0
San Martino (parte prima)

In questa sezione del sito si parla di san Martino.

Gian Domenico Mazzocato sta studiando la figura del santo che più di ogni altro ha segnato storia e cultura europea.

VENANZIO FORTUNATO – LA VITA DI SAN MARTINO

INTRODUZIONE

DEDICA A GREGORIO

AD AGNESE E RADEGONDA
PROLOGO ALLA VITA DI SAN MARTINO

PRIMO LIBRO
DELLA VITA DI SAN MARTINO,
POEMA DI FORTUNATO, PRETE

 

  • Fortunato non è che l’ultimo dei poeti e si scusa per la pochezza del suo dire. Ma questo poema che si accinge a comporre è dovuto, è lo scioglimento di un voto a san Martino che lo ha miracolosamente guarito.
  • Alla porta di Amiens, durante un inverno rigidissimo, Martino, giovane soldato, spartisce il suo mantello con un povero, il quale si rivela essere il Cristo.
  • Martino rifiuta i donativi militari e vince una battaglia presentandosi inerme in prima linea. Martino si imbatte in una banda di ladroni e converte il suo aguzzino.
  • Martino confonde il diavolo tentatore.
  • Martino converte sua madre.
  • Martino, nella sua lotta all’arianesimo, viene torturato ma sopporta ogni supplizio.
  • Ilario di Poitiers, campione della lotta all’arianesimo. Vicissitudini di Martino a Milano e nell’isola di Gallinaria.
  • Martino fonda un monastero e opera prodigi: desta un catecumeno dal sonno della morte.
  • Altro prodigio: Martino resuscita una schiavo di Lupicino.
  • Con uno stratagemma Martino viene fatto uscire dal suo monastero. Viene eletto vescovo e fonda un nuovo monastero.
  • Martino pone fine al culto di un falso martire.
  • Martino impedisce un funerale pagano.
  • Martino sventa prodigiosamente il pericolo di un albero che si abbatte su di lui.
  • Martino spegne un grande incendio da lui stesso appiccato per distruggere un tempio.
  • Martino distrugge ancora un tempio con l’aiuto degli angeli.
  • Martino sopravvive prodigiosamente a due tentativi di ucciderlo.
  • Martino tira dalla sua parte ogni suo nemico.
  • Martino guarisce una fanciulla paralitica nella città di Treviri.
  • Martino scaccia un demonio. Ancora un demonio cacciato.
  • Martino costringe un demonio a dire la verità su una annunciata invasione barbarica.
  • Martino guarisce un lebbroso.

SECONDO LIBRO
DELLA VITA DI SAN MARTINO

  • Fortunato riprende a navigare: sulla sua nave carica il santo fardello del racconto martiniano.
  • Martino guarisce la figlia di Arborio e Paolino.
  • Martino è a sua volta prodigiosamente guarito.
  • Martino partecipa al banchetto dell’imperatore Massimo.
  • Martino conversa con gli angeli (i quali lo vorrebbero in cielo) e riconosce i demoni.
  • Il diavolo uccide un mandriano.
  • Il diavolo intensifica i suoi assalti a Martino. Martino lancia un anatema contro il demonio e smaschera Anatolio.
  • Il diavolo appare a Martino nelle vesti del Cristo.
  • Umiltà ed insegnamenti di Martino.
  • L’esempio di Paolino che si libera delle sue ricchezze.
  • Il ritratto morale di Martino.
  • Il trionfo di Martino nel cielo.
  • Fortunato prega di poter essere degno cantore di Martino, dopo Sulpicio Severo e Paolino.

TERZO LIBRO
DELLA VITA DI SAN MARTINO

  • Fortunato riprende a navigare: affronta acque ancora più difficili e ora ha un nuovo compagno, Gallo.
  • Martino dona la sua veste ad un povero.
  • Martino guarisce Evanzio: la strada gli pesa e allora lo guarisce da lontano.
  • Martino guarisce uno schiavo morso da un serpente.
  • Martino viene preso a nerbate dagli esattori delle tasse e perdona i suoi carnefici.
  • Martino resuscita un fanciullo. Martino e l’imperatore Valentiniano.
  • Martino viene servito a tavola dalla moglie di Massimo.
  • La paglia su cui Martino ha dormito diventa un’arma contro il demonio.
  • Anche una vacca viene posseduta dal demonio e da Martino liberata.
  • L’amore di Martino per gli umili animali: salva un leprotto dai cani famelici che lo inseguono.
  • Alcune espressioni spiritose di Martino.
  • Martino convince un exsoldato a non lasciare la vita monastica parlando del ruolo delle donne.
  • Martino ha visioni angeliche.
  • Martino non partecipa al sinodo di Nîmes ma un angelo lo tiene informato di quanto vi si dice.
  • Le vergini Maria, Agnese e Tecla appaiono a Martino, come anche Pietro e Paolo.
  • Venanzio si rivolge a Martino e ne tesse l’elogio assieme a quello di Roma e della cristianità. Lo prega poi di aiutarlo a ottenere indulgenza per i suoi peccati.

QUARTO LIBRO
DELLA VITA DI SAN MARTINO

  • Proemio al quarto libro: Fortunato sente il porto vicino.
  • Martino guarisce una bambina muta.
  • Il miracolo dell’olio.
  • Il miracolo del vaso benedetto che cade senza rompersi.
  • Nel nome di Martino i suoi discepoli ammansiscono un cane. Martino convince Aviziano a liberare i prigionieri di Tours.
  • Ancora episodi di esorcismo.
  • Martino ferma la grandine.
  • Martino libera Aviziano da un demonio.
  • Martino scatena le furie della natura contro una torre pagana.
  • Martino distrugge una colonna sacra agli dei pagani. Martino, medico inconsapevole, guarisce una donna che soffre di emorragie.
  • Martino scaccia un serpente.
  • Martino e la pesca miracolosa.
  • Arborio vede la mani di Martino coperte di pietre preziose durante una celebrazione eucaristica.
  • Martino a Treviri.
  • Un nuovo esorcismo operato da Martino.
  • Nel nome di Martino un pagano acquieta una tempesta.
  • Martino guarisce Liconzio dalla peste e accetta una ricompensa per riscattare dei prigionieri.
  • Martino e il monaco impudico.
  • La collera di Brizio.
  • L’ultimo panegirico.
  • Fortunato Venanzio implora l’aiuto di Martino.
  • Il congedo: vada il libretto di Fortunato fino a Ravenna dove Martino gli ha ridato la vista.

CRONOLOGIA E OPERE DI FORTUNATO VENANZIO

CRONOLOGIA DI SAN MARTINO

CRONOLOGIA DEL IV SECOLO

SAN MARTINO PROTETTORE DI…

REFRONTOLO, I BAMBINI E SAN MARTINO
Un viaggio tra le colline del Trevisano alla ricerca di cultura e tradizioni popolari. I proverbi e le filastrocche. Le usanze legate all’11 novembre.

