano a quelli veneti.

7 Linguisticamente anche Trieste si avvicina al Veneto pur essendo una città della regione friulana.

 

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2.2 Il Veneto linguistico

 

Questa delimitazione dei tratti linguistici del Veneto non è affatto facile da fare. Ci sono ad esempio suoni che si possono realizzare singolarmente in modi diversi. La nozione di prestigio è molto importante per una lingua o un dialetto.

Una prima separazione all’interno dell’italoromanzo si fa tra i dialetti settentrionali (tra cui il Veneto) e gli altri dialetti. La linea La Spezia – Rimini separa questi due settori (si tratta di una linea immaginaria ovviamente). A nord di questa isoglossa, i dialetti si distinguono dagli altri per alcune proprietà, tra cui lo scempiamento consonantico.

Maiden (1999), tra altri8, classifica i dialetti italoromanzi (Appendice 2: carta linguistica dell’Italia) nella sua opera del 1999, Storia linguistica dell’italiano. Prima di tutto ci sono i dialetti settentrionali che vengono suddivisi in ‘galloitalico’ da una parte (il Piemonte, la Lombardia, la Liguria e l’Emilia-Romagna) e il veneto ed il friulano dall’altra. I dialetti ‘galloitalici’ si avvicinano ai dialetti francesi e provenzali, soprattutto sul lato fonologico (ad esempio la dittongazione delle vocali in sillaba aperta tonica, per esempio miele), mentre i dialetti veneti mostrano un’evoluzione più conservativa e nel veneto rimangono più analogie con il toscano. Storicamente il Veneto assimilò per primo la cultura toscana (sin dalla fine del Duecento), il che risultò in un influsso che fu anche linguistico.

Un secondo gruppo di dialetti vengono chiamati i dialetti toscani (tra cui anche il corso) localizzati nella regione toscana.

Un terzo e ultimo grande gruppo contiene i dialetti centromeridionali che vengono suddivisi in dialetti centrali (le Marche, l’Umbria ed il Lazio), meridionali (l’Abruzzo, la Puglia settentrionale, Molise, la Campania e la Basilicata) e meridionali estremi (Salento, la Calabria meridionale e la Sicilia). All’interno dei dialetti centrali, si individua anche un’altra isoglossa che va da Roma ad Ancona e che delimita tratti tipici meridionali, tra cui la metafonia e la lenizione delle consonanti postnasali.

Non esiste un dialetto veneto, all’interno della regione i dialetti sono plurimi e si possono individuare tratti diversi per ogni dialetto anche se non ci sono veramente distinzioni nette (cf. l’italoromanzo come un continuum con addensamenti [BERRUTO, 1987]).

8 Marcato (2002): dialetti settentrionali, friulano, toscano, dialetti centromeridionali, sardo.

Haller (1999): dialetti italogallici, dialetti centrali, dialetti meridionali.

Pellegrini (1990): tre grandi gruppi: dialetti centrali, dialetti meridionali, dialetti settentrionali; più il sardo.

 

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Una prima distinzione è di tipo diatopico. Cortelazzo & Paccagnella (1992) distinguono quattro gruppi all’interno del Veneto: il veneziano lagunare (da Pellestrina a Chioggia, ma anche di Burano, Caorle e della terraferma di Mestre), il veneto centrale (tra cui il padovano, il vicentino ed il polesano), il veneto occidentale (che contiene il veronese e che va fino alla zona d’interferenza con il mantovano e il bresciano) ed il veneto nordorientale (con il trevigiano, il feltrino, il bellunese, la varietà ‘liventina’ e l’agordino-zoldano). Canepari (1984) classifica i dialetti in un modo un po’ diverso, ma senza una grande differenza: per lui esiste il gruppo orientale (del quale la città di Venezia è il punto focale), il gruppo centrale (con il punto focale di Padova, ma al quale appartengono anche i dialetti di Vicenza e Rovigo), il dialetto veneto occidentale (la zona di Verona) ed il settentrionale (la zona di Belluno). Ci sono dunque quattro grandi zone all’interno del Veneto, ma tra gli autori non esiste un’unanimità. Oltre a questi quattro grandi gruppi ci sono le zone di interferenze (cf. Berruto, continuum con addensamenti).

Oltre questa distinzione diatopica in quattro zone, si deve tener conto di una variazione diatopica-diastratica, cioè la distinzione dialetto urbano – rurale. Nel veronese ad esempio, il nesso consonantico [KL] del latino si è sviluppato in // nel dialetto urbano (come nel veneziano), ma in quello rustico è diventato semplicemente /i/ (ciamar contro spéio). Un’altra caratteristica del veronese che l’oppone al veneziano è la conservazione della consonante liquida /l/ (che si perde in veneziano). La liquida ha vari sviluppi finali, oppure si mantiene o ha una pronuncia diversa /ł/, chiamata la /l/ evanescente (nel veronese ad esempio) oppure si riduce a Ø (si rinvia per esempio alle caratteristiche del veneziano). La mancata dittongazione distingue il veronese dal veneziano: vén (viene), nel veneziano vién; mél (miele), nel veneziano mièl (ZAMBONI, 1979 : 39). La /v/ in posizione interna è molto debole nel veronese: pióa (pioggia), la ol (ella vuole), ecc. (ZAMBONI, 1979 : 39).

Morfologicamente il veronese si caratterizza dal metaplasmo: la generalizzazione di /o/ finale per il maschile e la /a/ finale per il femminile, dolso (dolce), verdo (verde), féara (febbre), parento/a (parente) (ZAMBONI, 1979 : 40). Alcune parole veronesi: butìn/buteleto (bambino), sdinsala (zanzara), siolar (fischiare), nel veneziano subiar, … (ZAMBONI, 1979 : 41).

La nozione di prestigio è molto importante. L’opposizione tra lingua e dialetto si basa anche sul fenomeno del prestigio: la lingua ha un prestigio che non appartiene al dialetto. Ma anche all’interno dei dialetti veneti, il veneziano ha questo ruolo di prestigio, perciò si ritrovano anche la pronuncia ed altri fenomeni veneziani in altri dialetti del tipo veneto. Il

 

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veneziano è il dialetto che ha sempre avuto un prestigio più grande degli altri dialetti: si parla essenzialmente a Venezia, Mestre e dintorni. Il nesso consonantico [KL] del latino prima è diventato // : CLAMARE > /amar/ (ciamar) (ZAMBONI, 1987), e non diventa /i/ come nel veronese SPECULU > /spèio/ (ZAMBONI, 1979). Un altro tratto veneziano è il passagio a Ø delle occlusive intervocaliche, come /saón/ per sapone o /monéa/ per moneta. Il veneziano è fortemente conservatore per le vocali finali (che cadono spesso nell’area veneta): la /a/ è conservata in genere, ma le vocali /e/ e /o/ possono cadere. In genere la /e/ cade dopo /r/, /l/ e /n/: /cuòr/ per cuore, /canal/ per canale, /tién/ per tiene; la /o/ cade dopo /n/: /man/ per mano (ZAMBONI, 1979: 23).

Oltre questi fenomeni fonologici ci sono anche peculiarità di tipo morfosintattico e lessicale. Per la formazione del plurale maschile, il veneziano aggiunge una /i/ (in alcuni casi si tratta di una sostituzione della vocale finale). L’esito in /e/ è considerato marginale (ZAMBONI, 1979: 24). Per quel che riguarda i pronomi, il veneziano presenta una mancanza della distinzione tra i pronomi soggetto io e tu e quelli oggetto, me e te: diventano entrambe mi e ti, se sono tonici e me o te se attone (ZAMBONI, 1979: 24). Per il verbo, la prima persona dell’indicativo imperfetto mostra un tratto interessante: nel veneziano, l’esito è in /a/ e non in /o/, mi credeva invece di credevo (ZAMBONI, 1979: 27). Il verbo irregolare essere, presenta una forma tipica del veneziano: zé (o storicamente scritta xe) che significa sei, è.

Il lessico veneziano si caratterizza da parole inserite dopo nel lessico italiano: lido, secca, pontile, laguna, traghetto, gazzetta, doge, ciao, ecc. (ZAMBONI, 1979: 29). Altre parole veneziane sono legate a diverse sfere (la sfera familiale, la casa e la cucina, l’abbigliamento e il lavoro, ecc.): puté(l)o (bambino), moroso (fidanzato), toso (ragazzo), pirón (forchetta), ca(l)eghèr (calzolaio), schèi (soldi), garbo (acido, aspro), ecc. (ZAMBONI, 1979: 29-31)

Nei dialetti del Veneto centrale (tra cui il padovano, il vicentino ed il polesano) i tratti affiorano più nella variante rustica del dialetto. Questo gruppo presenta anche la /l/ evanescente come nel veneziano: /gondoła/ (gondola) (ZAMBONI, 1979: 23). Nel dialetto di tipo padovano, le vocali finali si mantengono più che negli altri dialetti: soltanto la /o/ e la /e/ possono cadere se sono precedute da una /n/ (ad esempio man per mano o can per cane), ma a condizione che la /e/ non è morfema del plurale. Un altro tratto tipico del padovano è la mancata dittongazione della /o/ breve tonica in sillaba aperta del latino (per esempio fuoco in italiano standard ha il dittongo). Questo gruppo dialettale pronuncia una /o/ chiusa invece del

 

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dittongo, come nel veneziano dove si vede anche un dittongo, ma contrariamente al gruppo nordorientale (trevigiano, feltrino, bellunese) che presenta una ‘o’ aperta, //.

Un altro tratto tipico di questi dialetti centrali è la metafonia: l’innalzamento delle vocali /e/ e /o/, a causa di una /i/ che segue; alcuni esempi tratti da Zamboni sono toso – tusi (ragazzo/i), mése – misi (mese/i), ténpo – tinpi (tempo/i) (ZAMBONI, 1979: 33).

Per la morfologia è da notare l’imperfetto in –éva, o nel dialetto rustico in –éa: ghéva – ghéa, ma anche (a)ndaséa per la prima persona (andavo), basato su forme come faséa e diséa (ZAMBONI, 1979: 34). Alcune differenze nel lessico: fiólo, nel veneziano fio; gnaro (nido), nel veneziano nio; pito (tacchino) nel veneziano dindio.

L’ultimo gruppo che verrà discusso è il veneto settentrionale (trevigiano – feltrino – bellunese). I dialetti del Veneto settentrionale mostrano una debolezza delle vocali finali, che hanno tendenza a cadere: bel (bello), foc (fuoco), let (letto), lof (lupo), mes (mese), ecc. (ZAMBONI, 1979: 36). Questa caduta delle vocali finali causa anche una neutralizzazione delle consonanti sorde e sonore in posizione finale: frét (freddo), calt (caldo), pés (peso/pesce; nel veneziano péso e pésse) (ZAMBONI, 1979: 37). Morfologicamente si osserva l’esito in –éa, -ée per l’indicativo imperfetto: parléa, batée. Il trevigiano ha le stesse forme che il veneziano per le forme di avere e essere (zé, go), mentre il feltrino-bellunese presenta le forme è e ò. Si ritengono alcune parole tipiche: giàsena (mirtillo nero), solva (talpa), féda (pecora), ecc. (ZAMBONI, 1979: 38-39).

2.3 Il repertorio linguistico nel Veneto

 

Si tratta di indagare come caratterrizzare il repertorio linguistico nel Veneto, qual è il rapporto fra dialetto e lingua standard. Come si è già indicato nella parte 1.5, quasi nessuno parla la lingua standard come madrelingua. All’Università i professori parlano lo standard durante le lezioni, ma fuori classe usano un’altra varietà. Tra colleghi si usa anche il dialetto a condizione di appartenere alla stessa area dialettale ovviamente. Però si deve fare un’osservazione: il dialetto che usano tra di loro non è lo stesso dialetto che userebbero due tassisti. L’aspetto sociale del dialetto è molto importante e determina la sua forma.

 

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Dall’inchiesta DOXA9 risulta che l’uso del dialetto a casa diminuisce: nel 1974 il 75% degli intervistati dicevano di parlare in dialetto con almeno qualcuno dei familiari, ma nel 1991 si vede soltanto il 66,6%. In più, nel 1974 il 22,7% affermava di parlare sempre italiano fuori casa, questo tasso sale al 29,9% nel 1991. Queste percentuali fanno capire come il dialetto in famiglia viene meno usato e come l’italiano diventa sempre più frequente come unica varietà fuori di casa. Il Veneto rimane un caso particolare: nel 1991 la media nazionale di Italiani che parlano solo dialetto era dell’11,3%, e per quelli che parlano solo italiano del 30,2% (si tratta di situazioni fuori casa e in casa, per questa indagine non vengono separate le situazioni). Ovviamente ci sono i massimi ed i minimi, per il tasso della dialettofonia, il massimo è del 28,9% nel territorio delle Tre Venezie. La dialettofonia rimane forte ed importante in questa regione del penisola.

Durante il Rinascimento il Veneto ebbe una situazione di plurilinguismo e venne marcato dall’esistenza di filoni letterari in dialetto. Nel Settecento, l’epoca della Repubblica di Venezia, gli abitanti del Veneto furono anche trilingui (ovviamente non tutti), ma accanto al veneziano e all’italiano si introduceva anche il francese per il suo prestigio. Lo scrittore Goldoni fu tra questi che parlarono tre varietà di lingua: l’italiano, il veneziano ed il francese. Però l’uso di esse fu diverso. Il veneziano veniva usato accanto all’italiano o al posto di esso, nei Tribunali e nel Senato. Ma il suo uso fu molto legato all’oralità: nella scrittura non letteraria, lo spazio del veneziano venne ridotto anche fino alla sua scomparsa. Ci fu una situazione di diglossia nel territorio di Venezia. L’italiano venne usato nella scuola ed all’Università, fu la lingua conosciuta da tutti (anche da parte dei non-veneziani). Non si usò mai questa varietà nei discorsi orali in pubblico. La terza lingua, il francese, fu importante per fare buona figura sul piano sociale e fu dunque la lingua delle classi nobili e borghesi (ed in particolare delle donne). Goldoni parlò tutte e tre le lingue, ma non sullo stesso piano: per rivolgersi ad un pubblico non esclusivamente veneziano ebbe bisogno dell’italiano. Adesso, il dialetto viene usato in relazione alla situazione (Cortelazzo & Paccagnella, 1994): perde sempre più prestigio al di fuori della sfera familiare. In famiglia si usa sempre il dialetto (in quanto i membri della famiglia non sono di un’area dialettale diversa). In Sardegna, al contrario, il sardo è buono per ogni impiego (il sardo viene considerato una lingua e non un dialetto). Per Canepari (1984), nel Veneto i dialetti sono ancora molto vivi e non si limitano all’uso familiare. E’ importante anche nella vita quotidiana a tutti i livelli, ad esempio negli

9 Tutti i dati sono tratti dal bollettino della DOXA, XLVI, n° 9-10, 3 luglio 1992, 77-92 (BERRUTO, 1994).

 

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uffici statali e comunali, dai professionisti e medici (che parlano spesso in dialetto con i loro pazienti, perché usare la lingua standard viene anche considerato scortese) e nelle scuole.

2.4 Riflessioni finali

 

La regione veneta presenta una dialettofonia molto viva e molto importante rispetto ad altre regioni della penisola italiana, anche se l’italiano guadagna sempre più terreno e diventa sempre più importante (come dimostrano le inchieste DOXA). All’interno del Veneto esiste una diversità tra i grandi gruppi dialettali: il veronese non è lo stesso dialetto del veneziano o del pavano rustico ecc. Il prestigio di una varietà di lingua è molto importante per i parlanti: si osservano maggiori influssi del veneziano, a causa del suo prestigio.

Oggi il dialetto non è limitato alla sfera orale: la letteratura dialettale nel Veneto è molto importante per illustrare l’identità di un autore. Nel capitolo seguente si parlerà della letteratura dialettale, alla quale appartengono i tre autori che veranno esaminati nella parte pratica di questa tesi di laurea.

 

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3 Il dialetto e la letteratura

 

Il modo in cui il dialetto viene usato nella letteratura è molto diverso da uno scrittore ad un altro, ed anche da un secolo ad un altro. E’ più usuale la poesia ed il teatro in dialetto che non la prosa o la narrativa. Per la narrativa si tratta di un genere abbastanza recente, perciò è più difficile avere sottomano un’intera cronologia per spiegare la storia e l’evoluzione del dialetto nella prosa. La letteratura dialettale del Veneto ha un successo enorme e secondo Haller (2002) la regione conosce una letteratura in dialetto tra le più ricche di tutta l’Italia. Aldo Manuzio, editore veneziano del ‘500, fu di grande importanza per la stampa e per Venezia come capitale culturale dell’Italia. Durante la Repubblica di Venezia, il dialetto veneto ebbe un prestigio enorme, fu considerato la lingua ufficiale della Repubblica di Venezia.

Hermann Haller, nel suo libro “The Other Italy. The Literary Canon in Dialect” (1999), parla della poesia veneta e del teatro veneto, ma non della prosa. Dà una panoramica che va dal ‘500 fino ad adesso passando in rassegna gli autori più importanti dei vari secoli. Per il periodo dal 1945 in poi verrà fatto riferimento a Arslan & Volpi (1989) e a Coletti (1988).

3.1 La poesia veneta

 

La poesia dialettale veneta iniziò nel ‘500, secolo della Questione della Lingua e del processo di standardizzazione. Nella poesia si rifletté sempre il dialetto della regione o del piccolo paese. Gran parte di questa poesia del ‘500 ed anche del ‘600 ebbe una funzione comica o satirica. Le poesie parlarono di una classe sociale privilegiata e delle sue preferenze sessuali. Però non mancarono eccezioni come il poeta, musicista e umanista Leonardo Giustinian che provò a eliminare ogni tratto dialettale delle sue opere (ad esempio le “Canzoni” nelle quali scrisse dell’amore e della seduzione [HALLER, 1999: 130]). Poeti dialettali più tradizionali sono tra altri Il Cavassico, che scrisse sonetti in dialetto bellunese nel “Villanesco contrasto intra Barthol, Tuoni, Menech e Salvador” e Nicolò Zotti, che pubblicò nel 1683 “Il bosco del Montello in oda rusticale espresso” (STUSSI, 1993a). Spesso vennero usate lingue diverse, la poesia fu quindi plurilingue (si tratta di un plurilinguismo orizzontale).

 

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Come esempio Haller propone Giorgio Sommariva, veronese, che utilizzò il latino, il veronese ed il bergamasco nei suoi sonetti rustici.

La cultura veneta di prestigio del Rinascimento fu seguita da un secolo povero per la letteratura dialettale. Degli editori veneti tanti numerosi nel secolo precedente sparve una gran parte a causa della censura dopo il Concilio di Trento. L’introduzione del toscano come lingua letteraria (da parte di Pietro Bembo) ebbe conseguenze linguistiche per la letteratura: il dialetto venne considerato meno importante. Ma altri autori continuarono a scrivere in dialetto per opporsi al toscano, tra cui l’antipetrarchista Giambattista Maganza (poeta e pittore) che scrisse in un padovano rustico anche nei suoi testi di tipo gastronomico come “I gniuochi”.

Durante il ‘600 Busenello (avvocato) scrisse poesie sulla vita veneziana, come “El carnevale”. L’uso del toscano e del dialetto veneziano fu normale, la letteratura bilingue non fu un’eccezione.

Nel ‘700 apparve un contrasto tra il piano politico e quello linguistico-culturale della Repubblica di Venezia: essa perse di prestigio sul piano politico, ma la vita intellettuale e culturale fiorì. Anche se alla fine del ‘700, la lingua d’uso dell’amministrazione fu sempre il veneziano (STUSSI, 1993b). Apparvero produzioni teatrali e giornalistiche. Questo secolo sentì molto forte l’influsso della cultura francese che fu alla base del trilinguismo letterario (dialetto veneto, francese e toscano). L’uomo più importante per la letteratura dialettale fu Goldoni che scrisse commedie e poesie dialettali. Giorgio Baffo produsse sonetti nei quali si beffò di Petrarca (“lu ha dito Laura, e mi g’ho dito Mona” [HALLER, 1999: 131]) e della corte (“e pò ‘l g’ha in Corte tanta gran canàgia,/ che crede nòme in te la magnóra,/ e lassa che i cogioni se travàgia” [ibid.]). La sua poesia circolò soprattutto in manoscritti, ma fu letta da tantissima gente.

Dopo la caduta della Repubblica di Venezia (1797), il veneto perse il suo ruolo di koinè e divenne un dialetto locale. Milano fu il nuovo centro culturale di riferimento.

Nel 1817 Bartolomeo Gamba pubblicò (a Venezia) la “Collezione delle migliori poesie scritte in dialetto veneziano”, un’opera che riflette l’importanza della poesia dialettale. Dallo stesso editore apparve quindici anni più tardi la “Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano”.

Il ventesimo secolo affiora di poeti veneti di grande importanza tra cui la maggior parte è proveniente da province fuori di quella di Venezia. Perciò i loro dialetti mostrano tratti locali diversi. Si ritiene tra altri Egidio Meneghetti, di provenienza veronese, la cui particolarità risiede nel fatto che si è espresso politicamente nella sua poesia. Si espresse per esempio sul dialetto: “Su la to boca, mama, /ò scoperto el miracolo/ de le parole che se

 

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cambia in fiór.//Parole profumade dal dialeto/ e du ocioni incanta’ de buteleto.” (HALLER, 1999: 133). Uno dei poeti contemporanei più importanti è Andrea Zanzotto che introduce il dialetto arcaico di Pieve di Soligo (a nord di Treviso) nelle sue poesie (“Filò”, “Idioma”) e che scrive anche poesie bilingui nelle quali usa il dialetto per l’effetto simbolico e la brevità del dialetto (“ IX Ecloghe”, “Beltà”).

Adesso la situazione linguistica nel Veneto è cambiata considerevolmente. Non si può dimenticare Luigi Meneghello nel quale si vede l’evoluzione sociolinguistica del dialetto10: il dialetto è riservato agli anziani, l’italiano popolare o regionale agli adolescenti e l’italiano standard alla cultura contemporanea.

3.2 Il teatro veneto

 

Nel ‘500, intorno agli anni 1520, il Ruzante (Angelo Beolco) iniziò a scrivere commedie nel dialetto pavano (il dialetto rustico/campagnolo di Padova) per la corte di Alvise Cornaro. Scrisse tra altri “La Betía”, “La Moscheta” e “Bilora”, tre capolavori, ma anche il “Parlamento di Ruzante”. Il teatro di Ruzante fu tutto bilingue, affiorarono registri diversi di lingua. Contrariamente a Ruzante, Andrea Calmo scrisse commedie linguisticamente realistiche (“Il Saltuzza”, “Las Spagnolas”). Introdusse il plurilinguismo per rendere reale la lingua dei personaggi (ad esempio dei servitori) usando il veneziano, il pavano, il bergamasco, il tedesco, il turco, ibridi detti grechesco e schiavonesco (come parlarono gli immigrati greci e slavi) (HALLER, 1999: 135).