  • MARTINO, L’UOMO CHE DIVISE IL MANTELLO (PUBBLICAZIONE FUORI COMMERCIO)

 

VENANZIO FORTUNATO
LA VITA DI SAN MARTINO

Cura, introduzione e traduzione di
GIAN DOMENICO MAZZOCATO

Ricerca iconografica di
IVANO SARTOR

PIAZZA EDITORE
Euro 43

Il grande scrittore di Valdobbiadene Venanzio Fortunato ha scritto una VITA DI SAN MARTINO che è da considerarsi l’ultimo significativo poema della classicità latina. A differenza della Francia, dove la vivissima memoria della personalità dello scrittore si accompagna ad un fervido culto martiniano, mancava alla cultura italiana una traduzione moderna e, per così dire, fruibile del poema.

Sulla VITA venanziana ha lavorato Gian Domenico Mazzocato, traduttore della grande storiografia latina (Tacito e Tito Livio) oltre che narratore che ha dato voce alle vicende del mondo veneto. Ha scritto tra l’altro Il delitto della Contessa Onigo, Il bosco veneziano, Gli ospiti notturni, Delitto a filò, Il caso Pavan, e, per il teatro, Mato de Guera. Mazzocato ha tradotto tenendosi fedele il più possibile al testo e tuttavia discostandosene (anche se in misura minima) quando si doveva privilegiare la “leggibilità” del testo venanziano. Che ha il suo pregio letterario più alto in una vis narrativa che incatena il lettore e talora lo ammalia.

La traduzione nasce all’interno del PROGETTO SAN MARTINO nato tra le iniziative della trevigiana CONGREGA DEL TABARO e da questa avviato e portato avanti. (Tiziano Spigariol)

PRESENTAZIONE ALLA STAMPA DELLA VITA DI SAN MARTINO

 

Giovedì 10 novembre, LA VITA DI SAN MARTINO di Venanzio Fortunato è stata presentata alla stampa nazionale nel corso di una conferenza tenutasi a Venezia, a palazzo Balbi, nella sede della Regione Veneto. Vi hanno partecipato, oltre a Gian Domenico Mazzocato, autore della traduzione, il dottor Angelo Tabaro, segretario regionale alla cultura, e Tiziano Spigariol, fondatore e presidente della Congrega del Tabaro al cui interno nasce il PROGETTO SAN MARTINO.

INTRODUZIONE

L’8 novembre del 397, muore Martino, nato più di ottant’anni prima a Sabaria (l’odierna Szombathely), importante centro strategico e commerciale di quella che allora si chiamava Pannonia e ora Ungheria:

Militare di carriera nell’esercito romano, convertito giovanissimo al cristianesimo, prete e poi vescovo della città francese di Tours.

Quando muore, dopo 26 anni di un episcopato che segna la storia del cristianesimo occidentale, Martino è circondato da fama, affetto, ammirazione: esorcista, taumaturgo, difensore della plebe, combattente per la giustizia.

Chiude gli occhi a Candes, un villaggio di pescatori e pastori dove la Vienne confluisce nella Loira: lo fa nel segno del suo episcopato. Prima di lui, nelle Gallie cristianizzate solo in alcune grandi aree urbane, nella vallata del Rodano e nelle regioni bagnate dal Mediterraneo, il potere del vescovo era confinato e limitato dalle mura che difendevano le città. Fuori delle porte era nullo.

Martino invece aveva fondato una miriade di parrocchie rurali (Candes era appunto una di queste), le visitava in continuazione, dedicava cura e attenzione alla formazione dei preti.

Dopo la morte, il suo corpo viene messo su un battello che risale la corrente della Loira fino a Tours: le rive del fiume sono piene di popolo.

Sulpicio Severo, suo discepolo, amico e primo biografo, ci dice che ad aprire il corteo funebre c’era uno stuolo di duemila persone tra monaci e religiose consacrate. Tutti probabilmente avevano ricevuto gli ordini sacri da lui e a lui si sentivano intimamente legati.

Il resto del corteo era formato da una moltitudine immensa.

Martino fu deposto, secondo i suoi desideri, in una tomba poverissima, l’11 novembre, nei sobborghi di Tours, là dove sarebbe in seguito sorta la basilica a lui dedicata1.

11 novembre 397: si chiude, di fatto, un secolo e anche un’epoca.

Quattro anni prima si era celebrata l’ultima olimpiade, 293ma della storia. L’imperatore Teodosio sentiva nella celebrazione delle olimpiadi, una manifestazione pagana. Per editto aveva chiuso il tempio di Giove a Olimpia e, insieme, una tradizione più che millenaria. Proprio per questo, qualcuno individua in quel 393 la data della fine del mondo antico e dell’inizio del Medioevo.

Il quarto secolo si apre con le persecuzioni di Diocleziano e si chiude sulla ormai vicina dissoluzione del potere di Roma.

Un secolo fondamentale nella storia della Chiesa2 : il cristianesimo esce dal chiuso delle case private in cui era confinato, smette di essere perseguitato, soprattutto procede a fondamentali sistemazioni dottrinarie.

Il passaggio dal terzo secolo al quarto, aveva visto le feroci persecuzioni di Diocleziano, il quale fu ottimo imperatore (tra l’altro nel 305 abdica e si ritira a vita privata, dimostrando nessun attaccamento al potere) ma vedeva nel cristianesimo un ostacolo al riassetto istituzionale dell’impero e si comportava di conseguenza.

Esattamente il contrario di Costantino (o meglio, del suo collega Licinio) che nel 313, con l’editto di Milano, concede la libertà di culto ai cristiani. Costantino (cinico e interessato la sua buona parte) aveva compreso che la nuova religione, così largamente diffusa soprattutto tra i soldati, avrebbe potuto essere il collante sociale utile a tenere unita la ormai vacillante compagine dell’impero.

Nel 330, per la prima volta, il natale di Cristo viene celebrato il 25 dicembre, data in cui da sempre il mondo pagano celebrava il natale del Sole.

Fu anche, il quarto secolo, periodo di dibattito e di grandi eresie (per esempio l’arianesimo che negava la natura divina del Cristo) e scismi che comportavano lotte accanite e coinvolgevano interi eserciti. A Nicea, nel concilio del 325, trova una sua definizione il controverso mistero trinitario, all’origine di tante eresie. Il Credo che ancor oggi i cristiani recitano, altro non è che il cosiddetto simbolo niciano, elaborato in quell’occasione.

A Roma si succedettero qualcosa come undici papi (in un primo tempo solo vescovi di Roma) e almeno due antipapi.

Uno di loro, lo spagnolo Damaso (papa piuttosto turbolento, se è vero che fu coinvolto in una enorme rissa, una battaglia, anzi –un centinaio di morti!- a Roma, nei pressi della chiesa di santa Maria Maggiore contro i fautori dell’antipapa Ursino) stabilì che il vescovo di Roma era depositario della linea di successione di Pietro.

Il suo successore, Siricio, è il primo ad assumere, all’atto dell’elezione (384), il titolo di papa. Damaso è anche il vescovo di Roma che affida a Gerolamo la revisione del testo latino della sacra scrittura, la cosiddetta “vulgata”.

Quando Martino nasce, Costantino sta diventando la personalità più importante all’interno della tetrarchia che regge l’impero. Sarà un secolo di guerre durissime, guerre civili e guerre di contenimento dei popoli che urgono ai confini dell’impero. Attorno al 330 Martino, giovanissimo e soldato, si trova nella Gallie.

È in quel periodo che, ad Amiens, avviene l’episodio del mantello cui sono legate da sempre la storia e l’iconografia di Martino. È l’evento che, in qualche modo, imprime nella memoria collettiva la figura di un uomo la cui “fortuna” non ha conosciuto soste o lacune nei secoli.

*******

Tuttavia la vicenda che meglio spiega la fortuna biografica di Martino (il quale, si è appena detto, ebbe, come biografo, un suo contemporaneo, Sulpicio Severo) è per certi aspetti legata ad un episodio centrale della sua esperienza esistenziale, la condivisione degli ideali di vita di Priscilliano e la morte di questi.

Priscilliano era spagnolo, nato ad Avila attorno al 345. Nelle sue ardenti omelie delineava l’ideale di un assoluto rigorismo ascetico. Fu fatto vescovo della sua città, ma cadde in sospetto di eresia. Era accusato di essersi avvicinato al manicheismo e di praticare la magia a scopi delittuosi. Qualche decennio più tardi, a dimostrazione di una avversione mai sopita, un altro spagnolo, Paolo Orosio, scriverà in un suo promemoria ad Agostino: “Priscilliano è uno sciagurato peggiore dei manichei perché pretende di confermare la sua eresia anche attraverso il Vecchio Testamento”.

Il processo contro Priscilliano e i suoi seguaci fu istruito a Bordeaux in un concilio appositamente convocato. Priscilliano si rifiutò di comparire e si appellò all’imperatore Massimo. Una persecuzione che provocò lo sdegno di Martino, allineato su posizioni di rigorismo ascetico anche se non altrettanto intransigenti di quelle di Priscilliano. Martino aveva poi orrore del fatto che una questione dottrinaria fosse trattata in questo modo rozzo, che fosse strumentalizzata e soprattutto che una persona di cui egli avvertiva la profonda onestà morale fosse condannata a morte.

Il vescovo di Tours scese in campo proclamando ad ogni occasione il suo dissenso. Martino era circondato dall’ostilità di molti vescovi dei dintorni. Dato il rigore della vita ascetica che conduceva e che imponeva ai suoi monaci (molto spesso di buona famiglia, proclivi a comportarsi secondo i modi raffinati della nobiltà e dunque talora restii a sottoporsi a regole durissime) apparve, in qualche modo, complice di Priscilliano.

Ma in realtà era un pretesto per attaccarlo o quanto meno per metterlo sulla difensiva: troppo innovativo era il suo metodo, ogni suo atto suonava come condanna e critica agli altri vescovi.

L’occasione che lo vedeva schierato a fianco di Priscilliano pareva la migliore possibile per dichiarargli guerra. Il processo presieduto dall’imperatore Massimo si tenne a Treviri (l’attuale Triers, sulla Mosella, nel tedesco land Renania-Palatinato). Quando Martino vi giunse, sembrò inizialmente ottenere un buon successo: fece differire il dibattimento e ottenne da Massimo che mai si sarebbe, in ogni caso, arrivati alla condanna a morte.

Tranquillizzato, Martino lasciò Treviri, ma dopo la sua partenza il partito a lui contrario, capeggiato dal vescovo spagnolo Ithace, riuscì a far cambiare idea all’imperatore. Priscilliano fu giustiziato assieme a sei suoi seguaci.

Secondo la testimonianza di san Girolamo, fu il primo a patire la pena capitale per eresia.

Spiazzato e confuso, Martino venne a trovarsi al centro di una questione politica, prima ancora che religiosa, per lui del tutto nuova. L’esecuzione di Priscilliano di fatto autorizzava e legalizzava la persecuzione contro i priscillanisti in Spagna. Era, nella pratica, un attacco in grande stile all’ideale di vita ascetico e alle correnti che volevano la chiesa povera e schierata con gli umili.

I funzionari di Massimo si scatenarono in Spagna: una vera e propria caccia all’uomo. Bastavano, racconta Sulpicio Severo, un sospetto e perfino un abbigliamento non giudicato idoneo per arrestare uno come eretico. “Era sufficiente uno sguardo per emettere un giudizio”, dice con molta crudezza il biografo di Martino.

I vescovi contrari a Martino gli avevano dunque dichiarato guerra, ma non potevano, nello stesso tempo, fare a meno del suo prestigio, del suo enorme ascendente su tutto il territorio delle Gallie. E la persecuzione contro i priscillanisti si rivelò per quello che voleva essere: una contrapposizione dura all’ideale ascetico propugnato da Martino.

Il quale si trovò davanti ad un bivio: o faceva pubblico atto di entrare in comunione con i vescovi suoi avversari (di fatto avallando la condanna e l’esecuzione di Priscilliano) o la persecuzione contro i priscillanisti non si sarebbe fermata. Già i funzionari imperiali avevano le prigioni piene e aspettavano solo l’ordine di cominciare il massacro.

In quelle ore si doveva consacrare un nuovo vescovo. A Martino si chiedeva di partecipare alla cerimonia di consacrazione assieme agli altri vescovi. Sarebbe stato un segnale pubblico di comunione.

Martino, per scongiurare la strage, piegò la testa e arrivò ad un accordo, anche se solo formale. Cedette per quel giorno, apparì in pubblico per la consacrazione, ma non volle mai firmare alcun documento.

Il processo a Priscilliano e la sua esecuzione avvennero tra il 384 e il 385. Quando Martino muore, dodici anni più tardi, la polemica con gli altri vescovi francesi è tutt’altro che sopita. E non può esservi dubbio sul fatto che essa sia stata causa di isolamento e amarezza per il vescovo di Tours. Come certo gli fu dolorosa la memoria del compromesso cui aveva dovuto cedere.

Ma, in quello scorcio finale del quarto secolo, il dibattito attorno all’ideologia di Martino aveva profondamente segnato coscienze e vicende familiari in seno all’aristocrazia gallo-romana, soprattutto nelle regioni a sud della Loira.

Non a caso, certo, per un secolo che si era aperto nel segno di sant’Antonio Abate il quale, attorno al 300, si era ritirato nel deserto egiziano delineando il primo modello di vita eremitica. Modello che si diffuse dapprima in Oriente -soprattutto Palestina e Siria- e poi in Occidente.

Priscilliano, poi Martino: i documenti vivi di tale diffusione.

Ed emblema e clamoroso paradigma di questa diffusione occidentale dell’ideale di vita ascetico fu la vicenda personale di Paolino, colui che tradizione agiografica e storia letteraria ricordano come Paolino di Nola.

Una vicenda esemplare della diffusione e del radicamento delle correnti ascetiche. Uno stacco netto, anche, rispetto alla tradizione della grande cultura greco-romana.

Meropio Ponzio Anicio Paolino (Bordeaux 353- Nola 431), appartenente all’aristocrazia gallo-romana, ebbe una carriera politica molto brillante: consul suffectus nel 378, senatore, proconsole in Campania nel 381. Quando, nel 383, l’Augusto Graziano viene sconfitto a Parigi e, successivamente, tradito dalle sue truppe e ucciso presso Lione, per Paolino comincia un vagabondaggio per tutta l’Europa. A Vienne conosce Martino (e certo le sue aspirazioni ad un ideale di vita ascetico ne furono stimolate) e, a Milano, Ambrogio.