Il personaggio di ‘Pantalone’ della commedia dell’arte divenne famoso nel ‘600, grazie ad autori come Domenico Balbi (“Il Lippa overo el Pantalon burlao”, 1673), Giovanni Bonicelli (“Pantalone bullo”, 1688, e “El Pantalon spezier”, 1693) e Tomaso Mondini (“Pantalone mercante fallito”, 1693).

Durante la Repubblica (‘700) Carlo Goldoni fu lo scrittore teatrale da non perdere di vista. Fu anche un intellettuale dal punto di vista linguistico: mischiò il veneziano popolare e educato con il dialetto di Chioggia. Venezia divenne il centro culturale della commedia musicale per la quale Goldoni scrisse una quindicina di intermezzi e più di cinquanta libretti di drammi giocosi, sempre in collaborazione con il compositore Vincenzo Ciampi.

10 Per esempio nella novella “Libera nos a Malo” (1963), nella quale Meneghello parla del piccolo paese di Malo.

 

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Il secolo dopo, Giacinto Gallina fu il più importante dopo Goldoni. Scrisse tra altri “Le barufe in famegia” (1871), “El moroso de la nona” (1875) e “I oci del cuor” (1879). Ma prima di Gallina, Domenico Pittarini pubblicò nel 1870 “La politica dei villani”, una “commedia in versi rustici vicentini” (STUSSI, 1993a: 83).

Il ‘900 riprende il teatro veneziano: numerose truppe fondate da Emilio Zago e Luigi Sugana rappresentano Goldoni e Gallina (e altri). Tuttavia, l’italianizzazione continua in questo secolo, ed i grandi attori dialettali spariscono, come anche il teatro veneziano. Anche se rimangono alcune produzioni come quelle di Domenico Varagnolo e Ferdinando Palmieri.

3.3 La letteratura dialettale dal 1945 fino ad oggi

 

Il linguaggio della letteratura dialettale di questo periodo può essere descritto come “un italiano medio e discorsivo, con ampie inserzioni di singoli elementi dialettali, oppure direttamente il dialetto” (ARSLAN & VOLPI, 1989: 45). Se l’opera viene scritta in dialetto, appaiono sempre elementi della lingua italiana standard, non si tratta del dialetto puro. I testi non vengono sempre subito scritti in dialetto, la varietà veneta ha soprattutto la funzione di arricchire l’italiano standard. A volte uno scrittore usa parole dialettali per coprire i vuoti della lingua italiana11. Il dialetto diventa la varietà da ricreare nella letteratura, perché viene considerata una varietà molto viva. Il popolo non usa la lingua come appare nella narrativa o nella poesia come lingua di comunicazione naturale. La lingua è anche fondamentale per far vivere la storia dentro il lettore. Parlando della cultura contadina, o di un certo gruppo della società, gli scrittori vogliono anche far vedere come parlano le persone che appartengono alla storia. Un personaggio che appartiene ad una classe sociale bassa non parla mai l’italiano standard, non c’era dunque ragione perché inserirlo come lingua di questo personaggio. Gli scrittori non accettano più il fatto di dover scrivere in una lingua che non si usa quasi mai – quindi adoperano un codice ‘diverso’ – spesso non si tratta del dialetto stretto, ma di una mescolanza del dialetto, di un italiano regionale e dell’italiano standard.

Ci sono anche avversari di tratti dialettali nella letteratura. Comisso per esempio ne è uno, ma quando parla non usa l’italiano standard, bensì un dialetto borghese trevigiano (ARSLAN & VOLPI, 1989: 52). Nelle opere di Parise appaiono costruzioni che appartengono

11 Dino Coltro inserisce elementi dialettali nei suoi libri. Ne “La nostra polenta quotidiana”, usa la parola dialettale graspia, per la quale non c’è una traduzione in italiano. Parlando della cultura contadina, ha bisogno di questo lemma.

 

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alla sfera dialettale, ma non gli importa tanto: “non ci tengo molto. Non saprei scrivere in dialetto né una riga né una poesia” (ARSLAN & VOLPI, 1989: 52). Afferma che il dialetto appartiene alla lingua parlata e non alla scrittura, perciò tante persone non sanno scrivere in dialetto. È poco chiaro come bisogna scrivere i suoni che non esistono nella lingua standard, come la /l/ evanescente del veneto ad esempio. I linguisti cercano di tenersi a regole più o meno chiare, ma la gente non impara a scrivere in dialetto, si studia soltanto l’ortografia italiana.

In molti casi, la lingua usata non è né dialetto né italiano standard. Il dialetto a volte pare essere troppo esplicito per gli scrittori, perciò scelgono di non scrivere tutto in dialetto. Ferdinando Camon (di origine padovana) ha incluso nel “Ciclo degli ultimi” (romanzi) un monologo in cui appaiono elementi dialettali: mette le parole in bocca ad un contadino che non appartiene alla città, ma che ne parla. L’uso del dialetto è paragonabile a quello che affiora in Meneghello e in Pozza.

Il giornalista e scrittore friulano Gino Pugnetti situa la sua storia nella città di Padova e nella provincia, verso la seconda Guerra Mondiale. I tratti gergali e dialettali hanno la funzione di completare la storia. Portano verso una comprensione migliore della storia e dei personaggi.

Nel Veneto la lingua ha un ruolo importante nella letteratura, ma rimane quasi sempre legata alla situazione, all’ambiente della storia raccontata (ARSLAN & VOLPI, 1989: 56):

“tutto questo in un linguaggio agile, veloce, intessuto di suggestioni cinematografiche, che propone una Venezia nuova e antica [...]. Echi del passato e consonanze del presente, avventurieri e aristocratici, popolani e piccolo-borghesi si muovono sul grande palcoscenico veneziano a disegnare parabole di destini umani [...].”

Tra questi scrittori si ritengono Alberto Ongaro (“La taverna del doge Loredan”, “La partita”), Carlo della Corte (“Il grande balipedio”, “Grida dal palazzo d’inverno”) e Pier Maria Pasinetti (“Rosso veneziano”, “Il ponte dell’Accademia”).12

12 Bisogna tener in mente che uno scrittore veneto non scrive necessariamente in dialetto veneto od in un’altra variante dialettale. Ci sono autori come Carlotto (padovano) che scrivono in italiano standard.

 

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3.4 La grafia dialettale

 

Dopo la sua codificazione l’italiano è stato la lingua nazionale della penisola, ma quasi esclusivamente al livello scritto. Era la lingua letteraria, con una grafia anch’essa codificata. I dialetti appartenevano alla sfera orale e rimangono tali ancora oggi. Non c’è mai stata una codificazione del dialetto e scrivere in dialetto risulta a volte molto difficile, perché i dialettofoni non sanno come rendere i suoni dialettali che non appartengono alla lingua standard (si pensa tra altri alla /l/ evanescente).

Per una letteratura in dialetto è importante rispettare le caratteristiche della varietà, ma se un autore ha dei dubbi, farebbe meglio scrivere a modo suo (ma si deve provare a evitare che ognuno scriva a modo suo). Per poter scrivere in dialetto, bisogna avere una conoscenza approfondita della pronuncia e della grammatica.

Canepari (1984: 153) afferma che “Il risultato è che troppo spesso la stessa parola è scritta anche dalla stessa persona, e magari nella stessa pagina, in due o tre modi diversi”. Si vedrà nella parte su Marco Franzoso che questa variazione all’interno di una parola può anche essere una variazione volontaria, e non soltanto a causa del problema della grafia.

Nella stessa opera, Canepari propone un metodo di trascrizione dialettale, per cui è importante non allontanarsi troppo dalla grafia italiana. In tale modo, anche lettori non-veneti riescono a leggere un testo scritto dialettale, anche se non l’hanno mai sentito parlare.

Per le vocali in sillaba tonica, la scrittura risulta abbastanza facile: ì, é, è, à, ò, ó, ù per i suoni /i/, /e/, /ε/, /a/, //, /o/, /u/. Come esempi si ritengono peso (peso) – pèso (peggio) e so (suo) – sò (io sono/so) (CANEPARI, 1984: 154). L’accento acuto non è necessario in questi casi.

La grafia dei suoni /p/, /b/, /t/, /d/, /k/, /g/, /t/, /d/, /f/, /v/, /r/, /m/, /n/ e // non pone problemi: p, b, t, d, c(h), g(h), c(i/e), g(i/e), f, v, r, m, n e gn. Alcuni esempi: fighi (fichi), cesa (chiesa), cogo (cuoco) e magnar (mangiare) (CANEPARI, 1984: 154). Ovviamente, le parole come campo e gamba si scrivono secondo la pronuncia veneta, con la /n/: canpo, ganba.

La /l/ è un caso particolare, perché si realizza in modi diversi, a seconda delle varie zone e dei vari contesti fonici: oppure come una vera laterale (in parole come alto o canal), scritta come nella lingua standard; oppure non si sente quando si trova vicino alle vocali palatali /i/ e /ε/ (ad esempio in cae o bèo – calle e bello) e non viene scritta; oltre questi casi,

 

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esiste la realizzazione intermedia, chiamata /l/ evanescente che viene scritta preferibilmente con l’apostrofo ‘(l) (góndo’a – gondola, ‘a sa’a – la sala, cava’o – cavallo)13.

I nessi /lj/ e /nj/ seguiti da vocale, come in Italia e Antonio, si scrivono Itaglia e Antògnio, perché si realizzano in questo modo (CANEPARI, 1984: 155).

13 Tutti gli esempi sono tratti da CANEPARI, 1984 : 153 – 155.

 

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III Parte seconda: analisi (socio)linguistiche

 

Dopo la parte prima nella quale si è messa in rilievo la storia e la situazione linguistica della penisola italiana, si tratta qui di analizzare tre romanzi di scrittori contemporanei del Veneto. La prima parte spiega la terminologia che verrà usata nelle analisi ed è anche importante per il confronto tra la situazione linguistica della parte teorica e quella descritta nei tre romanzi scelti.

Si inizierà le analisi con il libro “Il bosco veneziano” di Gian Domenico Mazzocato del quale si discuteranno la forma della lingua standard, la forma del dialetto ed il portoghese. Si tratta anche di vedere in quale modo Gian Domenico Mazzocato fa uso del codice dialetto.

In secondo luogo si parlerà di Dino Coltro e due capitoli del romanzo “I léori del socialismo”. Prima di tutto si discuterà la forma e l’uso della varietà usata nel capitolo “Le scarpe rosse” per poi confrontarlo con il capitolo precedente “Tra una guerra e l’altra”. Si tratta di vedere se la forma e l’uso del codice dialetto si realizza nello stesso modo nei due capitoli scelti.

Per concludere questa parte delle analisi, si studierà la varietà di lingua in “Edisol M.-Water Solubile” di Marco Franzoso. Si discuteranno prima delle caratteristiche comuni a tutti i personaggi per poi poter indagare se ci sono delle differenze a seconda della situazione o del personaggio. Nella parte conclusiva si esaminerà se l’uso della varietà dello scrittore padovano corrisponde all’uso descritto nella parte teorica.

1 Gian Domenico Mazzocato14: “Il bosco veneziano”

 

Ne “Il bosco veneziano”, Gian Domenico Mazzocato alterna lingua standard e dialetto usando il corpo normale per le parti in lingua standard ed il corsivo per le frasi in dialetto. In tale modo lo scrittore trevigiano segnala la differenza tra i due codici usati. La lingua standard viene sempre usata per la narrazione mentre il dialetto appartiene ai dialoghi. In questa analisi si tratta di indagare qual’è la varietà di lingua usata da Mazzocato e come ne fa uso. Prima di tutto si esaminerà come si presenta la lingua standard e se eventualmente ci sono elementi

14 Per una presentazione dell’autore si rinvia all’introduzione dove si è messa in rilievo la biografia dell’autore.

 

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non-standard che subentrano nel codice lingua. In secondo luogo verrà trattato il codice dialetto e finalmente si vedrà se ci sono altri codici usati nel testo dello scrittore trevigiano.

Bisogna anche vedere quali sono i rapporti tra i vari codici usati, se appartengono a sfere diverse, se ci sono interferenze, ma anche se ci sono delle differenze tra i personaggi e la narrazione o tra i personaggi stessi. Questa analisi dovrà portare ad un confronto tra i tre autori scelti, Gian Domenico Mazzocato, Dino Coltro e Marco Franzoso, che verrà presentato nella conclusione.

1.1 La lingua standard ne “Il bosco veneziano”

 

Prima di tutto l’ambito della storia ne “Il bosco veneziano” di Gian Domenico Mazzocato va dal 1471 fino agli ultimi anni del 1800, per cui tecnicamente si potrebbe parlare di un romanzo ‘storico’. Questo fatto potrebbe avere ripercussioni sulla forma della varietà di lingua se lo scrittore trevigiano decidesse di riprodurre la lingua dell’epoca. In genere, il libro è scritto in italiano standard, ma qua e là appaiono anche frasi o pezzi di frasi in dialetto. Questi pezzi in dialetto sono segnati tramite l’uso del corsivo nell’impaginazione. Si tratta di vedere come si presenta la lingua italiana standard nella narrazione. La lingua standard non riprende modelli linguistici dell’epoca, ma si presenta come lo standard linguistico attuale con le sue norme e caratteristiche usuali sul piano ortografico, morfosintattico e lessicale (sebbene vi siano eccezioni, come si vedrà infra).

1.2 Il dialetto veneto ne “Il bosco veneziano”

 

In genere, si può dire che le parole o le frasi in dialetto sono messe in corsivo, il dialetto si oppone quindi chiaramente allo scritto standard anche da un punto di vista grafico. Mazzocato usa inoltre la trascrizione del dialetto veneto come proposta da Canepari (1984) (si vede I, 3.4): dal punto di vista ‘grafico’ il dialetto viene quindi presentato in modo che sono radicalmente diversi dai modi usati per lo standard. La forma della terza persona singolare del verbo essere, ad esempio, presenta una caratteristica della trascrizione dialettale: xé.

 

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(6) L’aqua xé là. ‘A xé aqua bona. […] (p. 15)15

 

A prima vista, ogni parola dialettale è messa in corsivo, affinché il lettore riconosca subito l’elemento non-italiano (sia nella narrazione sia nei dialoghi). Anche il dialetto si manifesta nella sua forma contemporanea, ed è soprattutto presente nelle forme dialogiche. Per Mazzocato il dialetto è importante perché attraverso il dialetto riesce a dare forza e rigore al suo dire: quando scrive, pensa in italiano, ma certe cose si possono dire soltanto in dialetto secondo lo scrittore (certe emozioni si esprimono soltanto in dialetto per esempio). L’autore si serve quindi del dialetto come se fosse una marca d’autenticità – sia sul piano diastratico (la classe sociale descritta avrà anch’esssa sicuramente usato il dialetto) che su quello diafasico (situazioni in cui è frequentissimo l’uso del dialetto).

Accanto alle frasi e parole in corsivo, si osservano tuttavia anche altre voci appartenenti al dialetto veneto, che non sono state segnate in modo particolare nel testo: pisnente (8), “parola veneta che significa nullatenenti, gli ultimi dei contadini, i più miserabili e disperati”16; zattiere, che in italiano avrebbe l’equivalente zatteriere (Zingarelli); ma anche parole come anguana (“figura mitologica di donna serpente”, Coltro 2000), vino ruspio (vino battosto, Coltro 2000) (7), bagolo (“mirtillo”, Zingarelli), massarioti (massariotti, tratto settentrionale dello scempiamento consonantico) (8) e barcaro (barcarol(o)) non appartengono alla lingua italiana standard. Questi termini appaiono nella narrazione e non vengono messi in corsivo, perché si tratta di “parole che pur appartenendo al lessico dialettale vengono, nelle mie intenzioni, restituite al tessuto del lessico nazionale”17, come spiega lo scrittore. Queste parole dovrebbero dunque essere trasparenti per un lettore italofono e non pongono un ostacolo di lettura, sempre a dire dell’autore. La promozione di questi termini pone comunque qualche problema. Un rapido controllo fra amici veneti (si rinvia all’appendice per l’analisi dei dati) ha messo in luce che i termini citati non sempre vengono riconosciuti dai veneti, e che anche la loro spiegazione risulta spesso disagevole. In questi casi si osserva un’interferenza lessicale tra il codice lingua e il codice dialetto, voluta dallo scrittore18.

15 Neretto mio per mostrare la grafia dialettale, il corsivo è dello scrittore stesso.

16 Si è presa questa definizione nella tesi di laurea di Sara Stocco che si trova sul sito internet di Mazzocato (www.giandomenicomazzocato.it).

17 Si è tratta questa citazione da una mail dello scrittore stesso nella quali ha risposto ad alcune domande.

18 Per una definizione del fenomeno dell’interferenza si rinvia a I, 1.4.

 

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(7) Si era mosso da Giavera un paio d’ore dopo aver cenato, inquieto, perché nemmeno due bicchieri di vino ruspio gli avevano conciliato il sonno. (p. 10)

(8) Quando gli impiegati dell’Ispettoria ricevevano l’Imperial Regia Gazzetta Privilegiata che recava l’aquila bicipite sopra l’intestazione, guardavano con sempre minor attenzione se c’era qualcosa nuova imposta da far pagare ai pisnenti o ai massarioti montelliani. (p. 18)19

 

Oltre queste parole presenti nella narrazione, il dialetto (formalmente indicato come tale) appare soltanto nei dialoghi tra i personaggi, che del resto sono tutti veneti. Alcuni personaggi (Beniamino Barro e suo figlio Teofilo) fanno un viaggio in Brasile, ma tra di loro o con altri Veneti, parlano dialetto. Si tratta sempre di un discorso diretto, non messo tra virgolette, ma messo in corsivo per distinguerla con la voce del narratore. L’unica volta in cui appaiono le virgolette è la dichiarazione di Ireno Barro. Si tratta di una situazione amministrativa-burocratica nella quale è normale che il dialetto sparisca. In questo caso si tratta anche di una variazione diamesica perché la dichiarazione prima è stata scritta per poi essere letta.

(9) E infatti, quando gli rilessero la sua deposizione mentre già si allungavano le prime ombre della sera, sentì dire molto brevemente così: “Io mi chiamo e sono Ireno Barro detto Arcade, di Angelo, di anni cinquantuno, cattolico, villico, coniugato con quattro figli, nato e domiciliato in Giavera. Ho asportato dal bosco del Montello numero due roveri e circa sacchi venti di legname minuto per farne fuoco. Dichiaro che tutto il legname sopraelencato e in seguito confiscatomi era ad uso mio personale e della mia famiglia”. (p. 31)

 

I vari discorsi in dialetto appaiono in situazioni diverse: in famiglia, in un’osteria, nei pensieri, tra amici, con il prete. L’uso del codice dialetto in questi ambiti è quindi piuttosto classico e corrisponde a quello che le varie inchieste DOXA hanno indicato come ‘uso del dialetto in situazioni informali’.

19 Neretti miei per indicare le parole dialettali.

 

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Il libro parla di tre generazioni della famiglia Barro: Ireno e Gemma Barro sono sposati e hanno quattro figli, Beniamino Barro e tre altri maschi dei quali non si parla nel libro. Beniamino Barro, anche detto Bino o Burrasca, si sposa a sua volta con Clotilde Agnoletti e hanno un figlio chiamato Teofilo Barro oppure Toni. Il cugino di Clotilde è un prete, detto don Carlo Agnoletti. I discorsi in famiglia sono sempre in dialetto:

(10) Mentre attraccavano al molo, molto più piccolo di quello di Nervesa, sulla sponda opposta della Piave, tra le Mure della Mina e i Muri di Mandre, Clotilde dovette dare a Toni una delusione amara. Varda che noialtri, proprio in brasso ai Colalto, ‘ndemo star. Bino mise un paio di monete in mano al barcaro20. (p. 68)

(11) El Montel no ghe darà mai da magnar ai Monteliani. Bisogna ‘ndar via disse quella sera, a cena, il prete. (p. 72)

(12) Poi, però, si rivolse [Toni] a suo padre [Bino] e trovò la forza du scherzare, ‘Desso vedemo cossa che te si bon de far e se te te meriti che i te gabia ciamà Burasca. (p. 117)21

 

Nelle situazioni fuori dalla famiglia come nell’osteria, Bino incontra Lorenzon che gli chiede di andare in America. In un’osteria, i discorsi sono di tipo informale e risultano dialettali. L’unica conversazione nell’osteria è quella tra Bino e Lorenzon, non appaiono altri personaggi che parlano in dialetto con loro. Una sera, Bino incontra Lorenzon, con cui non intrattiene rapporti specifici (ma si conoscono). Non sono molto amici, e il pensiero di Beniamino lo dimostra:

(13) Eora, Burasca, ‘ndemo o no in Merica? Lorenzon lo aveva apostrofato così, a mezza voce, sedendosi una sera al suo tavolo, nel porticato delle Due Lance. Era febbraio ma la serata si preannunciava mite, quasi da primavera entrante. L’uomo gli allungò un bicchiere di vino nero. Va in mona de to mare, rufian, pensò Beniamino, ma non disse niente. Dopo qualche istante di silenzio, incrociando le braccia e abbassando la faccia

 

20 Anche barcaro è un lemma veneto (per barcarol(o)), ma non viene segnato da Mazzocato come dialettale o regionale. A causa della morfologia italianizzante, lo scrittore stesso non si accorge di questa parola non-standard che appare nel suo discorso.

21 Corsivo suo.

 

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verso il tavolo, ebbe la forza di dire Serte volte gavarìa proprio voia de darghe un tajo a tuto.

 

[...]

Il buio era calato di colpo e Bino si sentiva solo, impotente a decidere la sua vita. Guardò negli occhi Lorenzon. Go bisogno de pensarghe sora, disse. (p. 36-37)22

I personaggi ne “Il bosco veneziano” pensano in dialetto, come si vede anche nell’esempio (13), quando Bino sta pensando una frase che non pronuncia. In questo caso si tratta dunque di un monologo interiore per cui sarebbe molto strano trovare discorsi in lingua standard. All’inizio della storia, che sull’asse temporale comincia con la fine, Toni sta pensando come dire al suo cliente che non è possibile avere acqua ovunque vuole: L’aqua xé là. ‘A xé aqua bona. Se ve va ben cussì, va ben. Se no, basta che me paghei, va ben istesso (p. 15). Questi discorsi diretti dei pensieri sono messi in dialetto e non in lingua standard, perché i parlanti userebbero il linguaggio dialettale e non la varietà normata.