Battezzato a Bordeaux nel 389 dal vescovo Delfino, anche spinto dalla moglie Terasia, Paolino imboccò la via di un completo cambiamento di vita. Fu una conversione clamorosa, che implicava la rinuncia anche al mondo della sua formazione classicista. Durissima fu la reazione nei suoi riguardi del poeta Ausonio che gli era stato maestro e che più e più volte lo esortò a ritornare alla poesia per la quale aveva dimostrato particolare inclinazione in gioventù.

Elemento scatenante fu probabilmente la morte del figlio di Paolino e Terasia, Celso, avvenuta ad una settimana dalla nascita. Paolino rinunciò al suo immenso patrimonio e distribuì ogni avere ai poveri. Tornò con la moglie in Spagna (lì l’aveva incontrata) e, nel natale del 394, a Barcellona, fu ordinato prete. Poi andò a Nola, conosciuta e amata durante il suo proconsolato.

Durante il viaggio verso Nola, fu a Roma dove sperimentò personalmente l’ostilità di papa Siricio verso le correnti ascetiche del monachesimo occidentale. Siricio mise addirittura in dubbio la validità della sua ordinazione sacerdotale.

A Nola, Paolino fu eletto vescovo nel 409, consacrandosi al culto di san Felice, il santo vissuto nel primo secolo, primo vescovo della città e suo protettore. Terasia rimase sempre con lui, pur avendo interrotto qualsiasi rapporto coniugale. A Nola, ancor prima di essere eletto vescovo, aveva fondato un cenobio. Lo aveva, significativamente, voluto a Cimitile, nei pressi di quell’ospizio riservato a poveri e pellegrini che aveva fatto erigere ancora durante la sua magistratura civile nella regione.

Tante piccole celle, in due ambienti distinti: uno per Paolino stesso e i suoi confratelli e discepoli, uno per Terasia e le sue consorelle. In quel periodo andava anche fissando norme e regole della vita cenobitica.

In generale, tutta la sua vita dopo la conversione, fu improntata all’ascetismo. In forme spesso dure e molto vicine a quelle dell’ascetismo orientale: cilicio sulla nuda carne, silenzio continuo, capo rasato in forma ineguale, saio ruvido e intessuto di pelo di cammello, un solo pasto al giorno, scondito e sciapo.

Quando ancora si trovava in Francia aveva attirato in una scelta di vita simile alla sua, un giovane e brillante avvocato, suo conterraneo e di qualche anno più giovane di lui: Sulpicio Severo, nato in Aquitania attorno al 360, amici e compagni di studio.

I rapporti epistolari tra i due furono sempre molto fervidi. Quando Paolino arriva a Nola, probabilmente ancora traumatizzato dalla dura esperienza romana, cade in una grave malattia. Sulpicio manda suoi messaggeri ad informarsi. E la lettera che Paolino affida loro fa sentire come Nola sia già una sorta di punto cardinale della vita monacale e cenobitica in occidente. Un luogo cui si guarda come modello.

“I tuoi messaggeri, scrive Paolino a Sulpicio,… durante i pochi giorni, in cui si sono fermati presso di noi, hanno potuto vedere le manifestazioni d’affetto, assidue e premurose, che, durante tutto il tempo della malattia, ci hanno prodigato i fratelli monaci, preoccupati per la nostra sorte, i vescovi, i chierici e spesso anche i laici. …. in tutta la Campania non c’è stato quasi nessun vescovo che non si sia fatto dovere di venirci a visitare. E quelli che non sono venuti, perché impediti da una malattia o da qualche altra necessità, sono stati qui rappresentati dai loro chierici, inviati al loro posto, e con le loro lettere. Perfino i vescovi dell’Africa hanno mandato a farci visita di nuovo all’inizio dell’estate.3”

Sulpicio Severo, il più brillante avvocato del foro di Bordeaux, era decisamente in carriera: aveva anche sposato, giovanissimo, una nobile e ricca ereditiera aquitana. Tutto, insomma, faceva presagire una vita di successo, negli agi e nelle ricchezze.

Ma quando la giovane e amatissima moglie muore, il modello esistenziale paoliniano comincia ad assillarlo, lo coinvolge, lo contagia. La suocera Bassula rappresenta, nel momento del dolore, una presenza discreta che gli offre consigli in sintonia con le sue esigenze morali.

In quel periodo Sulpicio aveva conosciuto Martino, già vescovo di Tours, e aveva anche preso a frequentare il monastero di Marmoutier.

Quando muore la moglie, Sulpicio aliena, sul modello paoliniano, ogni bene e, dal 394, si ritira a Primuliacum4 , un terreno di sua proprietà che presto organizza in comunità.

A questo punto Sulpicio compie una scelta decisiva per la diffusione del modello ascetico martiniano e anche per le conoscenza della figura del vescovo di Tour: alla ricerca di una guida spirituale egli non sceglie come meta né l’Oriente né Gerusalemme né l’Egitto (in cui era ancora ben vivo il modello antoniano) ma il nord della Gallia, la vallata della Loira, per approfondire la sua conoscenza con Martino. Tra il 394 e il 397 la sua frequentazione di Marmoutier si fa sempre più assidua.

Concepisce -Martino ancora vivo- di scrivere una vita del suo maestro. Lo incoraggiano la suocera Bassula e un ecclesiastico dell’entourage di Martino, Didier.

Ne esce una compilazione cronologica di un centinaio di pagine, che copre la vita di Martino fino all’episcopato. Particolare di non poco conto perché se è vero che il biografo/agiografo tende sempre a idealizzare la figura del santo oggetto della sua scrittura, è anche vero che la prima biografia martiniana (madre di ogni altra biografia) fu se non proprio visionata dallo stesso Martino, certamente in qualche modo a lui nota e avallata.

In questo periodo Sulpicio Severo scrive anche tre lettere: a Eusebio, ad Aurelio e, appunto, a Bassula (in questa racconta la morte di Martino).

Inoltre, quando ebbe modo, in seguito, di conoscere Postumiano, un amico di Paolino, Sulpicio Severo si fece suggestionare dal racconto favoloso dei miracoli compiuti dagli anacoreti che conducevano la loro esperienza monastica nei deserti d’Oriente. Chiese allora a Gallo5 , un monaco di Marmoutier, di compilargli un elenco dei principali miracoli di Martino.

Gallo buttò giù una compilazione abbastanza raffazzonata di una trentina di eventi miracolosi o in qualche modo meravigliosi della vita di Martino. Ne uscirono tre Dialoghi che vanno letti come complemento della Vita.

Martino, nel progetto di Sulpicio, doveva diventare una sorta di Antonio occidentale, fondando storicamente la sua figura, la sua opera, il suo insegnamento.

*******

Non vi è dubbio che la vocazione di Martino alla vita monastica sia stata fortissima. Predominante, anzi, rispetto ad ogni altra sua aspirazione.

L’amico e maestro Ilario di Poitiers (ritrovato attorno al 360 -il periodo in cui Martino fu fatto diacono e prete- dopo l’esilio di questi in Frigia) possedeva dei terreni e una casa a Ligugé, poche miglia fuori Poitiers. Fu quello il nucleo del primo monastero europeo, dove Martino si trovò presto circondato da discepoli che dividevano la loro vita tra l’esperienza di evangelizzazione del territorio circostante e l’esperienza forte della “laura”.

La laura era una forma di monachesimo mutuata dall’Oriente, in cui i vari monaci conducevano vita eremitica e si radunavano solo in determinati momenti. La parola, che deriva da un termine greco-bizantino, indica una formula a metà tra la vita cenobitica in comune e l’eremitaggio che voleva i monaci isolati permanentemente l’uno dall’altro. Nella laura i monaci vivevano una esperienza eremitica avendo però dei momenti comunitari (i pasti e la liturgia, ad esempio). Sacra Scrittura e i testi dei grandi difensori della fede erano i libri su cui si formavano i monaci.

Esperienza importante, quella di Ligugé, e fondante se è vero che, molti anni dopo, eletto vescovo di Tours, Martino pensò, per la formazione dei suoi preti, ancora ad una impostazione del lavoro simile a quella già sperimentata nel 360.

Scelse, Martino, una spianata, un po’ fuori le mura di Tours, a Marmoutier, uno spuntone di roccia a picco sulla vallata della Loira. Ancor oggi si possono vedere a Marmoutier le rovine dell’abbazia che Martino vi fece costruire. Quel luogo divenne il cuore della diocesi. Intere generazioni di monaci vi si formarono.

Il sistema era quello sempre quello della “laura”, già sperimentato a Ligugé.

Si capisce dunque come Sulpicio volesse delineare la figura dell’esorcista, del taumaturgo miracoloso, soprattutto del vescovo innovatore che, proprio dall’ideale di vita ascetico, aveva attinto le motivazioni di una autentica rivoluzione, culturale prima ancora che pastorale, basata sull’allargamento della comunità cristiana. Martino doveva uscire dalla scrittura di Sulpicio non solo con il prestigio del sant’Antonio d’Occidente ma anche rivestito dal fulgore del nuovo apostolo di Cristo.

Per realizzare questo obiettivo bisognava soprattutto fare pulizia di tutte le polemiche innescate dall’attività pastorale del vescovo di Tours. E, per così dire, bisognava azzerare tutti gli aspetti non positivi di una presenza tanto ingombrante.

Non c’era solo il suo metodo innovativo (fondazione di sempre più numerose parrocchie rurali, frequenti -incessanti, anzi- visite pastorali, formazione dei preti). Non c’erano solo le sue mai smentite simpatie priscillaniste.

Ma su Martino gravava un giudizio morale (un pregiudizio, meglio) di condanna: chi aveva continuato a militare nell’esercito di Roma dopo il battesimo era un cristiano guardato con sospetto. Ed era prassi che gli exsoldati non potessero abbracciare la carriera ecclesiastica.

La prassi, anzi, divenne regola nel 386 quando, raccogliendo un’istanza largamente diffusa, papa Siricio decretò, che un soldato il quale avesse continuato la milizia dopo il battesimo, non potesse in alcun modo essere ammesso al clero. Nel 386 Martino è già vescovo da 15 anni, ma si può immaginare a quali difficoltà e ostilità andasse quotidianamente incontro, a cominciare dallo stesso sinodo episcopale.

Anche se, forse, a mitigare le polemiche contribuirono la fama e la memoria del suo congedo che fu clamoroso e destò vasta eco.

Nel 354 l’imperatore Costanzo (ma computi diversi fanno risalire l’episodio alla militanza sotto un altro imperatore, Giuliano detto l’Apostata) fu impegnato nelle Gallie in una campagna militare contro gli Alamanni.6

Prima della decisiva battaglia di Rauracum, nei pressi dell’odierna Basilea, come di consueto, l’imperatore distribuisce delle ricompense in denaro per spronare i suoi. Martino evidentemente è giunto al limite. Rifiuta il premio e, anzi, preannuncia che sta per chiedere il congedo. Costanzo si infuria, cerca di dissuaderlo e, quando si rende conto che Martino è irremovibile nel suo proposito, lo fa gettare in catene. Sarà proprio Martino, ordina, ad affrontare per primo il nemico, nella battaglia del giorno dopo. Insomma, un modo sicuro per votarlo alla morte.

Martino non dice nulla e il mattino seguente si presenta in prima linea, senza armi, senza elmo, senza lorica, senza scudo. Un bersaglio facilissimo, inoffensivo. E gli Alamanni, i terribili nemici, a quello spettacolo depongono le armi e chiedono la pace.

I biografi di Martino hanno poi un altro, profondo motivo di disagio. Martino non ha lasciato nulla di scritto e, nel complesso, la sua cultura doveva essere piuttosto modesta, visto che aveva dovuto cedere alla pressioni paterne abbandonando presto gli studi per dedicarsi alla carriera militare. Il cruccio dei biografi, in questo senso, diventa talora perfino palpabile.

Sulpicio Severo affronta il problema di petto. Con abilità cerca di ribaltare in un pregio ciò che appare come un difetto agli occhi degli altri. Certo, Martino non è Girolamo, non è Ambrogio, non è Agostino. E Martino è certo un illetterato, ma, stabilisce audacemente Sulpicio, la parola di Dio non sono gli oratori, ma i peccatori a predicarla.7

E poi, ricorda sempre Sulpicio, Martino aveva una profonda conoscenza delle scritture, appresa soprattutto dal suo amico e maestro Ilario di Poitiers. Aveva un enorme carisma personale nel dire e nel porgere: un eloquio austero, improntato al decoro e alla dignità.

Ed era straordinariamente acuto e pronto nel risolvere questioni scritturali.8

Strada praticamente aperta per la soluzione (peraltro molto diversa) che al problema darà Venanzio due secoli dopo. Martino diviene una sorta di avvocato che intercede davanti a Dio, a favore dell’uomo.

In chiusura del secondo libro Venanzio, tessendo il panegirico di Martino, parla di lui come di una fonte perenne. Fonte perenne bibens quod rivulus ille rigaret9 , rievoca con verso facile e felice: l’immagine della fonte perenne genera quella del rigagnolo della scienza e della cultura di Martino. Martino diventa un “giurista” che si fa avvocato di ogni uomo, intercessore per lui presso Dio (adsertor validus, superans fora, iura, togatos, / nobilis adstructor, facundus concionator10 ).

Venanzio, anzi, percorre fino in fondo la via aperta da Sulpicio Severo.

Proclama: “Il suo era un eloquio affettuoso, risoluto e insieme amabile, pungente e diretto, piacevole per l’animo di chi lo ascoltava. Possessore del cielo in terra, durante le sue veglie egli parlava col Cristo e gli confidava le sue difficoltà e, esperto com’era nella santa arte di patrocinare le cause dei miserabili, davanti a quel giudice esponeva le lamentele degli sventurati. Difensore incrollabile, si dimostrava superiore ad ogni oratore, giurista, avvocato; abile dialettico ed oratore eloquente, moltiplicava le sue preghiere per addolcire il giudizio divino.