Un’altra situazione è quella tra amici: in questa sfera confidenziale, si usa il dialetto e non l’italiano standard. In questo libro, quando Toni parla con il bellunese Sereno Rudatis, lo fa in dialetto (14), ma anche Bino usa questa varietà parlando con il suo amico Bepi Bosello (15). Bisogna fare l’osservazione che si tratta sempre dei discorsi diretti, dal momento in cui il narratore parafrasa i dialoghi, lo fa in lingua standard (16).

(14) Xé mejo che te me ciami Luna, aveva detto a Toni con un sorriso.

 

[...]

Il giorno del passaggio dello stretto di Gibilterra e dunque dell’ingresso nell’oceano vero, Sereno Rudatis era seduto accanto a Toni. Vustu saver parcossa che i me ciama Luna? gli aveva detto il bellunese e Toni aveva capito che il suo amico aveva voglia di lasciarsi andare a qualche confidenza. (p. 84-85)

(15) Xé vero che te ghe dà schei ae guardie? aveva chiesto il Bosello con un lampo da fondo degli occhi cisposi, quasi a voler essere rassicurato. Ma a ‘sti fioi de troia, a ‘sti magnamerda no ghe daria gnanca ‘a corda par picarse. Bino aveva alzato la testa e risposto con rabbia ma aveva finito con

 

22 Corsivo suo; neretti miei.

 

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un sussurro intuendo, nella penombra della cucina, il trasalimento di Clotilde. (p. 53)

(16) Dime cossa che ghe xé de vero, gli intimò agitando i pugni e con gli occhi spiritati. Aveva un po’ bevuto. Guerra aveva protestato che non c’era pericolo. (p. 45)23

 

Nella situazione del prete Agnoletti (11), si vede ancora un secondo elemento importante dal punto di vista sociolinguistico: il prete appartiene anche alla famiglia dei Barro, perché la sua cugina Clotilde ha sposato Teofilo Barro. Il secondo prete che appare nella storia si chiama don Angelo, è un amico di don Carlo (il prete Agnoletti) e parla anche in dialetto.

(17) I me ga giurà che qua no ghe xé aqua gnanca par rasentarse i pié, aveva detto il prete che si chiamava don Angelo, era mite proprio come il suo nome suggeriva ed era stato compagno di università di don Carlo. (p. 156)

 

In questa storia, si tratta di personaggi che sono pisnenti, per utilizzare il lessico di Mazzocato. Durante i secoli dei quali parla il libro, queste persone più miserabili della società non avevano accesso all’istruzione, la maggior parte di loro non sapeva scrivere né leggere. Come si è menzionato nel primo capitolo della prima parte, la lingua standard non veniva ancora usata come varietà parlata in questi secoli. C’erano soltanto i dialetti, soprattutto per l’uso orale, o le koinè regionali. Beniamino appartiene alla seconda generazione nel libro (siamo nel 1883), per la quale la lingua italiana non è tuttora presente nella vita quotidiana: parla anche in dialetto con l’impiegato che controlla i passaporti, el ghe zonta “vignaiolo”, che son bon e bravo a far vin (p. 83).

Dal punto di vista storico e sociolinguistico, l’apparizione del dialetto fra questi personaggi, e nelle loro situazioni specifiche non stupisce: Mazzocato presenta il dialetto nella sua veste più tradizionale, cioè in situazioni informali fra persone poco colte.

Si deve fare un’ultima osservazione per quel che riguarda i discorsi diretti, che sono quasi sempre in dialetto. Nel libro appare anche un discorso diretto in lingua italiana, quando

23 Corsivo suo; neretto mio.

 

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un bugreiro dice qualcosa a Toni. Ovviamente, questo bugreiro non parla il dialetto veneto, dunque non l’usa nemmeno, ma non usa neanche il portoghese. Mazzocato li fa parlare semplicemente in italiano standard, il che sembra molto strano: un parlante portoghese che non vive in Italia, parla la lingua italiana standard con un Veneto migrato in Brasile. Contrariamente al dialetto, la lingua standard non ha quindi la carica emotiva del ‘parlare autentico’. Il dialogo tra il bugreiro e Toni sarebbe piuttosto una trascrizione del vero dialogo tra questi due personaggi, perché è poco probabile che un brasiliano parla la lingua italiana standard. Non si tratta dunque veramente di una conversazione diretta, ma di una parafrasi narratologica delle parole del bugreiro.

(18) Il bugreiro ebbe un ghigno e guardò Toni. “Tu sai, gli chiese, perché vi hanno fatto venire a migliaia dall’Italia, e vi hanno pagato il viaggio e vi hanno portato fino qua, in mezzo al mato?” (p. 133)

1.3 Il portoghese ne “Il bosco veneziano”

 

Una parte della storia si situa in Brasile, quando Beniamino e suo figlio Teofilo hanno lasciato la loro terra natia per cercare la felicità in Merica24. Il linguaggio del narratore riflette il fatto di trovarsi in un paese dove si parla il portoghese: appaiono parole portoghesi, ma sono sempre messe in corsivo.

(19) A notte inoltrata tutti furono fatti entrare nelle posadas.

 

[...]

Proprio nella vallata del fiume tutto il territorio era stato diviso da segni neri tracciati a mano sulla carta, le linhas e le travessôes, come reperiva la loro guida e, insomma, si capiva bene che lì dovevano andare a vivere i coloni, riempiendo linha dopo linha, traversa dopo traversa, all’infinito, passo dopo passo, avanzando sempre verso il corso di grandi fiumi che scendevano a ovest. (p. 111)25

24 La forma Merica mostra l’incertezza della scrittura per cui i parlanti non sanno se si tratta dell’America o della Merica. È un caso di metaplasmo di conglutinazione.

25 Corsivo suo.

 

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In quest’esempio, il narratore non dà una spiegazione dei termini portoghesi, ma dal contesto un lettore riesce a trarre il significato di queste parole. In altri casi il narratore introduce la spiegazione dopo aver usato una parola portoghese:

(20) I rivoltosi erano dei farrapos, cioè degli straccioni, e non erano mai stati sconfitti davvero26. (p. 114)

 

Il portoghese, come il dialetto veneto, è quindi formalmente distinto dall’italiano standard (corsivo). Portoghese e veneto svolgono anche ruoli molto simili: rafforzano ‘l’autenticità’ della situazione. Esiste tuttavia una differenza quantitativa: le interferenze fra portoghese e italiano standard sono limitate a elementi lessicali isolati che si possono considerare esotismi ‘situazionali’. Gli elementi veneti, dall’altro canto, costituiscono intere frasi e dialoghi: non funzionano quindi come esotismi isolati ma piuttosto come vera e propria rappresentazione della situazione dialogica.

26 Corsivo suo; neretto mio.

 

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1.4 Riflessioni finali

 

Nel libro di Gian Domenico Mazzocato, “Il bosco veneziano”, si ritrova l’uso del dialetto in un modo specifico: i discorsi diretti sono scritti in dialetto, ma sono sempre messi in corsivo, il che facilita la lettura e l’identificazione dei due codici maggiori (la lingua standard ed il dialetto). Queste conversazioni in dialetto appaiono in famiglia, tra amici, con il prete, in un’osteria e nei pensieri dei personaggi veneti. Si tratta di un uso prototipico del dialetto, perché sono tutte situazioni confidenziali. Ovviamente, questi dialoghi in dialetto sono soltanto possibili grazie al fatto che tutti i personaggi appartengono alla stessa regione italiana. Come si è visto, il bugreiro non parla dialetto, perché non fa parte della stessa zona geografica: parla portoghese e non il dialetto veneto.

I codici non interagiscono nel testo di Mazzocato: il dialetto veneto viene usato per i dialoghi, si tratta di un uso strumentale per mettere in rilievo l’appartenenza veneta e la naturalezza del dialetto come lingua parlata. L’alternanza fra il codice dialettale e quello standard non è da considerarsi un caso di commutazione di codice: i personaggi parlano solo dialetto, il narratore (quasi) unicamente italiano standard. Come si è visto, l’uso del dialetto in questo testo corrisponde all’uso ‘normale’ e persino ‘classico’ come viene indicato dalla sociolinguistica, cioè nelle situazioni informali (tra amici, in famiglia, ecc.).

Parte della storia si sviluppa in Brasile, dunque appaiono anche parole portoghesi nella varietà del narratore ma anche questi termini vengono messi in corsivo, per facilitare la lettura. Certe volte, il significato di queste parole viene menzionato dopo, altre volte bisogna capire i termini portoghesi dal contesto.

Nella varietà del narratore appaiono anche parole regionali (venete) che non si presentano in carattere normale e non in corsivo perché si tratta, sempre secondo Mazzocato, di termini trasparenti per un lettore italofono. Almeno quanto dice l’autore: alcuni termini sono marcati e anche parlanti veneti non capiscono sempre questi termini. La trasparenza di questi termini è tuttavia dubbia, anche per lettori veneti (cf. appendice 3.2): in questi pochi casi si potrebbe parlare di interferenze linguistiche fra il codice dialettale e quello standard.

Mazzocato usa il dialetto stretto nei dialoghi dei personaggi veneti, mentre usa la lingua standard per la narrazione. Si deve fare l’osservazione che la lingua apparentemente ‘standard’ non è standard al cento per cento, perché si osservano parole regionali o dialettali

 

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(tale pisnente e barcaro) che non appartengono al contesto normativo. Riflettono l’appartenenza geografica dell’autore.

Nel prossimo capitolo si discuterà di Dino Coltro e due capitoli scelti de “I léori del socialismo”. Prima di tutto si studieranno la forma della lingua standard, la forma del dialetto e l’uso del codice dialetto per poi poter confrontare i due scrittori già analizzati, cioè Gian Domenico Mazzocato e Dino Coltro.

 

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2 Dino Coltro27 : “I léori del socialismo”

2.1 Osservazioni preliminari sulla stesura del testo

 

L’edizione de “I léori del socialismo” che verrà utilizzata è quella del 2000, nella quale si osservano alcune differenze con la prima del 1973. Nella prima edizione il terzo capitolo, “Tra una guerra e l’altra” non era ancora presente. È stato introdotto solo nel 2000. L’ultimo capitolo, “La stalla come scuola” (il titolo originale era “Anche la città è una corte”), ha sostituito il capitolo “Quando suona la campanella”.

Nella nota alla terza edizione Dino Coltro afferma che ha riflettuto sull’italianizzazione del libro, per ragioni di chiarezza: “Abbiamo discusso molto sui criteri da adottare in questa terza edizione, se e come mantenere la stessa scrittura, se non fosse meglio ‘italianizzare’ di più il testo, in considerazione della quasi scomparsa del dialetto.” (COLTRO, 2000: Nota28) Coltro comunque non ha ‘italianizzato’ il libro, perché si perderebbero alcuni elementi importanti per lui: “Per lasciare i fatti narrati nella loro immediatezza, ho cercato di conservare non solo l’espressione del parlare contadino, ma anche parole e modi di dire in dialetto, la cui traduzione in lingua avrebbe limitata [SIC] la genuinità del pensiero.” (COLTRO, 2000: Nota). Da queste citazioni si può desumere che l’uso del dialetto in Coltro è legato alla considerazione di ‘rappresentazione autentica’ della parlata (contadina) dell’epoca. Dall’altro lato Coltro dà per scontata la sparizione del dialetto, e questo in una regione dove gli studi mostrano in genere una dialettofonia ancora molto forte. Nella mente dello scrittore, il problema dell’italianizzazione nasce quindi dal contrasto fra l’autenticità dei fatti (narrati in una lingua autentica, cioè il dialetto), e la ‘quasi scomparsa del dialetto’ in epoca recente. Coltro ha comunque aggiunto la spiegazione di alcune parole o espressioni a piè di pagina per facilitare la lettura e la comprensione del libro.

Coltro vuole imitare la naturalezza del dialetto, della varietà contadina che apparteneva al parlato spontaneo dell’epoca, contrariamente alla lingua standard. Esisteva una disgiunzione tra la lingua standard (scritta) e la lingua parlata, ovvero il dialetto (come si è mostrato in I.2). Il dialetto serve qui a dare maggiore autenticità al racconto, e quindi testimonia indirettamente dell’uso del dialetto di quell’epoca.

27 Per una presentazione dell’autore si rinvia alla prima parte, 3.5.

28 Con il noi, Coltro referisce a lui ed all’editore.

 

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L’analisi condotta in questa sede verte su due capitoli del libro, “Tra una guerra e l’altra” e “Le scarpe rosse”. Si tratta di vedere se ci sono differenze nell’uso della lingua standard e della varietà contadina/dialettale, e di analizzare il tipo di dialetto rappresentato, il grado di integrazione o di alternanza con la lingua standard. Siccome “Tra una guerra e l’altra” è stato inserito nell’ultima edizione, sarebbe interessante indagare se ci sono caratteristiche diverse. Si può porre la domanda se Dino Coltro ha continuato la stessa scrittura, la stessa varietà di lingua in questi due capitoli e se l’uso del dialetto o della varietà contadina si realizza nello stesso modo.

2.2 Le scarpe rosse (p. 87 – 101)

 

In questa parte si presenteranno le ‘deviazioni’ rispetto alla lingua standard. Per fare ciò conviene tener conto della voce parlante (il narratore parla in prima persona) e dei discorsi diretti alla luce delle affermazioni dell’autore stesso sulla funzione ‘mimetica’ del dialetto. Si tratta di vedere se c’è una sola varietà usata dallo scrittore, o se esiste una variazione a seconda del personaggio.

2.2.1 Le caratteristiche generali del dialetto

 

Il vocalismo mostra alcune caratteristiche della varietà dialettale usata da Dino Coltro. Una /e/ atona davanti a /r/ diventa una /a/, sia in posizione pretonica (21) sia in posizione postonica (22). Questa mutazione è anche presente in parole monosillabe come in per che si realizza par (23). Un secondo elemento è la mutazione di /i/ in /e/ nei pronomi oggetto come mi che diventa me (24) ma anche nelle preposizioni, di si realizza de (25).

Un fenomeno tipicamente veneto è la caduta della vocale finale dopo /n/, che poi si nasalizza, come si ritrova anche in Coltro (26) nella parola paron. La vocale finale cade soltanto se non è morfema di plurale, come si è discusso nella prima parte. Oltre alla caduta della vocale finale e le mutazioni, si osserva anche la mancata dittongazione della /o/ in sillaba libera (27).

 

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(21) [...], con la compagnia tante sere andavino de scondon in una ostaria persa nei campi, [...] (p. 92-93)

(22) [...], bisognava fare come tutti, pegore a testa bassa, mettare il piè nella pesta de chi caminava davanti. (p. 88)

(23) [...], non contava niente che mi par primo della me razza avevo finito tre classi de scuola, [...] (p. 87)

(24) Me aiutava Dino fiolo de Gusto che camminava già su un’altra strada, [...] (p. 87)

(25) Era la canzone che preferivo, cantandola me pareva de guidare i soci al cambiamento della nostra vita, [...] (p. 91)

(26) Il paron è padrone anca quando dà consigli, [...] (p. 87)

(27) [...] me sono trovato de novo a casa a fine guerra, [...] (p. 101)29

 

Accanto al vocalismo ci sono i cambiamenti sul piano consonantico che appartengono sempre alla sfera dialettale. Si osservano alcuni scempiamenti consonantici (28), anche se non sono molto frequenti in questa parte del libro, contrariamente alla varietà usata da Marco Franzoso (si vede 3.3). Le consonanti sorde in posizione intervocaliche hanno tendenza a sonorizzare in veneto, in questo libro si trovano la /t/ intervocalica e la /k/ intervocalica che si sonorizzano in /d/ (29) e in /g/ (30). La /v/ intervocalica tende a sparire nelle forme dialettali dell’indicativo imperfetto dei verbi della seconda e terza coniugazione (31).

(28) [...], anca i butei poco più avanti di età come me fradelo Gusto, [...] (p. 96)

(29) Questa era la vera verità, peggio de così non poteva andare, con l’inverno alle porte, le giornade spartite un tanto a testa, [...] (p. 91)

(30) [...], bisognava fare come tutti, pegore a testa bassa, mettare il piè nella pesta de chi caminava davanti. (p. 88)

(31) A nove anni, non avea ancora fatto tutti i secondi denti, [...] (p. 87)30

 

I nessi consonantici – dr – (32) e – pr – (33) si riducono a – r –, la consonante davanti alla /r/ cade. Si osserva anche una riduzione di –// – alla semiconsonante yod (34). Come si

29 Neretti miei per indicare le parole nelle quale si vedono le ‘deviazioni’.

30 Neretti miei per mostrare le parole che presentano le caratteristiche discusse.

 

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vedrà anche in Franzoso, il nesso /k/ + yod diventa /t/ nei dialetti veneti (35). L’ultimo cambiamento consonantico che si ritrova in Coltro è il suono // che si realizza /ss/ (36).

Un altro elemento importante è l’aferesi, che appartiene soprattutto alla lingua parlata e della quale non mancano esempi in questa situazione (37).

(32) [...], me pare dormiva in corte in cucia con le cavalle, [...] (p. 90)

(33) [...], a sagra finita mi restò il cappello de sughero attaccato al trave sora il letto, [...] (p. 100)

(34) [...] invece in casa mi predicavano che non avevo voia de lavorare. (p. 96)

(35) [...], mancava la divisa che poi è venuta con il fascismo, una novità vecia come mentalità. (p. 88)

(36) [...], se consolava un poco parché credeva de conossare i negri, [...] (p. 99)

(37) [...], poi ha dato l’ordine di bandonare il campo e de andare in chiesa, [...] (p. 96)31

 

I pronomi possessivi corti non sono uguali a quelli della lingua standard, mio/a diventa me (38), tuo/a diventa to e suo/a diventa so (39). Il pronome personale della prima persona singolare diventa mi invece di io (40). In più si osserva l’apparizione della parola noialtri, arcaica rispetto alla lingua standard, ma moderna per il dialetto32 (41).

(38) [...], me pare dormiva in corte in cucia con le cavalle, [...] (p. 90)

(39) [...], solo in letto se podea godarse la so donna, il più delle volte aveva rogne con to sorella con to mamma, [...] (p. 97)

(40) [...], mi invece non accettavo, non era giusto, [...] (p. 96)

(41) [...], non era solo questione de soldi, par noialtri era un bel passo avanti mettendosi sul tuo, [...] (p. 87)33

 

31 Neretti miei.

32 Anche se è adattata alla morfologia standard.

33 Neretti miei per indicare le parole che presentano le caratteristiche discusse.

 

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Nella morfologia dei verbi si osserva lo strato dialettale nella prima persona plurale dell’indicativo imperfetto in –emo (42). Oltre questa forma affiora anche una mancata congruenza tra il soggetto ed il participio passato (43).

(42) [...], in cambio noialtri avemo dà mi in guerra, [...] (p. 100)

(43) [...], la scuola è stato solo uno s-ciantiso, [...] (p. 87)34

 

I numerali cardinali non sono quelli dell’italiano standard, ma sono forme dialettali in questo caso. Due diventa do, diciotto, undici, dodici, quindici e seidici si realizzano rispettivamente disdoto, undase, dodese, quindase e sedase (44), mentre due e quaranta e due e cinquanta diventano doequaranto e doecinquanta (45) in dialetto.

(44) [...], ma se dovea essare sul campo un quarto d’ora prima, restarci quindase sedase ore, [...] (p. 91)

(45) [...], dopo che uno aveva sui brazzi dodese ore sudate te metteva in mano doequaranta o doecinquanta, [...] (p. 98)35

 

La forma morfosintattica e fonologica presente ne “Le scarpe rosse” non appartiene al dialetto stretto. Si tratta di caratteristiche generali dei dialetti veneti, senza che ci siano tutti i tratti veneti. Da quel punto di vista si potrebbe dire che si tratta piuttosto di una koinè e non come dialetto stretto legato ad una località geografica in particolare.

Sul piano lessicale, Dino Coltro utilizza parole appartenenti al dialetto veneto della sfera contadina. In caso di necessità, dà una traduzione a piè di pagina. Si ritengono alcune parole come esempi di questo lessico dialettale: anca (46), butel/i (46), schei36, genare (con traduzione), graspia, moneghe (con spiegazione), butelo (46), pezzate (con traduzione), pitocco, ecc.

Mentre per la morfosintassi si tratta soprattutto di elementi regionali (e non dialettali), il lessico si situa sul livello dialettale. Il lessico usato da Dino Coltro in questo libro si qualifica come il luogo dove l’appartenenza diastratica (il mondo contadino) si manifesta meglio ed è

34 Neretti miei per indicare le parole che presentano le caratteristiche discusse.

35 Neretti miei per indicare le parole discusse.

36 Non è solo ‘contadino’.

 

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anche molto più chiaramente ‘veronese’ della morfologia. Parole tipiche del veronese sono ad esempio l’uso di buteleto e fare il dodici (46).

(46) Dai sette otto anni, quando uno bandonava la mano de so mamma par tacarse a quella de so padre, fino all’età del militare, i fioli dei braccianti se distinguevano in buteleto prima, dopo bocia, più avanti butel, de ritorno da soldato era chiamato omo o butel da sposare parché podea trovarse la morosa, salvo parere contrario de chi de dovere, sul lavoro quando sbagliavi ti dicevano spissaion [piscione], i compagni di età giusta pena arrivavi al tempo voluto dalle abitudini, ti facevano il dodici, te cavavano le braghe par controllare se eri buteleto o bocia, se ancora non mostravi un buon sviluppo, ci sputavano sopra e lo stigavano [irritavano] con le ortighe, così aiutavano l’organo a maurarse, non finivano più di coglionarti fino a che non potevi mostrare il contrario, anca Toni che è andato a prete gli hanno fatto il dodici.37

 

Nell’esempio (46) si osservano anche a deglutinazione con la perdita della /a/ in (a)bandonava e giusta (ap)pena e la sintassi piuttosto ‘parlata’, come nella dislocazione a sinistra con ripresa clitica in “anca Toni che è andato a prete gli hanno fatto il dodici.”

Conviene comunque fare l’osservazione che tutti questi tratti dialettali non appaiono sempre nel capitolo, c’è una variazione. Accanto alla forma dialettale anca appare anche, ma anche per i tratti fonetici non mancano le ‘eccezioni’ (si usa ad esempio osteria accanto alla forma dialettale ostaria). Coltro stesso afferma che “il linguaggio degli episodi è volutamente non uniforme, così da rispecchiare l’evolversi, con le generazioni, della stessa espressione verbale che, perdendo molto della sua koinè, si avvicina a un modo di parlare popolare molto più simile alla lingua italiana” (COLTRO, 2000: Nota). Al fattore diacronico cui Coltro allude qui si aggiunge anche quello diastratico: i brani ‘in italiano’ hanno anche influssi ‘popolari’ come la deglutinazione (cf. sopra).