E quanto efficace doveva essere la sua voce in difesa di vedove ed orfani, se bastavano i suoi silenzi interiori a bussare alla porta del cielo!11”

Si vada anche a leggere nel terzo libro l’episodio del fanciullo risuscitato, in cui Martino è davvero il bonus orator che pronuncia la sua arringa davanti a Dio (Ordine disposito postquam se oratio complet12 ).

E tuttavia il bonus orator nulla aveva lasciato: non un trattato, non una sola discussione esegetica attorno alla sacra scrittura. Nemmeno una sua omelia era mai stata trascritta.

Ecco dunque il compito del biografo: raccontare, in chiave di esempio, la vita del nuovo apostolo di Cristo, farne un caposaldo dell’esperienza ascetica, proporlo come l’Antonio delle Gallie.

In questo senso proprio la mancanza di testi scritti di pugno da Martino, concedeva al biografo uno spazio enorme, praticamente illimitato.

Rilievo, questo, che pone il problema dei confini tra biografia e agiografia (con tutti i suoi luoghi comuni e dunque apologia, se si preferisce): ma non vuole certo essere questo lo scopo dell’introduzione.

Tuttavia va detto che Sulpicio Severo affrontò il suo compito con un certo rigore. Riferisce quanto ha appreso direttamente da Martino, parla con i monaci e con testimoni oculari, visita tutti i luoghi che erano stati meta di Martino o, a qualche titolo, ne conservavano la memoria. Accumulò una documentazione estesa e approfondita.

Fa anche professione di essersi scrupolosamente attenuto alla accertata verità dei fatti.13

Ma la foga apologetica assediava il suo scrupolo.

Dopo la morte di Martino, serve tenerne conto, c’era tutto un ambiente da motivare e al quale offrire nuovi momenti di coagulo. Venuto meno il carisma personale di Martino, Tours era progressivamente abbandonata dall’entourage martiniano. Perfino Marmoutier aveva perduto in parte la sua forza magnetica, dato che lo stesso Sulpicio Severo sceglie come base Primuliacum, distantissima geograficamente dalla vallata della Loira.

Sulpicio doveva ricompattare in qualche modo gli ambienti culturali legati alla personalità di Martino e proprio in questo periodo chiede a Gallo di raccontargli alcuni aspetti da lui lasciati in ombra nella sua Vita, traendone il naturale completamento nei Dialoghi. I Dialoghi, con i loro elementi favolosi e meravigliosi, erano proprio quello che serviva per rimotivare (e rifondare) un giro di relazioni culturali, religiose, ideologiche che la morte di Martino aveva se non proprio interrotto, senza dubbio allentato e rallentato.

Soprattutto bisognava tenere a bada i nemici di Martino che non avevano certo deposto le armi dopo la sua morte. I Dialoghi (che hanno talora perfino la virulenza polemica dell’invettiva) testimoniano nella loro stessa genesi e nel loro modo di porsi la volontà di costruire attorno a Martino l’aureola intangibile del maestro che Dio stesso aveva alzato sopra gli uomini e molto vicino a sé.

Dio lo aveva ricolmato di doni e poteri. Gli aveva spesso manifestato la sua vicinanza in modo clamoroso. Aveva talora testimoniato con evidenza singolare ed insolita la sua vicinanza a quell’uomo e l’esistenza di canali di comunicazione diretta con lui.

Gli scritti di Sulpicio Severo ebbero grande impatto: una diffusione enorme e una fortuna duratura ed estesa, probabilmente non solo in Occidente.

Paolino, da Nola, si fece diffusore e propagatore di Martino attraverso la scrittura di Sulpicio. L’inesausta macchina di propaganda martiniana si era messa in movimento: nessun terreno le sarebbe stato precluso, mai avrebbe trovato difficoltà ad alimentarsi, mai avrebbe conosciuto pause nella costruzione di un ingente edificio agiografico. Sempre avrebbe trovato terreno fertile su cui attecchire, artisti pronti a celebrare in quadri, sculture, vetrate, cattedrali la figura di Martino, narratori pronti a rigenerarne le gesta.

Nella seconda metà del quinto secolo Paolino di Périgueux (?- 475), spesso confuso con Paolino di Nola14 , ricavò dall’opera di Sulpicio Severo tremila esametri, dividendoli in cinque libri. In un sesto dimostra la persistenza negli anni e nei secoli del potere miracoloso e taumaturgico di Martino. Il santo vescovo di Tours è ormai un eroe delle fede che reclama per sé l’uso dell’esametro, il verso epico per eccellenza.

Paulinus Petricoriensis, figlio di un retore di Périgueux, di cui ben poco sappiamo (ma fu senza dubbio vescovo) dedicò tutta la sua opera ad estendere la gloria e la conoscenza di Martino.

E la tomba di Martino divenne la meta di continui pellegrinaggi, il suo culto predominante nell’Occidente assieme alla convinzione diffusa e radicata che mai i suoi poteri miracolosi erano venuti meno. Anzi, dopo la morte, si erano amplificati.

*******

È questa la tradizione che Venanzio Fortunato raccoglie. Ed è un miracolo operato dal santo a spingerlo a scrivere questa Vita di san Martino.

Verso la fine del 565 Venanzio lascia Ravenna.

Dieci anni più tardi, nell’estate del 575, in pochi mesi scrive il poema dedicato al vescovo di Tours. Il decennio centrale della sua esistenza.

“È dunque una ragione importantissima a indurmi a tessere il panegirico del vescovo che è stato all’origine della mia venuta in questo paese”, proclama Fortunato Venanzio nei versi proemiali della sua opera15 .

E nel finale, quando ha esaurito il materiale a sua disposizione e deve chiudere il cerchio, scioglie l’enigma davanti al suo lettore. Lo fa nel contesto del congedo alla sua opera, mentre le raccomanda l’itinerario da seguire.

Sì, lui Venanzio, ha ricevuto da Martino un miracolo immenso, la luce degli occhi. Era ormai praticamente cieco e un giorno a Ravenna, nella basilica di Giovanni e Paolo, si era unto gli occhi con l’olio della lampada accesa nella nicchia dedicata al santo. Racconta così.

“È nella basilica innalzata a Paolo e Giovanni, che una parete presenta una raffigurazione del santo. Il colore è così delicato che viene voglia di abbracciare il santo. Ai piedi del giusto, è stata ricavata nel muro una artistica nicchia: vi arde una lampada la cui fiamma fluttua dentro un’ampolla di vetro. Ad essa mi sono avvicinato di corsa, perché mi tormentava un vivo dolore; gemevo perché la luce stava fuggendo dalla finestra dei miei occhi. Appena li toccai con l’olio consacrato, quel vapore di fuoco abbandonò la mia fronte malata: il guaritore è lì, col suo dolce balsamo fa sparire il male. Quel prodigio operato in me, i miei occhi non lo hanno mai scordato. Infatti davanti ai miei occhi, torna nitida la visione della loro guarigione e finché avrò corpo e vista non dimenticherò.”16 Dunque la Vita rappresenta lo scioglimento di un voto, a dieci anni di distanza.

In questi dieci anni Venanzio gira inquieto per le Galllie. Tra il 566 e il 567 è a Parigi e poi a Tours. I dignitari merovingi lo accolgono con calore e affetto. Poi è in Spagna, a Braga, infine a Poitiers dove domina la personalità di Radegonda, che nel 538 era andata sposa a Clotario e poi si era data alla vita claustrale, consacrata da Medardo, vescovo di Noyon .

Nel monastero di Poitiers, dedicato alla Santa Croce, Venanzio ricopre diversi ruoli, di importanza via via crescente. Il suo prestigio aumenta, la sua fama di uomo di cultura e di letterato brillante gli apre ogni porta. Gregorio di Tours lo esorta a pubblicare i suoi Carmina. A metà degli anni Settanta Venanzio riceve gli ordini sacerdotali.

È famoso e ricercato. La sua scrittura conferisce prestigio e visibilità a occasioni e personaggi. Quando Radegonda ottiene dall’Oriente una reliquia della Croce, egli compone due tra gli inni più famosi della Chiesa, il Pange lingua e il Vexilla regis prodeunt.

E compone agiografie su commissione, compone epitaffi ed è lui a celebrare l’intronizzazione di Gregorio.

È dunque un letterato famoso (e già ben esercitato nell’agiografia, anche se solo in prosa: la Vita di san Martino rimarrà l’unica da lui composta in poesia) quando si decide a sciogliere il voto davanti alla nicchia dedicata a san Martino nella basilica ravennate di san Giovanni e Paolo.

Molto spesso, nella sua opera, Venanzio parla di un debito da pagare. E aggiunge che ha anche ricevuto pressanti inviti ad occuparsi di san Martino17 . Gregorio, forse, cui l’opera è dedicata. Molto più probabilmente Radegonda.

La composizione può essere collocata nella biografia venanziana con minimo margine di errore. Nel 573 (settembre) Gregorio (il dedicatario, come si è detto) succede a Eufronio nell’episcopato di Tours e la composizione va ascritta dopo tale data.

Sappiamo anche dal contesto in cui Venanzio congeda la sua opera, che al momento di tale congedo, Germano, vescovo di Parigi, è ancora vivo18 . Germano muore nell’aprile del 576 e siccome Venanzio stesso ci riferisce che l’opera è stata composta durante la mietitura19 , si possono escludere sia quel 576 che il 573. Restano l’estate del 574 e quella del 575, con forti indizi per quest’ultima.

Venanzio, dice scrivendo a Gregorio, ci lavorò per tre bimestri, negli intervalli di tempo che le altre occupazioni gli lasciavano libero. “In questo modo, con i miei versi, negli ultimi sei mesi ho dissodato in quattro libri quella sua ponderosa opera: molto brevemente e condizionato dalla povertà dei miei mezzi. Di corsa e in modo rozzo, distratto da questioni futili e presuntuoso più che di efficace parola20.”

Aveva senza dubbio sotto gli occhi la Vita e i Dialoghi di Sulpicio Severo, ma quasi sicuramente non le Lettere perché certo non si sarebbe sottratto al piacevole compito e alla suggestiva fatica di narrare la morte e i funerali del santo. Certamente conobbe la prima versione in versi, quella di Paolino di Périgueux, come dimostrano robuste concordanze soprattutto nel primo libro, ma senza accettarlo come modello. L’opera di Paolino, del resto, non doveva essere molto diffusa o di grande prestigio, se è vero che Gregorio lo confondeva con il suo omonimo di Nola e molto probabilmente Venanzio incorreva nello stesso equivoco. E sappiamo, per esempio, che nel monastero alsaziano di Murbach, esisteva un manoscritto, oggi perduto, dell’opera di Paolino di Périgueux, che sul frontespizio era attribuito a Paolino di Nola. Indizio di un equivoco diffuso e radicato.

Paolino, in ogni caso, scriveva per pubblicizzare un grande santo e diffondere la conoscenza dei luoghi in cui aveva operato (e che ospitavano -meta di crescenti pellegrinaggi- la sua tomba e il suo santuario). Venanzio voleva sciogliere un voto.

Ma soprattutto, come intellettuale che finalmente aveva trovato dopo tanto vagabondare un luogo di approdo, voleva dare il meglio di sé, coronando in qualche modo la sua amicizia con Radegonda, dimostrando la sua riconoscenza per stima e fiducia ricevute e presumibilmente coltivando le sue stesse ambizioni di carriera.

Si trattava di affascinare il pubblico ristretto dei funzionari merovingi, sia civili che ecclesiastici. Quel mondo trovava la sua espressione più compiuta proprio nella romanzesca (ruvida e brutale, ma a suo modo anche raffinata) parabola esistenziale di Radegonda: vittima di un rapimento, di una strage familiare, di una riduzione in schiavitù; e poi vita da regina cui fu strettamente connesso il suo divenire bersaglio di crudeltà orribili che portarono suo marito a uccidere suo fratello.

E infine la scelta claustrale vissuta, per così dire, nell’ombra dell’ombra. Infatti, a governare il monastero in sua vece, aveva scelto Agnese, una giovane appartenente alla migliore aristocrazia di Poitiers.21

Martino non era più un modello da strappare alla contrapposizione polemica con altri modelli. Non era nemmeno più il santo guerriero da difendere dalle accuse di cui era vittima. E il suo culto era ormai affermatissimo. Dopo Sulpicio Severo e Paolino di Nola, dopo Paolino di Périgueux, Venanzio raccoglie e certamente supera una tradizione culturale, letteraria e religiosa ormai secolare. Propone, attraverso il “suo” Martino, un modello per la società dei suoi tempi e un blasone per la vita monastica abbracciata da Radegonda.

*******

Dunque Venanzio riacquista la vista in modo miracoloso per grazia propiziata da san Martino. Nei mesi e nei giorni che seguono a Ravenna, decide di spezzare così nettamente la sua vita in due. Per quali motivi Fortunato intraprese quel viaggio?

La prima cosa che balza agli occhi è che Fortunato non offre certo di sé l’immagine di un pellegrino che debba adempiere ad un voto. Rimane a lungo presso Sigeberto, il terzo figlio di Clotario e re d’Austrasia dal 561. Anche a Parigi non dimostra certo grande fretta. Del tutto fuggevole fu poi il suo passaggio a Tours, il luogo martiniano per eccellenza.

Forse la visita alla tomba di Martino era solo un pretesto. Se Tours era la sua meta, perché recarsi fino a Poitiers e oltre? E pretesto riguardo a cosa?

Certamente le vere ragioni dell’espatrio di Fortunato sono da cercare altrove.

Si è a lungo ipotizzato che Fortunato fosse diventato inviso al governo bizantino e fosse dunque indotto a cercare la protezione di Sigeberto. Fortunato avrebbe preso posizione a favore dello scisma dei Tre Capitoli e dunque sarebbe stato dalla parte della situazione scismatica di Aquileia. Non abbiamo notizia di una militanza in tal senso.