37 Le traduzioni delle parole sono prese da Dino Coltro.

 

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2.2.2 Altri elementi non-standard

 

Sul piano lessicale si osservano alcune parole che non appartengono veramente al dialetto, benché non facciano nemmeno parte della lingua standard. Si tratta di parole con un raggio di uso più regionale e che si possono includere nel codice lingua del settentrione. Tra queste si ritengono moroso/a/i/e e cavare le braghe che vengono indicate come espressioni regionali o settentrionali38.

(47) Dai sette otto anni, quando uno bandonava la mano de so mamma par tacarse a quella de so padre, fino all’età del militare, i fioli dei braccianti se distinguevano in buteleto prima, dopo bocia, più avanti butel, de ritorno da soldato era chiamato omo o butel da sposare parché podea trovarse la morosa, salvo parere contrario de chi de dovere, sul lavoro quando sbagliavi ti dicevano spissaion [piscione], i compagni di età giusta pena arrivavi al tempo voluto dalle abitudini, ti facevano il dodici, te cavavano le braghe par controllare se eri buteleto o bocia, se ancora non mostravi un buon sviluppo, ci sputavano sopra e lo stigavano [irritavano] con le ortighe, così aiutavano l’organo a maurarse, non finivano più di coglionarti fino a che non potevi mostrare il contrario, anca Toni che è andato a prete gli hanno fatto il dodici.39

2.2.3 I discorsi diretti

 

Il narratore della storia parla in prima persona. Si tratta di un amico di Dino il cui nome non viene menzionato nel capitolo. Nella nota Coltro afferma che il narratore è Silvio, il figlio di Moro ed il fratello di Augusto (ovvero Gusto). Tutte le variazioni che si realizzano in questo capitolo sono dovute a questo narratore. In alcuni casi si leggono i discorsi diretti del Vecio, della famiglia del narratore (famiglia, padre, madre), del castaldo, del padre di un amico, di Giulia, e di Romeo. In questa parte si studieranno questi discorsi diretti che si

38 www.garzantilinguistica.it

39 Neretti miei per mettere in rilievo le parole discusse.

 

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possono ridurre a due casi: il primo quello dei contadini (famiglia, padre dell’amico e Romeo) e l’altro è quello dei padroni (Vecio, il castaldo, Giulia).

Si tratta quasi sempre di un dialogo tra un contadino ed un padrone non si vedono veri e propri discorsi nel mondo contadino dove parlano tra di loro. C’è sempre questa gerarchia molto importante, il padrone ha tutto il potere ed il contadino deve obbedire per non essere licenziato. La varietà dei padroni si avvicina più allo standard di quella usata dai contadini, come si vede nel dialogo tra il Vecio e il padre del narratore (48). Ma gli elementi dialettali non spariscono totalmente dal discorso del Vecio, né di altri padroni.

(48) “era Moro, ho sentito che to fiolo, ha il paltò” [Vecio],

 

“Signorsì” [padre],

“ti pare una cosa bella avere un fiolo col paltò?”,

“cosa vorlo sior, sono dei buteloti, se mettono in testa”,

“ecco hai detto giusto la testa, è proprio quella che gli manca, la testa”,

“non credo che par portare un paletò al posto del tabarro”,

“non stare lì a cercare delle scuse, io so che tu non volevi comprarglielo”,

“sì è vero, ma par la pace in fameia gli ho dato un contento”,

“ma non si fa la pace della Corte in questo modo, tu hai degli anni sulle spalle e sai cosa vuol dire, un buteloto con il paletò o è un ladro o ci diventa”,

“no sior il paletò l’ho comperato mi”,40

“bravo si vede che non hai cambiato idee, i socialisti hanno radici fonde”,

“cosa c’entrano i socialisti adesso”,

“sì che c’entrano, il socialismo nasce nella testa di chi vuole essere diverso dagli altri, e poi il paltò è bianco, il paltò bianco lo porta il suo padrone, almeno fosse nero, almeno questo, ad ogni modo gente con paltò niente in corte mia, tuo figlio è in libertà con gli altri so pari, quel Mario e quel Bepi, fuori dal campo l’erba matta, non voglio impestare la Corte di teste calde, libertà di vestirsi libertà di lavorare dove vogliono, se lo troveranno”. (p. 89-90)41

40 Neretti miei per mostrare le caratteristiche discusse.

41 Corsivo mio per indicare le parole standard.

 

- 58 -

2.2.4 L’uso della lingua standard e del dialetto

 

In questo capitolo del libro di Dino Coltro, la varietà usata non è la lingua standard. Appaiono elementi che ‘deviano’ dal codice lingua, come si è visto in 2.2.1 e 2.2.2. Si tratta di elementi marcati in diatopia: appartengono al dialetto veneto (veronese o koinè) o al settentrione in genere. Si osservano anche differenze linguistiche tra i vari personaggi (2.2.3).

Non si può nemmeno affermare che la varietà usata in questo capitolo è il dialetto stretto, perché il testo rimane sempre leggibile per lettori non-veneti. Alcuni elementi dialettali sono presenti nel testo, ma queste caratteristiche rimangono abbastanza trasparenti per un lettore colto42. E’ soprattutto nel lessico che l’appartenenza geografica di Coltro si manifesta più chiaramente: per ovviare a problemi interpretativi Coltro aggiunge spiegazioni o glosse (sia come note che come parafrasi).

42 Si ricorda la parola noialtri, influsso dialettale, ma non è la parola in dialetto che sarebbe noaltri.

 

- 59 -

2.3 Tra una guerra e l’altra (p. 77- 82)

 

Questo capitolo è stato inserito nella terza edizione del 2000, ha sempre un narratore che parla in prima persona. Si tratta di Gusto, padre di Dino. Come questa parte del testo non è stata scritta insieme alle altre, è interessante vedere se ci sono differenze linguistiche, anche tenendo conto di quello che Coltro stesso dice nella nota introduttiva sull’evoluzione della lingua nel suo libro.

2.3.1 Le caratteristiche del dialetto

 

Dopo una prima lettura si osserva subito che gli elementi di variazione non sono così numerosi che negli altri capitoli. Gli elementi che appaiono sono soprattutto di tipo lessicale (buteloto/i, scondiroti, traion, genia, verzar, butel/e/i, pato, limegava, zendare, zerume, bogoni, busso, lissia, schei), accanto ad alcuni casi di aferesi (baiare, sto) ed alcune variazioni di tipo fonologico (omo, parché, ecc.).

(49) Da quel che me ricordo mi, in casa c’è sempre stato uno, quando non son stati due o tre, via a militare, e tra l’altro la cartolina arrivava quando avevi l’età buona per dare una mano alla famiglia, ma ormai i sapeva e fare il soldato era entrato nella mentalità della gente, tanto che un butelo veniva considerato omo dopo la leva e poteva sposarsi, prima non era neanche da considerare il matrimonio. (p. 77)

(50) Da lei, appunto parché persa nel mondo, si era sconto mio padre finché durò la buriana del primo fascismo, che buttò acqua sul fuoco dello sciopero e lo spense, restarono le brase a covare sotto la zendare [cenere] del tempo finché arrivò il vento della seconda guerra a farle venir fuori, arrivò anche in quella contrada abbandonata da Dio e dagli uomini, ma non dal diavolo, nella bocca di tutti correva la voce che un buteloto del posto avesse il Libro di Piero Abano. (p. 80)43

 

43 Neretti miei per mostrare le caratteristiche discusse e il corsivo mio per indicare le parole standard.

 

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2.3.2 Altri elementi non-standard

 

Come nel capitolo “Le scarpe rosse”, si osservano anche elementi lessicali che non appartengono al dialetto veneto né alla lingua standard. Si tratta di parole regionali che fanno parte del codice lingua settentionale. Come esempi si ritengono le parole moroso/a/i/e (51) e buriana (52) indicate come regionalismi nel dizionario Garzanti online44.

(51) Appena tornato dal militare mi ero trovato la morosa, gli accordi erano stati fatti già prima, la donna che poi ho sposato era figlia del Carlo della Cabianca, [...] (p. 78)

(52) Da lei, appunto parché persa nel mondo, si era sconto mio padre finché durò la buriana del primo fascismo, [...] (p. 80)45

2.3.3 L’uso della lingua standard e del dialetto

 

Per questa parte si è fatto il calcolo delle forme diverse che appaiono nel capitolo per vedere in quale misura gli elementi dialettali sono sempre presenti. Si vede subito che le forme dialettali sono molto meno presenti delle forme in lingua standard.

Questa parte si avvicina di più ad un italiano standard, pur sempre realizzando elementi dialettali. Si tratta piuttosto di un italiano popolare regionalmente marcato da elementi veneti, come voleva anche Dino Coltro: “Il linguaggio degli episodi è volutamente non uniforme, così da rispecchiare l’evolversi, con le generazioni, della stessa espressione verbale che, perdendo molto della sua koinè, si avvicina a un modo di parlare popolare molto più simile alla lingua italiana. ” (COLTRO, 2000 : Nota).

44 www.garzantilinguistica.it

45 Neretti miei per indicare le parole regionali.

 

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Tabella 1

lingua standard

dialetto

N° occorrenze

% standard

Dittongo /wo/ vs senza dittongo

13

4

17

76%

famiglia vs fameia

5

0

5

100%

-dr- vs -r-(padre vs pare, padrone vs parone)

11

(4, 7)

1

(0, 1)

12

(4, 8)

92%

(100%, 88%)

di vs de

54

6

60

90%

per vs par

39

1

40

97,5%

perché vs parché

8

3

11

73%

anche vs anca

17

0

17

100%

due vs do

8

1

9

89%

 

Nei discorsi diretti non esiste una grande differenza linguistica con il testo del narratore. Il numero di elementi dialettali che sorgono nei discorsi diretti non è più alto di quello nel testo stesso, tranne per il personaggio di Palma. Lei usa una varietà molto più marcata (53). Gusto presenta alcuni elementi dialettali nel suo dialogo con il padrone, ma non c’è una differenza notevole tra le varietà di questi due uomini (54).

(53) [...] “piassé deserto de dove so nata che no ghé l’ombra de na pianta, par forza dovevano mettermi nome Palma, che nol ghé gnanca nel lunario dei santi”, era rimasta vedova in guerra, con quattro figli, “per fortuna la Ada era già sposata, una bocca di meno”

 

[...]

“pare impossibile che le leggi sono tutte contro i pitocchi da vivi e da morti”, brontolò e lo chiamò Piave

 

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[...]

“perché non venite a lavorarla voi, visto che non ho più el me omo, non m’avete dato neanche il vestito e le scarpe che date ai congedati”.

[...]

“almanco el me omo l’è morto sul Piave”, [...]46.

(54) Quella domenica mi venne proprio incontro Muto in divisa, “come mai tu non vieni a fare il sabato fascista”, parché, sior, sono salariato in stalla e devo curare le bestie”, “bene, allora da domani sei licenziato, non lavori più” e mi lasciò interdetto da queste parole, tanto che il padrone non se ne accorse, “cosa hai Gusto che ti vedo scuro”, “ma, non so cosa dirghe ho incontrato Muto che mi ha detto che da domani sono senza lavoro perché non faccio il sabato fascista”. Il grande Vecchio mi guardò, “Cosa hai detto!” mi fece ripetere il discorso, “ah così, allora va a chiamarmi sto fascista” e andai a cercarlo, lo trovai, “ha detto il mio padrone che le vuole parlare”, lasciò subito la compagnia e si presentò, “buon giorno sior Ermagora”, ma non ricevette risposta, “cosa hai detto al me omo, sentiamo”, “lo sapete anche voi…” non lo lasciò proseguire, “io so solo che lui è sotto di me, lo pago io, e non ti arrischiare più di comandare un mio dipentente”.47

 

46 Per l’intera parte della conversazione di Palma, si rinvia all’appendice (p. 79-80 del libro).

47 Neretti miei.

 

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2.4 Riflessioni finali

 

Dino Coltro non usa la varietà dialettale né la lingua standard nei due capitoli esaminati: non è possibile individuare la varietà come lingua italiana standard, perché affiorano elementi non-standard. Non scrive nemmeno in dialetto, perché non è il dialetto stretto come viene parlato dai dialettofoni. Dino Coltro mischia i due codici per cui la varietà rimane abbastanza trasparente anche per lettori non-veneti. Nei casi in cui il lessico potrebbe essere incomprensibile, Coltro ha aggiunto la spiegazione a piè di pagina per facilitare la lettura.

Nei due capitoli esaminati del libro di Dino Coltro, “I léori del socialismo”, si osservano alcune differenze dal punto di vista linguistico. Prima di tutto, la storia viene raccontata da due personaggi diversi, in “Tra una guerra e l’altra”, si tratta di Gusto, mentre ne “Le scarpe rosse”, Silvio è il narratore. Due narratori diversi usano due varietà diverse: la varietà di Gusto (si nota il percentuale di lemmi ‘standard’ nella tabella 1) presenta meno elementi dialettali di quella del narratore ne “Le scarpe rosse”. Palma è l’unico personaggio in “Tra una guerra e l’altra” la cui varietà è più marcata da elementi dialettali.

Nel capitolo “Le scarpe rosse”, si osserva una differenza tra la varietà dei padroni e quella dei contadini, come mostrato nell’esempio (47). Mentre nel capitolo che precede, questa differenza non è di tale genere.

Dino Coltro non mette in rilievo le parti in dialetto come lo fa Gian Domenico Mazzocato ne “Il bosco veneziano” che è stato discusso nella seconda parte, 1. Non mette questi elementi, o i discorsi in dialetto in corsivo, ma li presenta come gli elementi standard: da un punto di vista grafico o di presentazione non vi è alcuna differenza fra i due codici.

Coltro usa dunque il dialetto (veronese stretto per il lessico e koinè per la morfosintassi) con standard, ma non sembre in uguale misura come si è visto in 2.3. Ne “Le scarpe rosse” queste ‘deviazioni’ rispetto alla lingua standard sono molto più frequenti che non nel capitolo che precede, “Tra una guerra e l’altra”.

Per quel che riguarda la forma e l’uso del codice dialetto ne “Il bosco veneziano” di Mazzocato e ne “I léori del socialismo” di Coltro, si osservano alcune differenze. Prima di

 

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tutto Mazzocato segnala chiaramente quando si tratta del dialetto stretto (messo in corsivo) e quando il discorso è scritto in italiano standard (in carattere normali). Questa presentazione grafica del dialetto non è presente in Coltro, che non distingue graficamente i due codici usati.

Mazzocato usa il dialetto stretto nei dialoghi tra i personaggi, sia sul piano morfosintattico sia su quello lessicale. In Coltro si vede l’apparizione di una specie di koinè per la morfosintassi mentre il lessico riflette l’appartenenza geografica dello scrittore veronese. In più l’uso del dialetto non si limita ai dialoghi ne “I léori del socialismo” mentre Mazzocato ne fa esclusivamente uso per i dialoghi (sia quelli esterni che quelli interni come i pensieri dei personaggi).

Coltro non alterna il dialetto e la lingua standard in uguale misura mentre non si trovano differenze di tale genere in Mazzocato. Ma bisogna tener in mente che ne “Il bosco veneziano” nella narrazione apparentemente in italiano standard affiorano anche elementi regionali non graficamente marcati come tali. In questo caso viene anche mostrato l’appartenenza geografica dell’autore.

Dopo aver esaminato questi due scrittori (Gian Domenico Mazzocato e Dino Coltro) si passa al terzo scrittore, Marco Franzoso. Si tratta di indagare quale varietà di lingua viene usata in “Edisol M.-Water Solubile”, ma anche di vedere se ci sono differenze a seconda del personaggio o della situazione comunicativa.

 

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3 Marco Franzoso48: “Edisol M. – Water Solubile.”

 

In questa parte si studierà la lingua dal punto di vista (socio)linguistico nel libro di Marco Franzoso: “Edisol M. – Water Solubile, detective, patriota e poeta in <<El strano caso dei meteoriti verdastri>>”. Veranno trattati prima alcuni tratti comuni a tutti i personaggi del libro e poi gli elementi individuali dei personaggi, con una particolare attenzione rivolta al personaggio principale, il detective Edisol.

Si tratta di vedere in quale modo viene usata la varietà non standard o le varietà non standard in questo testo di Marco Franzoso. Si studierà se questo uso corrisponde alla teoria della sociolinguistica, per la quale il dialetto appartiene esclusivamente alla sfera personale ed informale e non tra persone che non si conoscono bene. Questa teoria viene anche dimostrata dalle inchieste DOXA. Nella realtà comunicativa, si vedono differenze individuali che dipendono dalla classe sociale, il sesso, l’età ecc. Per quel che riguarda “Edisol M.-Water Solubile”, si tratta di vedere se queste differenze sono anche presenti nelle varietà dei personaggi e in quale modo vengono realizzate.

3.1 La varietà usata49

3.1.1 La presentazione grafica

 

Il titolo del libro “Edisol M. – Water Solubile, detective, patriota e poeta in <<El strano caso dei meteoriti verdastri>>” mostra già la particolarità di questa opera. Oltre il significato poco chiaro del titolo, si vede l’apparizione dell’articolo determinato el invece di il. Questo articolo è l’unico elemento che indica una ‘deviazione’ linguistica. Non è chiaro l’ambito della storia né l’appartenenza geografica e non si sa ancora come si presenterà l’intera opera, in lingua standard, in dialetto o in un’altra varietà. Non si sa neanche quale varietà sarebbe se non si tratta della lingua normata o del dialetto.

L’editore del libro, Farfalle Marsilio, ha sede a Venezia, ma non è una casa editrice locale con interessi solo nell’area veneta (nel catalogo appaiono anche scrittori non veneti ad

48 Per una presentazione dello scrittore si rinvia all’introduzione.

49 Questa parte contiene affermazioni dell’autore stesso, date durante un’intervista l’8 luglio 2004.

 

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esempio). Si tratta di un’organizzazione che mira ad una copertura nazionale, perciò per il lettore non è subito chiaro che il libro si devii dalla letteratura ‘canonica’ in lingua standard.

La lingua usata da Marco Franzoso non è facile da definire, e forse non esiste neanche una definizione della varietà. Dalle prime righe, si capisce subito che non si tratta dell’italiano standard che viene usato nella letteratura ‘canonica’. Dall’altra parte, il libro non è neanche scritto interamente in dialetto, dato che lo scrittore usa ad esempio la parola italiana soldi e non quella veneta schéi (al contrario di Mazzocato, cf. 1), o anche la voce italiana ragaz(z)i invece di una dialettale come butei, putei o tusi. Dall’esame del testo si cercherà di determinare con più precisione la variazione linguistica attestata nel libro di Franzoso e di valutare l’impatto della variazione sul lettore medio. Per fare ciò si cercherà di vedere dove si collochi la varietà usata in questo libro, sugli assi di variazione diamesica, diafasica, diastratica, diacronica e diatopica.

Per questo libro Marco Franzoso ha detto di aver provato a lavorare su una voce parlante invece di su una lingua. Secondo lui, non si può parlare di una lingua, perché non ha le regole grammatiche e sintattiche per essere una lingua50. Prima di scrivere una frase, Franzoso rifletteva per sapere come suonava meglio, quasi come un direttore d’orchestra che sceglie le parti del violino o del flauto ecc. (c.p.). Da parte dell’autore, la narrazione si mette quindi all’insegna dell’oralità e la lingua sarà per questo motivo anche pervasa da segni particolari tipici della resa del parlato. Un primo tratto riguarda la musicalità per la quale i Veneti si distinguono tra gli altri parlanti settentrionali. Questa musicalità la si ritrova ad esempio alla pagina 12 del libro: ATUALMÉNTI. È ancóri lassù che giri, tùti conténti. In questa frase è molto importante l’aspetto della metrica, si osservano anche gli accenti scritti dove in lingua standard (scritta) non appaiono.

La rappresentazione della musicalità comporta anche il problema della grafia come si è rilevato nella prima parte, al paragrafo 3.4. Questo libro si basa quindi soprattutto sull’oralità, per cui Franzoso ha adottato il sistema di trascrizione delle frasi come vengono pronunciate e non segue le regole proposte da Canepari (1984). Ma certe volte usa la grafia dialettizzante come nella parola conprensibile ad esempio, che viene scritta come indicato da Canepari (1984): il nesso /mp/ diventa /np/ e viene scritta np. Franzoso ha usato la grafia della lingua standard, adottandola ai bisogni dell’oralità. Per questo motivo piace molto allo scrittore sentire leggere il romanzo ad alta voce, il che ogni tanto viene fatto (c.p.). Ovviamente questa

50 È l’opinione di Franzoso, bisogna tener in mente che per la sociolinguistica si tratta di una varietà in un ambito comunicativo.

 

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pronuncia tipicamente veneta si perde nel libro e Franzoso cerca di renderla un po’ di più grazie all’introduzione di accenti.

3.1.2 Percezione della varietà

 

Come si è visto, il titolo riporta già un primo elemento (l’articolo determinativo) che problematizza lo status della lingua. Se il romanzo fosse stato scritto in dialetto, non sarebbe stato leggibile per gli Italiani di altre regioni o per stranieri. Per garantire la leggibilità Franzoso si trova quindi costretto ad armonizzare la grafia con la norma, sfruttandola allo stesso tempo per rendere meglio le particolarità fonologiche del veneto. Questo miscuglio di lingua si legge tuttavia abbastanza facilmente, anche per chi non è dell’area veneta. Franzoso voleva scoraggiare il lettore, voleva che facesse uno sforzo per leggere il libro (c.p.). Fuori dell’area veneta, il libro viene percepito come scritto in dialetto, il che non è il caso in Veneto. Questo non vuol dire che il lettore veneto non prova nessuna difficoltà leggendo il testo: siccome non si tratta di un vero testo dialettale, il lettore riconosce alcune parole, ma non le riconosce come voci dialettali. Franzoso stesso opina che la lettura del testo rimane uno sforzo per ogni lettore e questo era appunto lo scopo dello scrittore padovano. Lo scrittore ha detto di voler scoraggiare il lettore che prende in mano il suo libro (c.p.).

Secondo me, la varietà usata nel libro è più naturale dell’italiano normativo e letterario con forme che una persona non userebbe mai in una conversazione naturale. Conviene comunque fare l’osservazione che si tratta qui di un lavoro linguistico molto elaborato, di una varietà ‘ricercata’, nel senso che si tratta di una letteratura dialettale ‘riflessa’ nell’interpretazione crociana.51

51 Per questo libro (ed anche per quello precedente), l’editore non ha avuto nessun influsso linguistico (anche questo in base alla testimonianza di Franzoso stesso, c.p.). Possibili errori di stampa vengono inclusi nel libro, perché per un editore è quasi impossibile dire se si tratta di un errore di stampa o di una ‘storpiatura’ voluta da parte dello scrittore (c.p.). Ne “I léori del socialismo” di Dino Coltro, al contrario, l’editore ha inserito la punteggiatura che non c’era nella prima versione (era presente soltanto il punto fermo).

 

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3.2 Tratti comuni a tutti i personaggi52

 

Per poter determinare la varietà usata, si deve distinguere da un lato i punti in comune tra i personaggi e dall’altro le differenze tra di loro. La varietà del libro è composta di alcune caratteristiche comuni a tutti i personaggi, incluso il narratore. Gli elementi vengono da domini diversi: ci sono influssi della lingua arcaica, dialettismi, tratti della lingua parlata, elementi dell’italiano popolare, anglicismi (dai mass-media e da Internet) e neologismi. Alcuni elementi potrebbero appartenere sia ad un dominio sia ad un altro, una classificazione generale è quasi impossibile. In questa parte si metteranno a fuoco le variazioni comuni a tutti i personaggi prendendo esempi dal romanzo.

3.2.1 Elementi della lingua arcaica

 

Si possono distinguere due tipi di arcaismi: il primo gruppo è composto da arcaismi veri e propri, mentre nel secondo gruppo si trovano elementi che appartengono sia alla lingua arcaica sia al dialetto veneto moderno.

Le preposizioni composte che in veneto si scrivono adesso in una parola, vengono ancora scritte in due parole nel libro, tranne le preposizioni combinate con l’articolo determinativo il (el in veneto) o i:

(55) Andare ne lo spazio te fa tornare nela terra de la detection co le idee fresche e i più buoni propositi53. (p. 13)

(56) La perfetta costruzione de la cassa in acciaio zincato, gli consentivano la chiusura rigorosamente ermetica en qualsiasi ambiente, protegéndone el sofisticato mecanismo interno da l’azione – incesante e spezìfica – dei agenti esterni. (p. 25)

(57) Edisol-M. Solubile Flour aprí una fenestra, e dal basso gli giunse ai orecchi el frastuono atutito de la strada. (p. 25)

 

52 Negli esempi sono tutti neretti miei.

53 In alcune casi, le preposizioni composte vengono rappresentate in una parola come in questo caso ‘nelo’, ma si tratta di un’eccezione piuttosto che della regola.

 

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Un secondo elemento arcaico è la presenza della /i/ prostetica, tipica del toscano del ‘200, davanti a /s/ più consonante, all’inizio di parola:

(58) Una rivolverata, per ischerzo. (p. 19)

(59) Gentile cliento, c’era poca zenta per istrada, sta sera. (p. 116)

 

Nell’antica lingua italiana si usava anche la parola drento54 che è diventato dentro, a causa di una metatesi:

(60) “Sì?” disse una voze da drento. (p. 63)

 

Gli ultimi elementi della lingua arcaica del primo gruppo sono di tipo lessicale. I soldi nella storia sono le ghinee (74): una ghinea è una “moneta inglese del valore di 21 scelline, coniata fino agli inizi del XIX sec.” (Zingarelli). Si tratta dunque di una parola non più usata, perché non esiste più la moneta. Altre parole arcaiche che vengono usate sono: beltà (61) e piova (62).

(61) “Per caso qualcun qua ha trezento ghinee da prestarme?” (p. 14)

(62) Dopo vista l’alba, ora el detective era in tram a guardare la beltà de tuta quea zente sul bordo strada, [...]. (p. 79)

(63) Pioveva da due giorni, sotto el cielo de Chioggia, e la piova l’era cominciata due sere prima più o meno a quel ora, [...]. (p. 30)

 

Il secondo tipo di arcaismi usati da Franzoso si caratterizza dal fatto che questi elementi appartengono sia al tosco-fiorentino del ‘300 – e vengono considerati arcaismi per la lingua standard – sia al dialetto veneto moderno. In questo caso Franzoso mescola elementi che appartengono a due varietà diverse, ma che non vengono percepite come tali da lettori veneti. Per loro si tratta soltanto di caratteristiche tratte dal loro dialetto moderno e non sono per niente considerati influssi arcaici. Lettori non-veneti potrebbero riconoscere questi tratti come

54 Lo Zingarelli afferma che si tratta di una voce antica.

 

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provenienti dalla lingua standard antica. L’ambiguità persiste nella scrittura dell’autore padovano.

L’innalzamento della vocale /e/ a /i/ non era ancora un fatto nell’italiano antico (è tipico del tosco-fiorentino trecentesco), un elemento che si ritrova anche in Marco Franzoso, accanto alla parola contemporanea:

(64) “Io!…” continuò in quela bella lengua d’altri tempi, [...]55 (p. 58)

(65) Poi gli mise tre diti tra i capei [...] gli mise la lingua in bocca. (p. 64)

 

I pronomi personali noi e voi dell’italiano contemporaneo furono noialtri e voialtri nell’italiano antico, come l’afferma tra altri Paolo D’Achille (2003 : 167-168): “Nelle forme plurali di 1° e 2° persona, a noi e voi nel parlato si affiancano noialtri/e e voialtri/e, forme di antica data, [...].”

(66) “Lo sentite, voialtri?”56

 

Nella morfologia del verbo, si ritrovano anche alcune tracce arcaiche (accanto ad elementi dialettali). Prima di tutto, per la prima persona dell’indicativo imperfetto, si è rintracciata la desinenza in –a (67), abbandonata per analogia nell’italiano contemporaneo57. La forma latina per la prima persona dell’indicativo imperfetto è AMABAM, che diventa secondo la derivazione normale amava. Questa desinenza in –a è stata abbandonata per analogia, dato che le altre forme per la prima persona singolare finivano in –o. Si ritrovano anche forme antiche per la prima persona plurale dell’indicativo presente, di tipo bevemo (68), avemo (69), ecc.58 Un terzo arcaismo che riguarda il verbo è la forma del participio passato in –uto59 dei verbi in –ire (70) e (71), ma appare anche la forma contemporanea in –ito (72). Si deve tener conto in questa parte che non si parla dei personaggi stessi, ma delle caratteristiche generali. Il narratore usa la forma in –uto (70), come anche il “vicino de casa eleganto” (71), contrariamente a Edisol che usa in questa situazione la desinenza –ito (72). La caduta della /v/ intervocalica nell’indicativo imperfetto dei verbi della seconda e terza coniugazione è un altro

55 In veneto moderno, la parola lengua è normale mentre lingua è marcata dall’influsso “italiano”.

56 Voialtri è un arcaismo rispetto alla lingua standard, ma viene ancora usato in dialetto moderno (voaltri).

57 In dialetto moderno si ritrova ancora la desinenza in –a per la prima persona singolare (mi amava).

58 Anche in questo caso, si tratta di forme normale in dialetto moderno.

59 Ho trovato il participio passato vestuto nel dizionario online www.garzantilinguistica.it, che indica che si tratta di un arcaismo. In dialetto moderno sarebbe vestùo.

 

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elemento che appartiene sia alla lingua arcaica sia al dialetto veneto moderno, del quale si discuterà in 3.2.2 (88). Si indica soltanto che appaiono diverse forme, per l’analisi della lingua dei personaggi stessi, si rinvia a 3.3 di questa seconda parte.

(67) Io doveva solo andar a scovare una donna scomparsa da le parti de via Manin ex via Nino Bixio. (p.47)

(68) “…Parlémo un atimino e bevemo una cossa. Nient’altri…apre…su…” (p.63)

(69) “Avemo poco tempo” disse lei. (p. 67)

(70) El tipo era vestuto come stesse per uscire en quel momento [...]. (p.45)

(71) “Ho sentuto anch’io sta storia” (p. 46)

(72) “Ti t’ha sentito che roba vicino de casa eleganto?” (p.45)

 

La sintassi viene marcata da un elemento arcaico che si ritrova ad esempio anche in Goldoni. Si tratta di una l’ in contesto predicativo, che rappresenta sia una cosa o persona maschile che una cosa o persona femminile60.

(73) Ma se il passo più leggero è quello sensa bastón, il sparo più perfetto l’è quello sensa cannón” (p. 13)

(74) Quindi el consiglio d’un esperto l’è: se hai un caso facile resta, se hai un caso dificile parti; questo l’è el meo consiglio sopratuto per che è alle prime armi.(p. 13)

(75) La forza d’un detèctive l’è immensa. (p. 15)

(76) Chi l’è quello? (p. 38)

 

60 Anche questo aspetto si ritrova ancora in dialetto moderno.

 

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Si ritiene la parola anca61 (77) come esempio lessicale degli arcaismi/dialettismi. La forma anco appartiene alla lingua antica, mentre anca fa piuttosto parte del dialetto veneto (viene anche usata in Coltro).

(77) El cronografo segnava la mezzanotta e un quarto, anca se in realtà era le due. (p.26)

3.2.2 Dialettismi

 

Nel testo appaiono elementi dialettali di vari dialetti veneti, che sono soprattutto di tipo fonetico. Non sono dunque tutti tratti di un dialetto veneto specifico, ma di diversi dialetti veneti.62 Si osserva anche che alcuni elementi appartengono sia alla lingua arcaica sia al dialetto moderno (si veda anche 3.2.1), ma per lettori veneti questi elementi non vengono considerati arcaismi. Un lettore non veneto potrebbe interpretare queste parole come arcaiche, se non conosce la pattina dialettale veneta.

La preposizione di dell’italiano standard si realizza de in dialetto (78). Gli articoli in dialetto hanno forme diverse che nell’italiano: nel singolare, l’articolo indefinito femminile è ‘na (78), quello maschile rimane invariato un (79), e quello definito maschile è el (79) invece di il, ma la forma femminile non cambia (78). Gli articoli per nomi plurali rimangono le (80) per il femminile e i (81) per il maschile. Gli articoli lo, uno e gli, che si usano in italiano prima di un lemma che inizia con una /s/ più consonante, con /ps/ e /x/, con la palatale nasale /gn/, con l’affricata dentale sorda e sonora /z/, con la fricativa palatale sorda /sc(i)/ e con la semivocale /j/ (SALVI & VANELLI, 2004 : 133), non esistono nel dialetto63 e si usano le forme ‘normali’ el o i.

(78) Piegò la mappa e la mise dentro na tasca segreta de la giacca de marca. (p. 76)

 

61 Lo Zingarelli menziona il lemma anco come arcaismo per anche, ma questo lemma non si trova nel libro. Accanto alla forma anca, appare la parola normale, anche. Si parlerà della differenza in 3.3. di questa seconda parte. La forma anca è normale in veneto e veniva anche usata da Dino Coltro.

62 Per la differenza tra i vari dialetti veneti si rinvia alla prima parte, 2.2 Il Veneto linguistico.

63 Come la lingua usata da Marco Franzoso è un miscuglio di diverse varietà, appaiono anche le forme normali, ma queste sono piuttosto eccezioni. La maggior parte degli articoli sono quelli indicati come dialettali.

 

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(79) “El sesso, per un detèctive, soprattutto, ha da essere, preferibilmenta, sempre siccuro.” (p. 15)

(80) Le scarpe era infangate, e su le sue spalle era posate infinite goccioline d’acqua. (p.26)

(81) I soi pensieri furo interotti da un boato. (p. 90)

 

I pronomi tonici e atoni non sono uguali in dialetto veneto e in lingua standard. Ci si limiterà qui ai pronomi che vengono usati nel libro. Per la seconda persona singolare, il pronome personale soggetto è ti (82) (in italiano invece tu), i pronomi personali per la prima e terza persone singolare rimangono invariati nel libro64, per la prima e seconda persona plurale si usano sia le forme italiane normali sia noialtri e voialtri (si vede 3.2.1) e la terza persona plurale rimane invariato. I pronomi usati per la cortesia65 sono vari nel libro: Lei, ma anche Lui in alcuni casi in cui si rivolge ad una persona maschile (si vede 3.3) e Voi per il singolare. Secondo Salvi & Vanelli (2004 : 196), “l’uso del voi come allocutivo di cortesia rivolto a un solo interlocutore (con verbo al plurale, ma con aggettivi e participi al singolare) ha ormai solo un uso limitato a certe aree regionali e non appartiene più all’italiano comune.” Si tratta dunque di una forma arcaica regionalmente marcato (83).

(82) Ma ti non capisci mai nienta ti? (p. 32)

(83) Ma, intanto, voi come state? (p. 116)

 

I pronomi personali oggetto, in posizione atona, presentano lo stesso cambiamento (tranne la terza persona singolare e plurale), la /i/ diventa una /e/: me invece di mi (84), te invece di ti (85), ve invece di vi (86). Nel caso dell’uso di ce invece di ci, si tratta di una forma mista (la forma dialettale dovrebbe essere ne) (87).

(84) “’Na bruta storia, me pare.” (p. 28)

(85) Te pare un parcheggio, questo? (p. 32)

(86) Qua è andata via la luce, non ve s’è accorti, voialtri? (p. 32)

(87) Ce vedemo più tardi. (p. 41)

 

64 Si deve fare una piccola osservazione qua: il narratore usa anche il pronome personale soggetto ella che non fa parte del dialetto, né della lingua contemporanea parlata. Si tratta di un intervento letterario da parte dello scrittore stesso.

65 Per un ulteriore analisi delle forme di cortesia, si rinvia a 3.3.

 

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I verbi della seconda e terza coniugazione sono marcati dalla mancanza della /v/ intervocalica nell’indicativo imperfetto66, come avea invece di aveva (88). A causa della caduta dell’ultima sillaba, il participio passato non realizza più il morfema del maschile/femminile o del singolare/plurale (anche se in genere il morfema del plurale non cade). Il participio passato di andare ad esempio diventa anda invece di andato, e per indicare che si tratta della forma femminile, si aggiunge un apostrofo: anda’ (89). Appaiono anche altre forme per il participio passato come si è visto in 3.2.1. Per quel che riguarda il verbo, si è già rilevati due tratti che vengono considerati arcaismi rispetto alla lingua standard, benché questi elementi appartengano al dialetto moderno: la desinenza in –a per la prima persona singolare dell’indicativo imperfetto (64) e la prima persona plurale dell’indicativo presente in –emo (65) e (66).

(88) Una specie de ritorno a le origini dopo che la “Città Libera” avéa preferito l’issolamento a l’Europa Confederata. (p. 9)

(89) “Non è anda’ via, la luce!” tuonò el dottor Prete. (p. 32)

 

Si passa adesso ai tratti esclusivamente fonetici. Prima di tutto, lo scempiamento consonantico67 è tipicamente settentrionale e dunque anche veneto: le consonanti doppie vengono ridotte a consonanti semplici (90). Questa riduzione può anche risultare in una perdita delle due consonanti come nell’esempio (91) dove il nesso /ll/ si è ridotto alla ‘l evanescente’(/ł/) tipicamente veneta.

(90) Lasciate passare pochi secondi e poi domandate da acendere con voce bassa e tenete la boca ocupata co la sigareta per qualche secondo. (p. 14-15)

(91) Sanza pensare a quea volta [...]. (p. 68)

 

Un secondo tratto fonetico è la caduta della vocale finale dopo /n/ (92) o dopo /l/, anche se è morfema di plurale come si vede nell’esempio (93):

66 Questo è un tratto che si è anche visto in 3.2.1.

67 I parlanti veneti hanno anche difficoltà a scrivere in italiano standard mettendo le consonanti doppie dove si vogliono. Tuttavia, si deve tener conto della diastratia: un parlante colto non avrebbe questi problemi. Il parlante meno colto, metterebbe anche i consonanti doppi a causa di un ‘ipercorrettismo’ (cf. italiano popolare).

 

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(92) Ma se il passo più leggero è quello sensa bastón, il sparo più perfetto l’è quell sensa cannón! (p. 13)

(93) “Ma come, dotóre, c’è scritto su tuti i giornal!” (p. 37)

 

La sonorizzazione divide l’Italia più o meno in due: a sud si desonorizza, mentre a nord si ritrova una maggiore sonorizzazione. Si tratta dunque di un elemento non esclusivamente veneto, ma piuttosto settentrionale. Le vocali sorde in posizione intervocalica diventano sonore.

(94) Un grupo de donne molto truccate e pogo vestite se intrateneva con tre giovanotti de Chioggia, [...]. (p. 35)

 

Come si è menzionato nella prima parte sulla grafia dialettale (3.4), il nesso consonantico /mp/ si pronuncia /np/ nel Veneto e viene scritto come tale (la /n/ è leggermente nasale):

(95) [...], guidato da tutti inconprensibile e inpossibile, [...] ( p. 11)

 

I suoni dell’italiano /t/ e /d/ si depalatalizzano nell’area veneta e diventano /ts/ e /dz/, poi si realizza una deaffricazione fino alla /s/ o la /z/ (101) (TRUMPER & MADDALON, 1990 : 180). Se queste affricate erano già presenti nell’italiano, si riducono secondo la stessa evoluzione a /s/ o /z/ (97).

(96) Allora, ragazi, ste trezento ghinee? (p. 15)

(97) Finita la formasione academica, [...]. (p. 10)

 

Rohlfs attesta che il suono //, che si scrive gl nella lingua standard, si riduce a yod, /j/ (ROHLFS, 1966 : 397). Marco Franzoso scrive queste parole semplicemente con la j:

(98) “Forsa da qualche parte ho sbajato pure io…ma me la cavarò.” (p. 69)

 

Come si è visto in 3.2.1, la mancata anafonesi di /e/ a /i/ appartiene alla lingua arcaica non tosco-fiorentina, ma è sempre presente nel veneto moderno (61).

 

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Una /e/ seguita da una /r/ diventa una /a/ in parole come par (invece di per) e parché (invece di perché). Si tratta di un elemento veneto, che si ritrova anche in “I léori del socialismo” di Dino Coltro (si vede 2).

(99) [...], dalle profondità de quele acque che par secoli aveano semplizementa irigato le campagne circonvicine? (p. 51)

(100) Parché el problema dei viagi ne lo spazio l’è questo: el ritorno. (p. 14)

 

Nel Veneto si osserva anche una monotongazione dei dittonghi italiani (101) ed il nesso consonantico latino [KL] che si realizza /t/ (102) (si vede anche 2.2 della prima parte). Per il veronese poi si osserva il metaplasmo in (103) (cf. anche 2.2).

(101) [...], magari proprio nel novo ufficio, [...]

(102) Come te ciami, Edison? (p. 100)

(103) Vicino de casa eleganto68

 

Per quel che riguarda il lessico, ci sono alcuni elementi dialettali, ma non c’è la presenza di vere parole dialettali non trasparenti. Franzoso non usa parole come schei, che si ritrovano ad esempio ne “Il bosco veneziano” di Mazzocato (si vede 1). Per la parola italiana dove, si utilizza qui indove, una voce rara e dialettale secondo lo Zingarelli (104). La preposizione giù diventa zò (105) in dialetto veneto e la parola cosa o qualcosa diventa cossa o qualcossa (106) come nel veneto. Oltre queste voci dialettali, si osserva anche la presenza della forma anca tipicamente dialettale, variante della parola arcaica anco (76).

(104) E indove lavora? (p. 27)

(105) Tira zò, no? (p. 32)

(106) Ne venne fuori una specie de cossa tristissima, [...]. (p. 39)

 

68 Si potrebbe anche identificare questo tratto come popolare.

 

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3.2.3 Elementi di italiano popolare e lingua parlata

 

L’italiano popolare69 è in genere una varietà di lingua parlata, perciò è molto difficile fare una distinzione molto stretta tra queste due varietà di lingua. Si possono comunque isolare in questo romanzo alcuni tratti che vegono comunemente analizzati come tipici dell’italiano popolare.

Un primo tratto che si ritrova in vari autori (tra altri Sabatini [1990] e D’Achille [2003]), è l’aferesi, che appartiene sia alla lingua parlata che all’italiano popolare. Nel testo esaminato, l’aferesi è limitata alla parola italiana questo/a che diventa ‘sto/a:

(107) “Ancora ‘sto campanello del casso!…” (p. 26)

 

Un altro elemento tipico dell’italiano popolare è l’ipercorrettismo, a causa del voler parlare (e scrivere) bene, per non commettere errori. In “Edisol-M. Water Solubile”, si possono individuare alcuni ipercorrettismi (gli ipercorrettismi sono quasi sempre di natura fonetica: raddoppiamento consonantico (rispecchiato nella grafia) laddove non è necessario, come in 108 e 109):

(108) De gran fretta se diresse in cuccina: [...]. (p.25)

(109) “Me scussi” (p. 29)

 

Come già menzionato in 3.2.1, le forme noialtri/e e voialtri/e, appartengono alla lingua arcaica ed in parte anche al dialetto (in dialetto si usano tuttavia senza lo yod), ma vengono anche usate in contesto popolare. Si rinvia all’esempio (63).

Sul piano sintattico, la lingua si caratterizza dall’uso ridondante dei clitici (110) e (111) (MAIDEN, 1995 : 235), un tratto tipico dell’italiano parlato, e dunque anche dell’italiano popolare.

(110) [...] – a me m’ha fatto decidere che lui sarebe stato il mio unico maestro detèctive: [...]. (p. 18)

 

69 Per la discussione sull’italiano popolare si rinvia alla prima parte, 1.3.

 

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(111) Ma veramente me vuol multarme, Dotor Giudice? (p. 104)

 

Altre particolarità riguardano le perifrasi modali. Per esprimere un dovere, l’italiano popolare ricorre ad un’espressione del tipo ha da (112) (invece di deve ad esempio nell’italiano standard).

(112) El sesso, per un detèctive, soprattutto, ha da essere, preferibilmenta, sempre siccuro. (p. 15)

 

Parlando di italiano popolare, si menziona spesso la nozione di errore, come ad esempio circa l’uso delle preposizioni. Si tratta di un uso ‘sbagliato’ delle preposizioni come si vede in (113).

(113) Lasciate pasare pochi secondi e poi domandate da acendere con voce bassa e tenete la boca ocupata o la sigareta per qualche secondo. (p. 14)

 

Per quel che riguarda il lato lessicale, si ritrova l’uso della parola propio (114), che lo Zingarelli indica come popolare. Le interiezioni come Mah, Be’ e Ah (115) sono tipicamente della lingua parlata, e vengono trascritte qui per rafforzare l’aspetto dell’oralità.

(114) [...], e un ogetto pesante se schiantò propio davanti a la Chrysler. (p. 31)

(115) “ Non son io che se chiama Katia. No.” – “Ah.” (p. 65)

3.2.4 Neologismi e anglicismi

 

Marco Franzoso utilizza anche anglicismi, tratti soprattutto dalla sfera dei mass-media e da Internet, e alcuni neologismi, basati sulla forma ziocane. Come anglicismi si possono mettere in evidenza le parole zaping (con scempiamento consonantico, causato dall’influsso veneto), night, trance, ciberspazio e clone. I neologismi presenti nel libro sono di tipo zio[x], come in ziobilly, zioflour e ziofilm.

 

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(116) [...], quando se fa zaping col telecomando… (p.89)

(117) Ziocane, zioflour, ecetera, ecetera… (p. 107)

3.3 Le caratteristiche linguistiche dei personaggi70

 

Come il personaggio principale è Edisol e che gli altri personaggi non parlano quasi mai tra di loro, Edisol viene preso come punto focale in questa parte. Verranno messi in rilievo i discorsi di Edisol e le reazioni degli altri personaggi. Per capire la situazione, a volte è necessario leggere una parte più estesa del testo, per cui si rinvia all’appendice 4.

Si parlerà soltanto degli elementi che mostrano una variazione interessante dal punto di vista sociolinguistico, non è ad esempio necessario ripetere che ogni personaggio è caratterizzato dallo scempiamento consonantico. Si tratta dunque di vedere se vi sono differenze significative fra i vari personaggi e se tali differenze possono essere lette in chiave sociolinguistica. Questi elementi sono tra altri: l’uso dei pronomi allocutivi tu – voi – Lei – Lui71, la presenza del dittongo e le diverse forme per senza e anca.

3.3.1 Discorsi di Edisol in pubblico

 

All’inizio del libro si ritrovano i brani dell’insegnamento di Edisol. Si tratta di lezioni monologiche (senza risposte degli studenti). Più avanti nel libro, c’è un altro discorso di Edisol, rinvolto al Rettorato. Si prendono questi due brani insieme, perché appartengono alla stessa sfera situazionale: un discorso in pubblico. Questi due discorsi presentano alcuni tratti linguistici specifici che non sono attestati nelle altre conversazioni.

Prima di tutto si osserva il dittongo /w/ in buoni, mentre questo dittongo è assente quando Edisol parla al suo cliente, l’Omo de Peltro (3.3.2). Ma si deve anche mettere in

70 Si tratta dei personaggi più importanti nel libro: il personaggio principale, Edisol; il cliente, l’Omo de Peltro; il dottor Prete; Dania/Nadia/Katia; il Vicino de casa eleganto; Lorenza; Il Giudice Tònolo Romeo. Negli esempi sono tutti neretti miei.

71 Questo pronome allocutivo è un’invenzione da parte dell’autore.

 

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evidenza che il dittongo è assente in omo, nella lezione: “Il Maestro in cattedra n° 2: Uomini72 nelo spazio”. In questa situazione, Edisol vuole fare bella figura: un professore parla diversamente in cattedra da quando sta parlando con colleghi (si vede anche parte I, 1.5 e 2.3).

All’interno degli estratti delle lezioni di Edisol, si vede una variazione interessante circa le parole senza e anche. Quando il Maestro non è in cattedra, parla ancora diversamente: fuori cattedra, usa le forme standard senza e anche, mentre in cattedra utilizza le forme dialettali sensa73 e anca:

(118) Il Maestro filosofo in giro per la città, fumando un sigaro [...] Anche vestirse bene è la regola numero uno: [...]. Se siete vestito con un abito sartoriale che ve dà importansa, ma senza dare nell’occhio, [...]. A quel punto, voi fate finta de niente e non date spigazion sul preventivo anche se aprosimativo. (p. 14)

(119) Il Maestro in cattedra n° 1 [...] Ma se il passo più leggero è quello sensa bastón, il sparo più perfetto l’è quello sensa cannón! (p. 13)

 

Il discorso al Rettorato è più formale degli insegnamenti. In questo caso si ritrovano tratti che devono rendere il testo più aulico, accanto ad elementi più ‘bassi’. Si osserva ad esempio la presenza della /z/, che è più aulica della /s/: grazio (120) invece di grasio quando parla con l’Omo de Peltro (3.3.2). Un altro tratto aulico è la presenza di una /i/ dove non è necessario, come nella parola scienzie (121). Come negli estratti dalle lezioni di Edisol, si ritrova la forma dialettale/arcaica anca ma accanto a quella normale anche come usa fuori classe. Anche qui, Edisol parla davanti ad un pubblico, ma non ci sono estranei all’Università. Si tratta sempre di una sfera chiusa, si trova tra colleghi che l’ammirano.

(120) “Grazio ancora. Difidiamo, colleghi, amici e personalità del pubblico intervenute…Difidate…” (p. 56)

(121) “Intendéndose per scienzie umane: le culture zen, le politiche soziali, apunto, e el resto de l’insieme de tuti quei sport con implicazioni legate a de le forme financo sociali del pensiero orientale. (p. 55)

 

72 Qua si tratta di una variazione da parte del narratore.

73 In cattedra appare una sola volta la forma italiana, si tratta di un’eccezione.

 

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Alla fine del suo discorso Edisol è molto emozionato ed in questa situazione parla a se stesso, per cui la sua varietà è più marcata:

(122) “G’ho finìo” concluse. E una lagrima, de soppiatto, gli rigò el viso, e lui non fece nulla per nasconderla. Era tutto quanto belissimo!

 

L’espressione g’ho finìo è tipicamente dialettale74: quando una persona è emozionata, o arrabbiata, si esprime meglio in dialetto che in lingua standard. In questo caso, si tratta di una combinazione di due elementi: prima di tutto il fatto che Edisol non pronuncia questa frase davanti al pubblico, ma sta parlando a se stesso. Il secondo elemento è il fatto che a causa degli applausi, Edisol è molto emozionato (appendice: p. 56 del libro), per cui torna ad un’espressione più marcata.

3.3.2 Edisol e l’Omo de Peltro

 

L’Omo de Peltro è il cliente di Edisol. Ha bisogno del detective perché è scomparsa la sua Katia, una cantante in un nightclub. Si tratta di un primo incontro: il cliente va dal detective per chiedere il suo aiuto.

Il dialogo tra Edisol ed il suo cliente, è caratterizzato da elementi più marcati che in 3.3.1. Un primo tratto significativo è l’uso del pronome personale Lui come forma di cortesia (si vede anche 3.3.1). Siccome il cliente di Edisol è un uomo, viene usata una forma alternativa per Lei. La forma Lui non è dialettale, ma nemmeno italiano standard. La varietà costruita da Franzoso sfrutta anche qui lo standard, distaccandosi dallo stesso per motivi stilistici e linguistici. Inoltre l’Omo de Peltro non utilizza sempre lo stesso pronome: mischia Voi (cf. 3.2.2) e Lui e verso la fine del dialogo, usa anche il tu, una forma confidenziale. I pronomi potrebbero essere rappresentati come una gradazione dal più confidenziale al meno confidenziale: tu – Voi – Lei/Lui. Si vede anche l’accordo mancato tra il pronome ti ed il verbo vuole: il cliente mischia la forma per la cortesia ed il tu. Nell’italiano popolare (variazione diastratica), queste incongruenze sono molto frequenti. Un altro elemento dell’italiano popolare che si ritrova è l’ipercorrettismo scussi.

74 Si tratta di un’espressione tipicamente dialettale, ma non viene scritta a seconda le regole di Canepari (1984). In genere si ritrova quest’espressione scritta go finìo. In questo caso, affiora la /h/ della lingua standard in ho.

 

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Contrariamente a quello che accade nella parte “insegnamento”, il dittongo non è presente in questo dialogo di Edisol, anche se il cliente dice buonasera, il detective risponde semplicemente bona. Sempre in 3.3.1, è stata messa in evidenza la presenza della /z/ come elemento aulico. Tale /z/ non appare nel discorso con il cliente. Conviene tuttavia osservare che si tratta anche di un influsso dell’Omo de Peltro: il suono /t/ diventa /s/ nella varietà del cliente, mentre in quella di Edisol, diventa normalmente /z/. In questo dialogo si osserva la presenza della /s/ e non della /z/, causata dal cliente, che è il primo ad usare questa forma (123). Il linguaggio usato da Edisol stesso è quindi meno formale di quello usato dal cliente.

Nei discorsi all’Università, Edisol mescola le forme anca (dialetto) ed anche (italiano standard), ma parlando con il suo cliente, usa soltanto anca. L’Omo de Peltro non usa neanche la forma dell’italiano standard.

(123) Aprì senza domandare che era, e l’omo che gli stava davanti l’apostrofò: “Siete voi, Edisol-M. Water Solubile Flour?” poi puntò gli occhi con indiferenza su la targhetta de la porta. [...]

 

“Ah, sì” disse. “So’ io.”

“Buonasera, Edisol-M. Solubile Film.”

“Bòna.”

[...]

“Bene” disse incerto. “Cosa posso fare per lui?”

“Katia, una mea figa, è scomparsa, dotóre.”

“ Capisco. Venga dentro. S’acòmodi.”

[...]

“Non so” disse l’omo. “Vuole che me sieda su la sedia normale?”

[...]

“E sarebbe io, quel qualcheduno?”

“Sì” disse l’omo col cappelo nero, de peltro. “Sì, se ti vuole guadagnare duesentomila ghinee da mille.”

“Rimaniamo d’acordi per quattrosento, va bén?”

[...]

“Torone al pneumonium, Maestro, de la miglior marca.”

“Comunqua grasio lo stesso, cliente gentile. Anca se, magari… un’altra volta me le dia incartate, o no?…”

 

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“Me scussi.”

[...]75

All’inizio la varietà del cliente è meno marcata di quella usata da Edisol (cf. Buonasera vs. Bona), ma alla fine si vedono elementi popolari affiorare anche nel suo discorso (scussi – ti vuole). Edisol utilizza sempre lo stesso pronome di cortesia, Lui, mentre il cliente mischia i pronomi, altro tratto ‘popolare’ che illustra l’incertezza del codice linguistico. Più la situazione diventa confidenziale – cominciano a conoscersi un po’ – più appaiono elementi marcati in diastratia (tratti popolari).

3.3.3 Edisol e il dottor Prete

 

Edisol ed il ‘dottor Prete’ si conoscono da quando il detective era un ragazzino. Quando si incontrano dopo tanti anni, Edisol non riconosce subito il prete, mentre il prete lo riconosce a prima vista. E’ importante tenere presente questo fatto.

Parlando con il prete, Edisol utilizza prima il pronome di cortesia non-standard (inventato) Lui. Dal momento in cui sa che si tratta del prete che conosce, passa alla forma arcaica regionalmente marcata Voi. Ma non gli dà mai del tu, mentre il prete, che riconosce Edisol subito, usa sempre la seconda persona singolare. Anche l’appellativo che Edisol (e anche il narratore) usa nei confronti del prete: chiamandolo sempre “dottor Prete” installa volutamente una distanza, ma si distacca anche dagli appellativi normali riservati ai preti (don + nome) e ottiene un discorso marcato. Altri elementi marcati si ritrovano nella rappresentazione fonetica: non appare più la /s/ invece della /z/, derivata dal suono /t/, è sempre la forma con la /z/ che è presente in questo discorso. Anche la frase “Lui mi conoscie” mostra questo fatto: il pronome mi appare come in italiano standard, ed Edisol introduce la /i/ in conoscie, un tratto della lingua aulica/antica. Si osserva il rispetto del detective verso il personaggio del prete: lo scempiamento consonantico non appare mai parlando del prete, Edisol dice sempre dottor Prete e non dotor Prete. In più viene usata la forma anche e non anca come nel discorso all’Università e nel dialogo con il cliente. Non appare la forma

75 Per l’intera parte di Edisol ed il suo cliente, si rinvia all’appendice. (p. 26-29 del libro)

 

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dialettale cossa, ma cosa: “Cos’è che succede, qua?”(p. 31) – questi elementi indicano lo strato più standard della varietà di Edisol.

Da parte sua, il prete usa forme più marcate, anche perché è arrabbiato con il detective, perché questo non capisce che cosa sta accadendo. La rabbia del prete si esprime nel grido: “Tàse!”, tipicamente dialettale76.

(124) “Te pare un parcheggio, questo?” l’apostrofò el dottor Prete. “Eh, maledetto!”

 

“Maledetto?” disse lui, tutto stupito. “Ma dottor Prete, per un sémplize parchegio77?…”

[...]

“Ma non ti capisci mai nienta ti? Tal e qual a trentazinque anni fa!”

“Lui mi conoscie?” sbigottì Edisol-M. Solubile Film.

[...]

“Sì, santo Dio, io me ricordo! Voi siete don…”

“Tàse!” lo fulminò il dottor Prete, “ e leva ‘sta casso de macchina dal piazale, che stasera è una sera particolare par tutto el quartiere!”

[...]

“Guardi anche ella78!” insistette.

[...]79

Più tardi, Edisol si trova in un bar dove inizia una conversazione con Dania/Nadia/Katia (si vede anche 3.3.4). Nel momento in cui parla del ‘dottor Prete’, utilizza un linguaggio più aulico: usa la parola standard anche invece di anca (come negli estratti all’Università o negli scambi con l’Omo de Peltro). E’ importante per Edisol che si tratti del dottor Prete e non semplicemente del prete come dice Dania/Nadia/Katia, perché proprio nel sintagma “dottor Prete” lo scempiamento consonantico è assente, come è già stato notato. In più, si ritrova l’articolo definito standard il, che non appare spesso nel libro (la forma normale nel libro è il dialettale el) (125).

76 Anche se in dialetto dovrebbe essere tasi per la seconda persona singolare.

77 È l’unico caso in cui si presenta lo scempiamento consonantico nel discorso di Edisol, perciò si tratta di un’eccezione.

78 Ella è una forma altamente marcata.

79 Per il dialogo intero si rinvia all’appendice. (p. 31-34 del libro)

 

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3.3.4 Edisol, Dania/Nadia/Katia80 e Lorenza

 

Quando Edisol entra in un bar per chiedere se il barista conosce la ragazza scomparsa (Katia), incontra una donna. Il barista la presenta sotto il nome di Dania, ma dopo qualche frase la donna dice “Me chiamo Nadia”, ed alla fine della conversazione, dice di chiamarsi Katia.

La conversazione con Lorenza appartiene alla stessa sfera situazionale, perciò viene discussa in questa sede. Quando Edisol va a casa di Katia/Nadia/Dania, pensa di parlare con lei, ma si sbaglia: si tratta della sua sorella Lorenza. C’è sempre un po’ di confusione tra queste due donne, anche più tardi nella storia, quando Edisol pensa di parlare con Lorenza mentre si tratta di Katia.

Il primo incontro con Dania/Nadia/Katia è in un bar, un luogo dove normalmente non si parla una varietà normata come la lingua standard (sfera personale). Si ritrovano gli elementi dialettali come il raddoppiamento della /s/ in cossa e qualcossa, tipicamente veneto. Ad un certo momento, Edisol e Dania/Nadia/Katia parlano del prete. A questo punto, appaiono caratteristiche tipiche della conversazione con il prete (si veda anche 3.3.3). Dopo la parte sul prete, il discorso ricade nella varietà di prima: “Cossa te posso offirte”.

(125) “Ciau, Solubile” disse lei. “Ogi t’ho veduto in foto sul Gazetìn in compagnia de un prete. Chi l’è quello?” domandò. “El prete, entendo.”

 

“E’ il dottor Prete” rispose il detective. “Un brav’omo. Un teologo conosciuto anche en diversi ambiti dei Stati Confederati de Treviso, Vicenza e Feltre, ti può capirme?”

“Bevémo ‘na cossa ensieme, detective?” gli domandò a quel punto lei, faccendo cenno de sì con la testa.

“Cossa te posso offirte?” fece lu’. “Meza Moretti t’andrebbe?”

[...]

80 Siccome si tratta della stessa persona, non conviene fare una distinzione fra i nomi,così che risulta chiaro che si tratta della stessa persona.

 

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“Ancora sto rombo” sussurò il barman da le sopprazziglie verdastre. “Lo sentite voialtri?” Ma nessuno rispose. “Magari chiudemo la porta, eh, Nadia?” concluse el barista.

“Cossa vuoi che te cambia, barista, chiudendo una semplize porta?” diss’ela.

[...]

“Te sembra i romori che viene da un cantiere, esti qua?” gli disse la cantante de night. Anca la sua Moretti tremava nel calice. “Questi non è rumori ce viene da un cantiere.”

[...]

“Ti t’ha sentito!” fece il barman, trasalendo con i ochi. “Ti t’ha sentito ‘sto romore de sasso?”

[...] 81

La varietà usata da Dania/Nadia/Katia contiene elementi marcati come nell’esempio: bevémo (arcaismo/dialettismo), ‘na (aferesi, articolo dialettale) e cossa (parola veneta), ma anche elementi popolari (sovrabbondanza di pronomi, accordo mancato tra il soggetto e il verbo: “questi non è rumori che…”). Anche il discorso del barista comporta elementi dello stesso tipo: ‘sto (aferesi, lingua parlata), ti t’ha…(un’espressione mista italiano-dialetto82) e chiudemo (arcaismo/dialettismo).

Edisol va a casa di Katia per parlare con lei di tutto quello che è successo nei giorni precedenti. Apre la sorella gemella di Katia, Lorenza, ma Edisol non lo sa all’inizio. Il dialogo è per questo motivo subito confidenziale il detective dà del tu, perché scambia Lorenza per Katia/Dania/Nadia. Anche qua il suono /t/ si riduce a /z/ e non a /s/ come discusso in 3.3.2. Non mancano le forme dialettali cossa e qualcossa, contrariamente a quanto accade nel dialogo con il prete (3.3.2). In questa situazione, il detective usa l’articolo indefinito en invece di un, a causa dell’influsso di Lorenza. Come l’influsso dell’Omo de Peltro sulla varietà usata da Edisol (cf. 3.3.2 il caso del duesentomila), anche qui si osserva che Lorenza influisce sulla varietà parlata dal detective. Oltre a questa caratteristica generale,

81 Si rinvia all’appendice per l’intero dialogo. (p. 37-41 del libro)

82 Si osserva il ti come pronome soggetto forte ed il t’ soggetto clitico veneto, accanto alla forma verbale ha della lingua standard.

 

- 87 -

la varietà di Lorenza comporta un altro elemento tipico di lei83: il suono // si riduce a /s/ o /ss/, capise invece di capisce, preferissi invece di preferisci, sienza invece di scienza. Un tratto popolare si trova nel mancato accordo tra il soggetto e il verbo: “coss’è che ti vuole?”. Di solito, Lorenza dà del tu al detective, non usa mai la forma di cortesia parlando con lui. Gli influssi dialettali sono molto forti nel discorso di Lorenza, la sua varietà è ad esempio più marcata di quella di Edisol. La caduta della /t/ intervocalica nel participio passato84, o addirittura, la caduta dell’ultima sillaba del participio passato sono elementi dialettali (lascia’, venùo). Anche la /v/ intervocalica che cade nell’indicativo imperfetto appartiene a questo gruppo di dialettismi (avéo).

(126) “So’ un amico, Katia, apre, su… Che vado de fretta…dai.”

 

[...]

“Parlémo un atimino e bevemo una cossa. Nient’altri…apre…su…”

“Oh” disse la voze.

[...]

“Grazio de l’acoglienza” fece loi educato. “Grazio tante, Katia, ma non dovevi. Non preocuparte.”

“Vuoi darme el capotto, intanto?”

“Sei molto zentile, Katia”.

“Sì” disse lei. “Anca se, tesoro, io non capise, perché t’ostini a chiamarme col nome de mea sorella…” Gli sfilò el capotto e fece un complimento a la soa giachetta co le tasche a toppa e basta.

“Toa sorella?…” disse loi85.

“Ma non m’ofendo, no. Intantu se acomoda, su. Cossa te ofro: en wiski pol andar ben? O preferissi en gin lemon? Tanto par scaldare l’ambienta, no?”

[...]

“Ma …siete identica, voe doe!”

“A la foto?”

“Eh”

“Praticamenta, sì.”

“Sei forse…scussa…anche tu en clone?”

83 Questo tratto è assente dagli altri personaggi tranne il Giudice Tonòlo Romeo (si vede 3.3.6).

84 Prima avviene una sonorizzazione in /d/ che poi cade.

85 La forma loi per lui è un’altra invenzione dall’autore stesso.

 

- 88 -

[...]86

(127) “Parché lasci la porta aperta?” disse loi. [Edisol]

 

“Non l’avéo lascia’ aperta” disse ella. “Me se son rotte le serrature, ziocane. Coss’è…” continuò spojàndose par motivi de lavoro, “coss’è che ti vuole ancora da mi, Edisol-M. Water Solubile Water Flour? Son stanca, ora. Làssame sola… o non sei venùo per la seconda rata?” (p. 83)

3.3.5 Edisol e il Vicino de casa eleganto87

 

La relazione tra vicini è spesso ambigua: da un lato si conoscono, ma da un altro lato non si conoscono affatto. Ci sono casi in cui i vicini non si parlano quasi mai, ma ce ne sono anche in cui i vicini diventano amici veri e propri. Nel caso di Edisol ed il suo “Vicino de casa eleganto”, il detective dà prima del tu, mai poi mischia con il Lui. Il vicino da sua parte, usa sempre il Lui, forma di cortesia non-standard. I due non sembrano conoscersi bene, ma si trovano in una situazione di pericolo che si apre di più ad elementi marcati.

Non manca l’influsso popolare della ridondanza dei clitici nel discorso di Edisol (ti t’ha sentito), usa sempre la parola arcaica/dialettale anca, ed affiora il veneto nelle parole cossa e qualcossa. In questa situazione, si trova anche ‘un’eccezione’ quando parla del dotor Prete e non del dottor Prete. E’ l’unico caso in cui si vede lo scempiamento consonantico in dottor (sempre nella varietà di Edisol). Dal momento in cui il detective parla del suo lavoro, la lingua diventa più aulica: affiora il Lui di cortesia substandard, il mi come pronome oggetto invece di me e la presenza della /i/ dove non è richiesta (capiscie).

Nel discorso del “Vicino de casa eleganto” affiorano anche elementi marcati: la parola veneta cossa, la caduta della /t/ intervocalica del participio passato (stào) e lo scempiamento consonantico in dotore sono tratti dialettali. Ma c’è anche un influsso popolare che si vede nel mancato accordo tra il soggetto ed il verbo88.

86 Per l’intera conversazione si rinvia all’appendice. (p. 64-66 del libro)

87 La parola eleganto appartiene alla lingua popolare: si osserva una generalizzazione degli aggetivi in –o e in –a, accanto alla sparizione delle forme in –e.

88 Con alcuni verbi si tratta di un elemento tipico veneziano.

 

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(128) “Ti t’ha sentito che roba, vicino de casa eleganto?” Il tipo se petinava i capéi con le man e non se decideva a respóndergli nienta. “Eh?” ensisté il Solubile Water. “Visti che roba, qua? Stia atenti anca lui, vicino eleganto, poiché tuta la facciata de la casa è pericolante oramàe.”

 

“Cos’era89 quei gran spari poc’anzio?” domandòe il vicino elegànto, mostrando un po’ d’atenzión par la prima volta da quand’era riuscito a scampare al crollo de la sóa stessa casa.

[...]

“Ho sentuto anch’io sta storia” ammise el vicino de casa scampato a la morte. “Ne parla tuti i giornàl. De cossa se tratta, lui lo sa?” “De sta storia dei meteoriti intendo…” “Me dica, Maestro…” “Che storia l’è?”

“Me dispiace, ma se anca sapessi qualcossa non potrei rivelarla” rispose el detective. “Segreto professional, lui mi capiscie…”

“Certi. Allora el suo punto de vista privato!” “El suo punto de vista umano, dotore…”90

3.3.6 Edisol e la giustizia

 

Edisol prende in prestito la macchina di Lorenza ed esce. Riceve l’ordine della vigilessa di fermarsi, perché andava troppo veloce. Dopo un controllo la vigilessa trova un’arma nella macchina, ed è costretta a portare Edisol dal giudice Tònolo Romeo che conosce Edisol sin da quando il detective si è laureato.

Prima di tutto, Edisol utilizza sempre il pronome di cortesia Lei durante la conversazione con la vigilessa. In questo caso si tratta di una donna, dunque non appare la forma alternativa Lui. La vigilessa da parte sua dà del tu e del Lei, ma nel suo discorso appaiono elementi marcati: l’influsso dialettale in cossa e qualcossa, zerca invece di cerca, e la caduta della /v/ intervocalica nell’indicativo imperfetto. Non mancano nemmeno i tratti arcaici/dialettali come anca e la forma antica/dialettale dell’indicativo presente prima persona

89 Nel caso di era, potrebbe anche essere un influsso del veneto xera che non fa la distinzione tra singolare e plurale.

90 Per il dialogo intero, si rinvia all’appendice. (p. 45-46 del libro)

 

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singolare in –emo (avémo). Il raddoppiamento consonantico in cossì, ipercorrettismo, è tipicamente popolare. Dato che la vigilessa non parla molto con il giudice, è difficile individuare differenze tra la varietà che lei usa con il detective e quella usata con il suo capo. Intervengono tuttavia rapporti di gerarchia: la vigilessa dà del Lei al giudice, questo invece dà subito del tu e non cura la sua lingua tranne quando viene alla sentenza.

(129) “Intanto vol metter le quatro frece, per favore?”

 

“E’ che non so dov’è el tasto. Non lo trovo…Lei non sa per caso… La Panda non l’è mia…”

“Ehi” se blocò la guardia. “Ehi, amico! Te l’ha insegnato nissuno che non se risponde a na domanda co n’altra domanda?”

“Porca puttana!”

“Cossa?”

La varietà di lingua usata da Edisol in questa situazione è caratterizzata dallo scempiamento consonantico in dotor, contrariamente alla situazione con il prete. Negli scambi con il prete o sul prete, questa variazione non appare; nel caso del giudice invece, Edisol applica lo scempiamento tipico veneto anche al titolo dotore. Affiorano sempre gli elementi dialettali (cossa, omo e zinquanta) accanto a tratti arcaici/dialettali come anca e l’influsso popolare nell’ipercorrettismo scussa. Edisol dà del tu al Giudice (si conoscono), tranne quando questo pronuncia la sentenza. Da ciò si potrebbe desumere che Edisol ha una maggiore stima per il prete che per il giudice (che conosce meglio e con il quale è forse anche coetaneo). Si tratta anche della confidenzialità: per Edisol una conversazione con il giudice è più confidenziale che con il prete.

Il giudice mischia sempre il tu, il Lei ed il Voi, ma quando pronuncia la sentenza, si tiene al Lei. Nel suo discorso si osserva la riduzione del // a /s/ come in quello di Lorenza (3.3.4). La /s/ viene considerata meno aulica della /z/, ma il giudice usa la forma ragassa dove interviene semplicemente lo scempiamento consonantico come da Edisol (che dice ragaza). Anche il raddoppiamento consonantico popolare è presente nella parola cossì. Un ultimo tratto importante è la forma normale centodiecimila quando pronuncia la sentenza e non interviene l’influsso dialettale che riduce la /t/ a /z/.

 

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(130) “Entrate, entrate” disse. Poi, a la Vigilessa, più serio e profesionàl: “Bóna sera, Fabiana. Venga drento anca lù, non facia complimenta, su.”

 

[...]

“Intanto metiamoci comodi, se parla meglio seduti, no? Ma veniamo a noi…alora, imputato, se alzi e se faccia una domanda a piazere e poi se risponda, su.”

“Come na domanda a piazere, Dotor Giudice?”

“Na domanda a piazere, su.”

“Na domanda a caso?”

“Sì. Ma giuri de dire la verità, tuta la verità, nient’altro che la verità.”

“Certaménta.”

“Ti devi dire ‘lo giuro’ e basta, Edison91.”

“Lo giuro e basta, Edison.”

“Oh bravo. Come te ciami, Edison?”

“Ti lo sae, dai…”

[...]

“Alori l’è falsissimi, ziocàne! Lei me puó credar! Un omo come mi… nea trata dele bianche! Ma andiamo…m’ho fatto prestare la machina da n’amica, è veri. La vigilessa vuol fare carriera ai miei danni, eco cossa, Dotor Giudice! Era solo n’ amica..”

[...]

“Insomma” disse el Giudice, “l’imputato l’ammette. L’ecesso de velocità ce sta tuto.”

“Andavo ai zinquanta sì e no!”

“Ho capìo… Ho capìo…Ma el limite, benedéto, era de quaranta. Non faciamo polemica, a st’ora dea notte. Lei me deve centodiecimila ghinee, su.”

[...]

“Distreto de Venezia Est, Dotor Giudice. Circondariato de Chioggia.”

“Circondariato de Chioggia? Ti t’è del Circondariato de Chioggia? Sul serio?” gli domandò el Giudice coi ochi che brillava. “Ho passa’ i primi anni, laggiù a Chioggia…”

91 Il giudice dice sempre Edison e non Edisol. Si tratta probabilmente di un’invenzione dell’autore.

 

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“Lo vede Dotor Giudice che non mentisco92!”

“…El Circondariato de Chioggia” insistette el Giudice. “Par ieri, e inveze è passati trent’anni. Me ricordo anca d’una ragassa, sapete?, una gran bela ragassa. Se chiamava Marisa Colasanti. Una biondina, alta alta. Me arivava più o meno qua.”

(131) “Lassa stare i vecchi sogni nel cassetto, Edison, che quei non porta da nisuna parte. Scolta me” disse el Giudice Romeo come en padre. “Scolta me, su…e a proposito de marmi e pietre, appoggia piano el sassa che nascondi nea tasca, Edison. Scolta me, fa el bravo. Che ste cosse non porta mai da nissuna parte. Non credi?”

 

“El sasso?”

Non fu solo perché pensò a domande fatte dopo domande che capì che queo non era più el momento de scherzare. E che la cossa migliore da fare, adesso, era lassare el sasso sul tavolo e non pensare a gnenta.

Cossì fece.

En atimo dopo tornò coi occhi zò, a perlustrare le venature del marmo antico.

El Giudice gli si avicinò e gli fece una careza tra i capelli.

“Bene” concluse, “bravo. Ora rilassiamoci un atimino davanti a un tea… O piuttosto non preferite una Moretti, Edison?”

“Moretti” fece come un ventriloquo el detective.

“Le birre è in frigo. Fai te?” disse l’altro. “…E porta anche del torone. Grazio.”93

3.3.7 La lettera al cliente

 

Alla fine, quando Edisol ha risolto il caso, scrive una lettera al cliente, l’Omo de Peltro, senza sapere se questo è ancora vivo o no. Questa lettera è molto interessante dal punto

92 Mentisco è una forma popolare non standard.

93 Per la conversazione intera, si rinvia all’appendice. (p. 96-106 nel libro).

 

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di vista linguistico: se la lingua scritta è solitamente più curata della lingua parlata, in questa lettera si ritrovano elementi che non appartengono per niente allo scritto.

È stato menzionato l’influsso dell’Omo de Peltro sulla varietà di Edisol in 3.3.2, la presenza della /s/ invece della /z/. Nella lettera Edisol scrive tuttavia grazio e non grasio come durante il primo incontro tra i due. Gli influssi dialettali sono sempre presenti: cosse, capìo (la caduta della /t/ intervocalica), voléa (la caduta della /v/ intervocalica). Per la prima volta, si osserva la riduzione di // a /s/ in capise (si ricorda questo elemento nelle varietà di Lorenza e del Dotor Giudice). La frase “Mi par mi sto ben, grazio” è molto lontana dalla lingua standard, è tipicamente dialettale. Non manca nemmeno un tratto dell’italiano popolare, il raddoppiamento consonantico (cossì) che non appare in altri discorsi del detective. Invece di usare il Lui come durante il primo incontro, Edisol dà del Voi. Come si è spiegato in 3.3.2, il Voi si trova tra il Lei/Lui ed il tu nella gerarchia: Edisol conosce il cliente, ma non né è diventato amico, perciò non gli dà del tu. Ma conviene fare un’osservazione: alla fine della lettera scrive “A rivederlo”. Si tratta di un clitico della terza persona singolare, e nel caso del Lei si direbbe “ArrivederLa”, ma come il cliente è un uomo, Edisol usa una forma alternativa maschile. In questo caso, ricade nell’uso del Lei/Lui come forma di cortesia.

(132) Gentile cliento94,

 

c’era poca zenta per istrada, sta sera. Meglio ho pensato, meglio. Con poca zente intorno se fa prima e se lavora de più. No?

Èccoce ancora qua, insomma, Dotor De’ Peltro. A chiudere el caso.

Ma, intanto, voi come state?

State ben?

Mi par mi sto ben, grazio.

Scusàteme l’intrusione se siete ancora vivi, certo, sì… Poiché se siete morto….ziofilm!, se siete morto me dispiace tanto e colgo l’ocasione de farvi le condoglianse mie e dei miei collaboratori anca a tutta la sua famiglia.

[...]

E poi infatti l’ho anca trovato el legame. Ma a quel punto non sapevo più a chi dirlo, me capise?

L’è andata cossì: io ho perso. E i altri ha vinto.

94 Cliento appartiene ala lingua substandard/popolare.

 

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Ora, non che me aspeto aiuti da voi, Dotor De’ Peltro, che forse siete anca morto.

Non me aspetto nienta… ma se avete voglia e siete vivo, rispondete. Fate un gesto de cortesia da cliento gentile. Mostrateme la vostra umanità…

E passate a salutarme se avete voglia, un giorno. Anca solo per una Moretti. Che quella fa sempre bene. Sensa più pensare a le ghinee che ancora me dovete che io ve devo. Non so?

A rivederlo, Dotor De’ Peltro. A rivederlo e, stàteme bene.95

95 Per l’intera lettera, si rinvia all’appendice. (p.116-118 del libro)

 

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3.4 Riflessioni finali

 

In questo libro, Marco Franzoso utilizza in genere una varietà di lingua che è composta di vari elementi: appaiono dialettismi, arcaismi, popolarismi, neologismi ed anglicismi. Il narratore usa la stessa varietà dei personaggi della storia, ma i personaggi presentano differenze tra di loro, come si è visto in 3.3. È molto difficile determinare di quale varietà si tratta in questo caso: mischia elementi di vari contesti linguistici, non si tratta veramente del dialetto, ma nemmeno di un italiano regionale o addirittura di un italiano standard. Non è una varietà ‘pura’ che utilizza per scrivere il libro, rimane sempre un codice mistilingue.

Franzoso crea una sua varietà, si tratta di una costruzione per la quale lo scrittore usa elementi di vari tipi. Prima di tutto usa elementi dialettali che non urtano la lettura del lettore medio: la grafia rimane trasparente, perché l’autore non usa la grafia ‘linguistica’ proposta da Canepari (1984) per rendere i suoni veneti. Franzoso si trova però davanti ad un problema grafico per rendere l’oralità che ritiene talmente importante, come lo scrittore stesso ha indicato nella comunicazione personale. Prova a rendere questi suoni e questo ritmo veneto mettendo accenti grafici dove non sono richiesti dalla norma. Oltre questi elementi dialettali lo scrittore padovano prende anche elementi standard, ma questi vengono spesso modificati (come lo scempiamento consonantico) ed alterati (si pensa ai vari metaplasmi morfologici) in base ai bisogni sociolinguistici diversi. Il risultato di questa ‘polifonia linguistica’ è una varietà di lingua che rispecchia la non sempre completa aderenza ad un codice – in particolare da parte di parlanti nativi. Questo linguaggio costruito da Franzoso rende meglio la situazione linguistica del plurilinguismo, attestata nelle comunicazioni reali nelle quali l’uso stretto di un solo codice (lingua o dialetto) è molto spesso compromesso.

Altro ‘vantaggio’ – se così si può dire – è che tale procedura rende il libro anche più leggibile per lettori stranieri o non veneti: le forme dialettali sono travestite e/o appurate; le forme dello standard alterate e/o rimodellate su modelli più antichi.

Franzoso gioca anche sull’ambiguità e sulla confusione, sia sul piano linguistico sia su quello del contenuto. Per il piano linguistico si pensa all’ambiguità delle forme che fanno parte sia della lingua antica sia del dialetto veneto moderno. La confusione tra i personaggi Dania/Nadia/Katia è un esempio del lato testuale.

 

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Il personaggio prinicipale, il detective Edisol, è il più interessante nell’analisi, perché parla con persone diverse, spesso in situazioni diverse. Il suo linguaggio cambia a seconda della situazione e a seconda della persona con cui sta parlando. Come è stato menzionato, c’è un influsso linguistico da parte del suo cliente l’Omo de Peltro e di Lorenza sulla sua varietà usata. L’uso delle forme di cortesia è un fatto importante che indica se si tratta di una conversazione piuttosto formale o informale. Nella maggior parte, si tratta di elementi di dialoghi, perché sono le situazioni più naturali nella realtà. Alla fine del libro, Edisol scrive una lettera nella quale appaiono gli stessi elementi della sua varietà parlata. Questa lettera non appartiene alla sfera informale e di solito le lettere a clienti vengono sottoposti ad una norma (dello scritto) molto rigida. Si vede chiaramente, che Edisol usa una varietà più marcata da elementi dialettali, arcaici e popolari nei casi in cui i discorsi sono di tipo informale. Questo fatto corrisponde alla teoria della sociolinguistica, la quale indica che il dialetto è ormai limitato alla sfera personale, come risulta anche dai dati delle inchieste DOXA (parte prima, 2.3). Si deve fare una piccola osservazione per quel che riguarda la varietà di Edisol: anche se non conosce una persona, come il cliente, non usa mai lo standard. In questo caso la varietà non standard non appartiene soltanto alla sfera personale ed informale, perché subentrano elementi marcati che non dovrebbero essere presenti in una situazione simile.

Dalle descrizioni sociolinguistiche del Veneto risulta che esiste ancora un grande gruppo di dialettofono e di parlanti che alternano i due codici (lingua e dialetto). La presenza del dialetto è sempre sentita come molto forte e non si limita soltanto alla sfera personale o informale, il che si vede anche nella varietà di Edisol quando parla con il cliente che non conosce ancora. Questa presenza dialettale in Veneto è spesso più legata a fattori di prestigio, di origine e di età che non a fattori come la classe sociale, il contesto situazionale o diafasico. Questo fatto viene anche illustrato da Edisol e gli altri personaggi: la varietà di Edisol è quasi uguale a quella di Dania/Nadia/Katia o del barista che non appartengono alla stessa classe sociale.

Gli altri personaggi presentano a volte gli stessi elementi nei loro discorsi, ma appaiono anche elementi propri a questi personaggi, come la riduzione di // a /ss/ nella varietà di Lorenza e del Giudice.

All’interno del romanzo non ci sono grandi variazioni, i personaggi adottano sempre questa specie di varietà intermedia ‘costruita’ da Franzoso. L’interferenza tra i vari codici (il

 

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codice lingua e quello dialettale) è organica: non si tratta di una commutazione di codice, perché si tratta semplicemente di una mescolanza diretta di codici diversi. Il discorso potrebbe dunque essere indicato come ‘monolingue’.

Sotto si presenteranno due tabelle per riassumere e mostrare chiaramente le differenze tra i vari personaggi e la variazione all’interno del discorso di Edisol stesso. Si vede che il detective adatta la sua varietà alla situazione.

 

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Tabella 2: gli elementi della varietà di Edisol nelle situazioni diverse

Edisol
in pubblico

Con
l’Omo de Peltro

Con
il prete

Con
Dania
ecc.

Con
Lorenza

Con
il Vicino de casa eleganto

Con
la vigilessa

Con
il Giudice Tonolò

Nella
lettera

dittongo /w/ ≠ ditt. /w/ ≠ ditt. /w/
sensa/ancasenza/

 

 

anche

(fuori)ancaancheancaanca/z/ grazio/s/ grasio/z//i/ aulico/i/ aulicoLui cortesiaLui/Voitu/LuiLeitu/LuiVoimi(stand.)≠ sc dottorsc dotor/ss/ cossa/ss/ cossa/ss/ cossa/ss/ cossa/ss/ cossa/t/ › /z/// › /s/en(art.)scussa (ipercor.)cossì

 

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Tabella 3: gli elementi della varietà degli altri personaggi

Omo de Peltro

Il prete

Dania/ecc.

Lorenza

Vicino de casa eleganto

Vigilessa

Giudice Tonolò

Voi/Lui/tu tu tu tu/Lei tu/Lei/voi
scussi (ipercor.) cossa cossa cossì / cossa cossì
/t/ › /s/ tàse(dial.) // › /s/ o /ss/ // › /s/
-emo(imperf.) -/v/- › Ø(imperf.) -emo(imperf.)

-/v/- › Ø

(imperf.)‘naen(art. indef.)accordo mancatoaccordo mancato-/t/- › Ø(part.pas.)-/t/-› Ø(part. pas.)anca

 

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IV Conclusione

 

In questa tesi di laurea sono stati esaminati la forma e l’uso del dialetto nella letteratura contemporanea veneta. Sono stati scelti tre romanzi di scrittori veneti: “Il bosco veneziano” di Gian Domenico Mazzocato, “I léori del socialismo” di Dino Coltro e “Edisol M.-Water Solubile” di Marco Franzoso. Prima di poter iniziare le analisi (socio)linguistiche si è data una panoramica della situazione linguistica in Italia, poi in Veneto e finalmente anche della letteratura dialettale veneta.

Il primo capitolo della parte teorica ha messo in rilievo la storia particolare della lingua italiana che deriva dal dialetto tosco-fiorentino del ‘300. Questa particolarità italiana è molto importante per lo sviluppo della lingua ‘nazionale’ e per il mantenimento del dialetto locale. Con l’arrivo della radio e della TV è diventato necessario avere una lingua unitaria per tutto il paese in tale modo che fosse possibile per un napoletano capire un uomo politico piemontese in un’intervista alla radio per esempio. Ma anche prima c’era il bisogno di avere una varietà di lingua oltre il dialetto per la comunicazione tra vari paesini o varie città per il commercio ad esempio (la creazione di koinè regionali).

Poi si è discusso quali varietà di lingua esistono all’interno del territorio italiano e com’è composto il repertorio linguistico italiano. Il contatto linguistico può provocare interferenze o commutazioni di codice, ma si vedono anche prestiti che entrano nella lingua italiana. Lo status del dialetto e della lingua italiana standard è stato messo in rilievo per tutta la penisola italiana, senza entrare nei dettagli delle regioni individuali che presentano differenze notevoli tra di loro. Alla fine del capitolo si è viste le analisi di Gaetano Berruto e di Carla Marcato per il futuro del dialetto. Tutti e due indicano una diminuzione dell’uso e della conoscenza del dialetto stretto mentre più persone parleranno un italiano regionale. La lingua standard diventa la lingua del prestigio e non più il dialetto locale, ma non c’è (quasi) nessuno che ha l’italiano standard come madrelingua. Chi parla l’italiano standard e ha una pronuncia standard non regionalmente marcata l’ha dovuta imparare per motivi di lavoro ad esempio (come i presentatori alla radio o alla TV, gli attori, ecc.).

Nel secondo capitolo della parte teorica si è vista la situazione linguistica della regione veneta. Siccome gli autori sono veneti ed il Veneto conosce uno sviluppo particolare del

 

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dialetto, è interessante vedere qual è lo status del dialetto e della lingua standard in questa regione della penisola italiana.

Prima di tutto si è visto che il Veneto geografico non corrisponde al Veneto linguistico. Il Veneto fu l’ultima regione ad arrendersi all’Italia. E’ rimasta indipendente per molto tempo ed aveva il suo dialetto come lingua ufficiale. La Serenissima, ovvero la Repubblica di Venezia, ebbe un prestigio enorme per cui anche Trieste ha preso il dialetto veneto come esempio da seguire anche se appartiene geograficamente al Friuli Venezia Giulia. Si osservano elementi dialettali veneti nel dialetto triestino, ma anche altre città che ormai non appartengono più all’Italia mostrano influssi veneti a causa del prestigio enorme della regione.

In Veneto si vede una dialettofonia molto forte, sempre a causa del prestigio del codice dialetto rispetto alla lingua standard. Dalle inchieste DOXA risulta che nella regione veneta più persone conoscono e parlano ancora il dialetto, mentre nella penisola italiana il tasso della dialettofonia sta diminuendo molto più velocemente. Si è anche visto che all’interno del Veneto c’è una diversità tra i vari dialetti: il veronese presenta tratti diversi dal padovano o dal veneziano. Ma anche qui rimane importante la nozione di prestigio, ci sono elementi veneziani che entrano negli altri dialetti a causa del prestigio di Venezia e di conseguenza anche del dialetto veneziano.

Il terzo – e ultimo – capitolo della prima parte parla della letteratura in dialetto, perché la letteratura in dialetto veneto è sempre stata molto importante e tutti conoscono scrittori come Goldoni che scrisse teatro in dialetto. Prima di tutto si è data una panoramica della poesia dialettale, un genere letterario che esiste già dal ‘500 secolo. In questo secolo Angelo Beolco ovvero il Ruz(z)ante fu molto importante e scrisse poesia in dialetto (anche se Beolco è noto soprattutto come autore di teatro). Ma anche oggi si scrive ancora poesia in dialetto veneto, si pensa per esempio a Zanzotto.

Oltre la poesia dialettale, fu anche molto importante il teatro in dialetto. Siccome il teatro è un genere letterario che lavora sulla lingua parlata (non viene scritto per essere letto, ma per essere rappresentato, sentito), è molto usuale includere il dialetto. Lo scrittore più importante per il teatro veneto fu Carlo Goldoni, celeberrimo non solo in tutto il paese italiano, ma anche nel mondo intero.

Finalmente si è vista la narrativa dialettale dal 1945 in poi – dopo la seconda guerra mondiale. Siccome la narrativa è un genere letterario abbastanza recente, c’è un numero limitato di romanzi in dialetto. Bisogna anche tener in mente che adesso è difficile scrivere in

 

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dialetto se si vuole vendere un libro in tutta la penisola italiana, perché un siciliano dialettofono capirà molto difficilmente un libro scritto in dialetto lombardo. Questo fatto non impedisce certi autori di usare il dialetto per un libro intero, o parzialmente come si è visto nelle analisi dei tre scrittori scelti.

La seconda parte di questo lavoro è composta dalle analisi (socio)linguistiche dei tre autori. In primo luogo Gian Domenico Mazzocato e “Il bosco veneziano” per poi passare a Dino Coltro e i due capitoli de “I léori del socialismo” (“Le scarpe rosse” e “Tra una guerra e l’altra”) e poi concludere questa parte con l’analisi di Marco Franzoso e “Edisol M.-Water Solubile”.

Dopo una piccola introduzione al libro stesso di Mazzocato, si è visto in quale modo appare il dialetto veneto ne “Il bosco veneziano”. In genere, le parole o frasi in dialetto vengono messe in corsivo, ma appaiono anche parole non-standard che non sono state messe in evidenza. Secondo Mazzocato non pongono un problema di lettura per i veneti, ma da una piccola inchiesta risulta che queste parole non sono così trasparenti per un lettore medio veneto. Mazzocato usa il modello grafico proposto da Canepari (1984), come si vede nella trascrizione dialettale xé. Il dialetto stretto appare esclusivamente nei discorsi diretti e mai nella narrazione stessa. Si tratta sempre di una conversazione o di pensieri di personaggi veneti ed appartengono alla sfera informale.

Mazzocato usa tre varietà nel suo libro: prima di tutto l’italiano standard – anche se appaiono parole non-standard – poi il dialetto veneto; la terza varietà di lingua è il portoghese. La famiglia della storia va in Brasile per cui lo scrittore trevigiano ha anche incluso parole portoghesi. Queste parole – che come il dialetto non appartengono alla lingua standard – sono messe in corsivo ogni volta che appaiono.

Per riassumere l’uso del codice dialetto ne “Il bosco veneziano”, si potrebbe dire che i discorsi diretti sono scritti in dialetto, ma sono sempre messi in corsivo, il che facilita la lettura e l’identificazione dei due codici più importanti nel testo (la lingua italiana standard ed il dialetto). Questi dialoghi appartengono sempre alla sfera confidenziale, informale come in famiglia, tra amici, con il prete, in un’osteria o nei pensieri dei personaggi veneti. Si tratta piuttosto di un uso prototipico del dialetto. Non si può dimenticare che Mazzocato include anche parole venete nella narrazione (non in corsivo) – che si sviluppa di solito in lingua standard – ed il portoghese che viene indicato graficamente in corsivo.

 

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Il secondo capitolo parla di Dino Coltro ed del suo uso del dialetto in due capitoli de “I léori del socialismo”. Si è fatto il confronto tra il capitolo “Le scarpe rosse” e “Tra una guerra e l’altra”, perché l’ultimo è stato inserito solo nell’ultima edizione del 2000.

Prima di tutto si osservano le ‘deviazioni’ rispetto alla lingua standard ne “Le scarpe rosse”, ma si deve anche tener conto della voce parlante e dei discorsi diretti. Ci sono caratteristiche generali del dialetto che appaiono ogni volta, sia nella narrazione sia nei discorsi diretti. Sono elementi che appartengono al dialetto veneto, ma non pongono veramente un problema di lettura, il lettore capisce abbastanza presto quali sono i termini in lingua standard. Coltro dà una spiegazione o una traduzione del lessico dialettale in piè di pagina per migliorare la comprensione del testo. Oltre gli elementi dialettali, ci sono anche tratti regionali di tipo lessicale come si ritiene la parola moroso/a/i/e. Nei discorsi diretti si osservano differenze tra i vari personaggi del capitolo.

Confrontando “Le scarpe rosse” con il capitolo precedente “Tra una guerra e l’altra” si vede che quello che è stato inserito solo nel 2000 presenta un numero più limitato di elementi dialettali e regionali. Ci sono sempre alcuni elementi ma non sono più così frequenti, ciò viene mostrata dalla Tabella 1 nella quale è stata inserita la percentuale delle forme in lingua standard (il minimo è del 73%). Però appare anche la parola regionale moroso/a/i/e come nel capitolo che segue, “Tra una guerra e l’altra”.

L’ultimo capitolo tratta la varietà usata da Marco Franzoso nel suo libro “Edisol M.-Water Solubile”. Si è visto che la varietà si definisce molto difficilmente e per questa varietà non esiste forse nemmeno un termine adeguato. Ma si può sicuramente dire che non si tratta mai dell’italiano standard né del dialetto veneto stretto (lessicalmente rimane molto vicino all’italiano standard), Franzoso scrive sempre in una specie di varietà di lingua intermedia. Si trova tra la lingua italiana standard ed il codice dialetto. La percezione di questa varietà è diversa nelle diverse regioni: in Veneto la gente non percepisce la varietà di lingua come dialettale mentre in altre regioni la gente dice che si tratta di un libro scritto in dialetto.

L’analisi è stata suddivisa in due parti, la prima parte, quella generale, nella quale sono state trattate le caratteristiche generali e la seconda parte nella quale si è fatta la distinzione tra i personaggi e le situazioni comunicative. Le caratteristiche generali sono composte da elementi che provengono da domini diversi: ci sono arcaismi veri e propri, arcaismi rispetto alla lingua standard ma dialettismi moderni, dialettismi veri e propri, neologismi ed anglicismi ed elementi che vengono dalla lingua parlata o dall’italiano popolare. Per capire

 

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meglio la situazione comunicativa e l’ambiente è stato necessario includere estratti del libro nell’appendice per migliorare la comprensione di questo lavoro.

Si è preso Edisol, il personaggio principale, come punto di riferimento perché è l’unico che parla con tutti gli altri personaggi. Le conversazioni tra gli altri personaggi sono troppo brevi per essere significative, per cui si è sempre ripreso Edisol nelle varie situazioni comunicative. La varietà di Edisol presenta differenze a seconda della situazione comunicativa, il che si rispecchia molto bene nell’uso dei pronomi di cortesia (Lei/Lui – Voi) o il mancato uso di pronomi di cortesia (tu). Questo non significa che Edisol usa la lingua italiana standard in situazioni formali. Non appare mai l’italiano standard né nella narrazione né nei discorsi dei vari personaggi. Ci sono anche personaggi che mostrano i propri elementi tipici che non si osservano nella varietà di Edisol (si pensi a Lorenza e al giudice). Alla fine del libro Edisol scrive una lettera al suo cliente, una situazione nella quale si presume di vedere apparire la lingua standard e non una varietà intermedia o addirittura elementi dialettali. Queste differenze sono state riassunte nella Tabella 2 e nella Tabella 3 alla fine del capitolo.

Lo scrittore padovano non usa il modello grafico di Canepari (1984), ma prova a rendere i suoni come li sente pronunciati dalla gente. Usa per esempio accenti grafici dove non sono richiesti dalla norma italiana per indicare la musicalità veneta. Questo elemento, insieme al fatto che non si tratta del dialetto stretto, rende il libro più leggibile anche per un lettore non veneto.

Franzoso gioca anche sull’ambiguità sia quella testuale sia quella linguistica. Si osserva la confusione testuale nel personaggio di Dania/Nadia/Katia ad esempio e la sorella gemella Lorenza. L’ambiguità linguistica viene fuori nelle parole o forme che appartengono alla lingua arcaica rispetto alla lingua standard, ma che sono sempre presenti nel dialetto veneto moderno.

Dopo questa conclusione generale, si presenta un confronto tra i vari autori esaminati in questa tesi di laurea: Gian Domenico Mazzocato, Dino Coltro e Marco Franzoso. I tre scrittori non usano la stessa forma del dialetto o ancora meglio, non usano la stessa varietà di lingua nelle loro opere e non usano questa varietà neanche nello stesso modo. Per questa ragione sarebbe interessante vedere quali sono le somiglianze e le differenze tra di loro.

 

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Mazzocato marca chiaramente quando si tratta di frasi o parole che non appartengono alla lingua italiana standard, mette il dialetto ed il portoghese in corsivo. Coltro e Franzoso non mettono in evidenza le parole che non appartengono alla lingua standard. Non si può neanche dimenticare che Mazzocato usa altre parole non-standard senza indicarle, perché secondo lo scrittore non pongono un problema di lettura, secondo lui questi termini sono ormai entrati nel vocabolario dei veneti. La lingua in Mazzocato è dunque doppia: da un lato indica le ‘deviazioni’ della lingua standard, vuole mostrare che non si tratta sempre dell’italiano normato, ma da un altro lato non mette in corsivo parole che non vengono ben capite dai veneti stessi (si vede l’appendice 3.2). Franzoso e Coltro non indicano che si tratta di un’altra varietà di lingua e non dell’italiano standard e mantengono questa varietà in tutto il libro (o in tutto il capitolo), non si vedono commutazioni di codice all’interno di questi autori.

Marco Franzoso usa una varietà di lingua che presenta elementi di vari tipi, non solo dialettismi, ma anche arcaismi, elementi della lingua parlata/popolare, neologismi ed anglicismi. Mentre gli altri due scrittori si limitano piuttosto all’uso del codice dialettto, Franzoso aggiunge più elementi per marcare la varietà usata. Si osservano anche differenze linguistiche tra i vari personaggi della storia e si vede un uso diverso della varietà all’interno di un personaggio, la varietà viene adattata alla situazione comunicativa.

Dino Coltro spiega alcune parole dialettali a piè di pagina, un fatto che non appare negli altri testi esaminati. Mazzocato spiega a volte le parole portoghesi, ma non appaiono mai spiegazioni di parole dialettali (ad esempio non dà una definizione di schei). Franzoso non spiega niente, ma non usa neanche un lessico dialettale come lo fanno Mazzocato e Coltro (in Franzoso non appare mai la parola schei, ma sempre soldi).

Ne “Il bosco veneziano”, viene usato il dialetto vero e proprio e Mazzocato mantiene anche la grafia dialettale come proposta da Canepari (1984). Franzoso al contrario non tiene conto del modello grafico di Canepari (1984) e prova a trascrivere le parole come le sente pronunciare dalla gente. Aggiunge per esempio accenti dove non sono richiesti dalla grammatica italiana per mettere in evidenza la musicalità del veneto.

Il dialetto ne “Il bosco veneziano” appare soltanto nei discorsi diretti dei personaggi veneti e non nella narrazione. Coltro usa la varietà anche per la narrazione, i suoi personaggi raccontano la storia nella loro varietà e non nell’italiano standard. Non usa il dialetto stretto, ma appaiono elementi dialettali veneti nella morfologia ed anche nel lessico si vedono alcuni elementi dialettali. Nella narrazione e nei discorsi diretti viene usata la stessa varietà (tranne

 

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in “Tra una guerra e l’altra” quando parla Palma, si veda 2.3.3). In “Edisol M.-Water Solubile” la varietà ‘alternativa’ è sempre presente, anche se si vedono differenze tra i personaggi ed anche se alcuni elementi non sono sempre presenti in ogni situazione comunicativa, non si tratta mai di una sola varietà o ancora di una varietà standard. La maggior parte dei tratti viene realizzata dall’inizio fino all’ultima parola del testo narrativo.

In conclusione si può dire che la forma del dialetto usato nei romanzi esaminati è molto diversa l’una dall’altra e nessuno scrittore ha usato la lingua italiana standard normativa. Gli usi della varietà alternativa sono molto diversi nei tre testi scelti, tra i quali l’uso della varietà in Marco Franzoso corrisponde forse meglio alla realtà parlata, nella quale si osservano molte differenze a secondo alla situazione comunicativa. Bisogna comunque tener in mente che in tutti e tre i casi si tratta di letteratura dialettale ‘riflessa’ e che rimane sempre artificiale in quanto scrivere in tale modo è stato un lavoro molto creativo per gli autori.

 

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V Bibliografia

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VI Appendice

1 Carta della regione veneta

 

(www.campermania.it/ Carte%20Geografiche/Veneto.htm)

 

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2 Carta dell’Italia linguistica

 


(www.italicon.it/ museo/I337-001.htm)

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3 Mazzocato

3.1 Le domande della comunicazione personale

 

1) Qual è stato il ruolo dell’editore per questo libro? Ha influenzato il modo in cui il dialetto appare nel libro?

2) Chi ha deciso di mettere il dialetto in corsivo? Ed è stato messo in corsivo durante o dopo la scrittura?

3) Come spiega il fatto che alcune parole che non appartengono alla lingua standard non sono messe in corsivo (come ad esempio pisnente)?

3.2 Piccola inchiesta sulla comprensione di parole non-standard

 

Ho chiesto a parlanti veneti se riconoscono queste parole e se mi possono dare una spiegazione. In tale modo si verifica se il parlante conosce veramente la parola o no. Si tratta delle parole seguenti: 1) pisnente, 2) zattiere, 3) anguana, 4) vino ruspio, 5) bagolo, 6) massarioti, 7) barcaro.

Gli intervistati sono delle persone che parlano il dialetto o almeno lo capiscono (si tratta dunque di una conoscenza passiva).

1. Donna di 51 anni, di Camin, parla dialetto con i conoscenti più o meno coetanei, con lamadre e in generale con che si dimostra disponibile a parlarlo. Riconosce le parole dalla 3) alla 6) come dialettali. Le altre parole non le riconosce, anche se riesce a ricostruire il significato di 7) per la sua trasparenza.

 

3) “una strega”, 4) non conosce il significato, 5) “una cosa fastidiosa”, 6) “contadini abbienti, con tanta terra che non dovevano fare altro per vivere”, 7) “uno che ha la barca” – significato ricostruito.

2. Uomo di 23 anni, di Albignasego, non parla dialetto a casa, ma ha una conoscenza passiva. Riconosce le parole dalla 4) alla 7) ,ma non ne so dare una definizione.

 

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3. Donna di 51 anni, di Albignasego, parla dialetto con il marito, i suoi fratelli, sua madre ed in generale con gente della sua generazione o precedenti con cui abbia un minimo di confidenza. Riconosce le parole dalla 4) alla 7) come dialettali.

 

4) “vino aspro, di scarsa qualità”, 5) “cosa che disturba” – incertezza, 6) “contadini, gente di campagna” – incertezza, 7) “chi va in barca” – significato ricostruito.

4. Uomo di 52 anni, di Albignasego, parla dialetto con la moglie, i suoi fratelli, i suoi genitori ed in generale con gente della sua generazione o precedenti con cui abbia un minimo di confidenza. Riconosce come dialettali le parole dalla 4) alla 7).

 

4) “vino torbido, con qualcosa in sospensione, non buono”, 5) “è un nodo, ma non nel senso concreto, bensì nel senso astratto”, 6) “i ricchi di campagna di una volta”, 7) “chi va in barca?” – indecisione.

5. Donna di 78 anni, di Albignasego, parla praticamente solo dialetto, anche con l’ultima generazione. Riconosce come dialettali le parole dalla 4) alla 7).

 

4) “vino forte, andato a male, molto acido”, 5) “è il bastone per portare i secchi d’acqua sulle spalle” – l’intervistata identifica bàgolo con bigòlo ritenendoli due termini per uno stesso oggetto, confusione, 6) “che aveva tanta terra, la stalla e le vacche”, 7) “chi ha la barca?” – indecisione.

6. Donna di 63 anni, di Camin, parla dialetto con il marito, i suoi fratelli, sua madre ed in generale con gente della sua generazione o precedenti con cui abbia un minimo di confidenza. Riconosce come dialettali le parole dalla 5) alla 7).

 

5) “lavoro fastidioso: piuttosto che fare quello è meglio fare qualsiasi altra cosa”, 6) “una volta chi aveva tanta roba da vendere, di tutti i tipi”, 7) “chi va in barca?” – indecisione.

7. Uomo di 40 anni, di Padova, parla dialetto con la famiglia. Non conosce il significato delle parole dalla 1) alla 6), tranne il 5).

 

5) “forse indica una cosa complicata” – incertezza, 7) “forse indica chi usa la barca” – significato ricostruito.

8. Donna di 24 anni, di Favaro Veneto, non parla dialetto a casa. Riconosce le parole dalla 4) alla 7 come termini dialettali veneti, mentre indica che le parole

 

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dalla 1) alla 3 non appartengono all’italiano standard né al dialetto veneto e non conosce il significato.

 

4) “vino con aroma di muffa, percepibile anche mediante l’olfatto”, 5) “una persona che ozia e perde tempo”, 6) “indica una persona piuttosto goffa e contadinesca”, 7) “la persona che conduce una barca”.

9. Uomo di 25, di Pieve di Soligo, non parla dialetto a casa, ha una conoscenza passiva del dialetto. Non riconosce nessuna delle parole indicate.

10. Uomo di 50 anni, di Padova, parla il dialetto a casa e fuori se possibile. Riconosce di sicurezza le parole dalla 4) alla 7) ed alla 3) accosta un altro termine.

 

3) “anguana non l’ho mai sentito, ma so che esiste ‘angueo’ che è il retino per prendere le ‘anguèe’ (un tipo di pesce)”, 4) “vino aspro”, 5) “ci sono due accezioni: I ‘bastone’ e II ‘intreccio, qualcosa di contorto che non si riesce a sbrogliare’”, 6) “contadini, termine per indicare i ‘villani’, gli abitanti della campagna, 7) “ chi una volta svolgeva una qualsiasi attività in barca da fiume”.

11. Donna di 22 anni, di Verona, non parla mai il dialetto in casa, non usa e non riconosce nessuna delle parole elencate. Tutte meno la 5) che sente usare da sua madre.

 

5) “problema, dilemma di difficile soluzione”

Da questa piccola inchiesta risulta che le parole pisnente, zattiere e anguana non vengono riconosciute e capite dalla maggior parte degli intervistati. Le parole vino ruspio, bagolo e massarioti appartengono al dialetto vecchio per cui gli intervistati dell’ultima generazione non riconoscono più queste parole. Il lemma barcaro viene riconosciuto da tutti, ma si tratta piuttosto di un significato ricostruito a causa della trasparenza della parola. L’intervistato 10 è l’unico a poter dare una vera e propria definizione del lemma senza ricostruire il significato per la trasparenza della parola.

Mazzocato indica nella comunicazione personale che le parole non-standard e non in corsivo sono trasparenti e non pongono un problema di lettura. Dalla mia inchiesta risulta che queste parole non vengono capite da tutti i parlanti e che per l’ultima generazione potrebbero essere problematiche durante la lettura.

 

- 118 -

Sotto si presenteranno i risultati dell’inchiesta in una tabella, nella quale viene indicato se l’intervistato conosce la parola dialettale, se c’è incertezza (INCERT), confusione (CONFUS) o se il significato è stato ricostruito (RICOST).

Tabella 4

pisnente

zattiere

anguana

vino ruspio

bagolo

massarioti

barcaro

IV 1

NO

NO

SI

SI

SI

SI

RICOSTR

IV 296

NO

NO

NO

SI

SI

SI

SI

IV 3

NO

NO

NO

SI

INCERT

INCERT

INCERT

IV 4

NO

NO

NO

SI

SI

SI

INCERT

IV 5

NO

NO

NO

SI

CONFUS

SI

INCERT

IV 6

NO

NO

NO

NO

SI

SI

INCERT

IV 7

SI

SI

SI

SI

INCERT

SI

RICOSTR

IV 8

NO

NO

NO

SI

SI

SI

SI

IV 9

NO

NO

NO

NO

NO

NO

NO

IV 10

NO

NO

CONFUS

SI

SI

SI

SI

IV 11

NO

NO

NO

NO

SI

NO

NO

 

96 L’intervistato 2 non sa dare nessuna definizione, ma riconosce le parole come dialettali.

 

- 119 -

4 Coltro: estratto p. 79-80

 

- 120 -

 

- 121 -

 

- 122 -

 

5 Marco Franzoso

5.1 Domande dell’intervista con M. Franzoso dell’otto luglio 2004

 

1) Come caratterizzerebbe la lingua che ha usato nel libro [Edisol-M. Water Solubile]?

2) A chi era destinato il libro? Ci sono sopratuttto questi tratti settentrionali che forse per una persona del sud sono difficili da capire.

3) Come spiega la variazione all’interno di una stessa parola?

4) Perché non usa parole veramente dialettali?

5) Per quel che riguarda la scrittura del testo, ha subito scritto il testo come lo leggiamo adesso o i tratti sono stati inseriti dopo?

6) In “I léori del socialismo” di Dino Coltro, l’editore ha inserito la punteggiatura che non c’era nella versione originale. Per questo libro, l’editore ha avuto un influsso simile?

7) Ha avuto qualche difficoltà a trascrivere questa varietà che si basa soprattutto sull’oralità?

8) Secondo Lei, i dialetti sono importanti o bisogna abbandonarli a favore dell’italiano standard?

9) A casa Sua si parla dialetto o italiano?

 

- 123 -

5.2 Estratti di “Edisol-M. Water Solubile”

 

- 124 -

5.2.1 p. 26-29

 

- 125 – - 126 – - 127 – - 128 -

5.2.2 p. 31-34

 

- 129 – - 130 – - 131 -

5.2.3 p. 37-41

 

- 132 – - 133 – - 134 – - 135 – - 136 -

5.2.4 p. 64-66

 

- 137 – - 138 – - 139 -

5.2.5 p. 45-46

 

- 140 – - 141 -

5.2.6 p. 96-106

 

- 142 – - 143 – - 144 – - 145 – - 146 – - 147 – - 148 – - 149 – - 150 – - 151 – - 152 -

5.2.7 p. 116-118

 

- 153 – - 154 -

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