Lo scisma dei Tre Capitoli trae nome dai tre capitoli di condanna, firmati dallo stesso Giustiniano (che non voleva alienarsi le correnti monofisite, molto forti soprattutto nella Chiesa d’Oriente), di tre vescovi fedeli ai dettami del concilio di Calcedonia. Il concilio di Costantinopoli (secondo di quella città e quinto nella storia della Chiesa) tenutosi nel 553, fu detto concilio dei Tre Capitoli perché durante i lavori Vigilio (papa tra il 537 e il 555) finì con l’accettare l’imposizione di Giustiniano. Si creò un vero e proprio scisma da parte di alcuni vescovi dell’Italia del Nord che durò dal 557 al 699. Dunque Aquileia era in situazione di scisma. Anche questa situazione di disagio può aver spinto Venanzio a recarsi in Gallia: la questione teologica era probabilmente superiore alle sue cognizioni e alle sue capacità di comprensione e analisi, ma l’intellettuale avvertiva profondamente il venir meno di un sistema di valori cui era legato.

Ma nulla ci autorizza a dire che si tratta di fuga per motivi di pericolo personale, legati ad un coinvolgimento del nostro. Quello che è sicuro è che, in questo senso, non gli giovarono certo le note amicizie con Paolo di Aquilea e Felice, vescovo di Treviso. Entrambi erano vicini alle posizioni dei Tre Capitoli. In particolare Paolo, eletto vescovo di Aquileia nel 558, fu tra gli oppositori a Roma e Bisanzio proprio quando si trattò di condannare i Tre Capitoli come consigliava Pelagio (papa dal 556 al 561) per sottomissione a Giustiniano. Pelagio arrivò perfino a chiedere all’autorità militare bizantina l’arresto dei vescovi che erano rimasti fedeli alle risoluzioni del concilio di Calcedonia del 451. In quell’occasione era stata proclamata la duplicità, umana e divina, della natura del Cristo.

Ma, ripeto, di un coinvolgimento personale di Fortunato non è notizia.

Del resto, se quella di Fortunato era una fuga dal governo imperiale, la corte di Sigeberto non rappresentava certo un rifugio sicuro perché la corte d’Austrasia non era in quell’epoca in cattivi rapporti con Costantinopoli. Tra l’altro è questo il periodo durante il quale Radegonda, che viveva sotto la giurisdizione di Sigeberto, otteneva dall’imperatore una reliquia della croce.

E inoltre Fortunato non è arrivato in Austrasia come un “trovatore errante”. È idea cara ai romantici che vedono in ogni esule colto il ritratto dello spaesamento, l’incarnazione della condizione biografica dello straniamento.

Ma non è così. Il fatto che gli sia stata inviata incontro una scorta di eminenti funzionari della corte di Austrasia prova che aveva ricevuto un invito ufficiale alla corte. Non si spendono tante formalità per accogliere quello che oggi definiremmo un rifugiato politico. Dunque non un romantico precursore della figura del poeta maledetto, non un ricercato dalla polizia imperiale.

Il contrario semmai, come dimostrano studi recenti, esattamente il contrario.22

Fortunato era un agente dell’imperatore presso le corti franche e in particolare alla corte di Metz. Non dobbiamo pensare certo ad un agente segreto che agisce sotto copertura e che si avvale del suo ruolo di poeta mondano per nascondere oscuri e sottili maneggi.

Più semplicemente l’imperatore, preoccupato dalla minaccia longobarda, cercava alleanze nelle Gallie. Il re di Metz, che possedeva anche la Provenza, poteva tornargli molto utile.

Fortunato, senza dubbio già noto per il suo talento di poeta, era un uomo prezioso per convincere il re e i suoi grandi, riuniti nel giorno delle nozze. Fortunato arriva infatti a Metz, capitale dell’Austrasia, proprio nei giorni in cui Sigeberto sposa Brunechilde, figlia di Atanagildo re dei Visigoti, con tutta evidenza matrimonio di enorme importanza politica.

Alle nozze, Fortunato declama un memorabile epitalamio: non certo improvvisato al momento, ma preparato da lungo tempo e suo biglietto da visita. Un blasone anzi. Il poeta ebbe dunque l’incarico di portare avanti quella che uno studioso francese definisce una guerra del fascino. Voleva, lui, l’italiano colto, risvegliare in Gallia il sentimento di una comunità spirituale: la Romania contro i barbari della seconda ondata. I valori delle arti e della cultura potevano essere le armi buone.

Venanzio, autentico e consapevole cittadino, della nascente Europa delle nazioni.

Nel segno di Roma la cui lingua universale andava separandosi nelle parlate locali ma conservava il fascino di una unità ideologica vivissima.

Se Venanzio si ferma a Parigi non è tanto per Cariberto, il figlio più vecchio di Clotario I, re di un regno che andava da Amiens ai Pirenei e che aveva proprio Parigi per capitale. Anche se per lui scrive un panegirico (ma di corsa e perché in qualche modo obbligato), gli preme soprattutto far visita al vescovo Germano, il grande amico di Radegonda. Non è dubbio che sia lui a indirizzare a Poitiers Fortunato. E la vedova di Clotario non era certo un pezzo da trascurare sullo scacchiere politico.

Radegonda cercava dal canto suo protezioni per il monastero. Fu forse lei a mandare Fortunato da Martino di Braga, molto autorevole nel mondo cristiano occidentale, uomo di sintesi fra due culture diverse. Martino di Braga era in effetti nato nell’Europa dell’Est, in Pannonia, come il suo omonimo vescovo di Tours. Giustiniano vedeva in lui uno strumento di riconquista dell’Occidente. I due uomini avevano bisogno di confrontare e scambiare tra loro le rispettive esperienze.

Dunque alla fine del 567 o agli inizi del 568, Fortunato si stabilì a Poitiers dove coprì l’incarico di segretario ed economo nella comunità fondata da Radegonda. Il lavoro non gli mancava di sicuro. Il monastero di Poitiers era una casa molto grande e l’amministrazione delle terre da cui il monastero traeva di che vivere doveva essere particolarmente impegnativa. Bisognava inoltre sorvegliare gli interessi spirituali di un ordine fondato da poco, facendo attenzione a raccogliere tutte le protezioni possibili.

Soprattutto Fortunato impersona sempre il fine letterato che vuole dimostrare di possedere ancora, in tempi già bui, una straordinaria padronanza della lingua che era stata di Virgilio e di Cicerone. Di questa sua raffinata, e per certi aspetti esclusiva, conoscenza si fece una bandiera. La trasformò in strumento di graziosa cortesia nei riguardi dei suoi benefattori, una carta di credito in un ambiente in cui voleva fare carriera.

E tuttavia si rischia di non comprendere a fondo le motivazioni che indussero Venanzio a sciogliere il suo voto in modo così ampio e coinvolgente, se non si tiene conto della centralità della figura di Radegonda nell’esperienza esistenziale dello scrittore.

Una lettura in filigrana della personalità di Martino (e naturalmente delle modalità scritturali con cui Venanzio ha deciso di proporla) porta a vedere proprio la regina/monaca (e personalità dominante nel suo monastero e nella politica merovingia) dietro il guerriero/monaco/vescovo.

Le avventure personali di Martino e Radegonda nascono entrambe da una condizione di esilio spirituale.

*******

La Vita di san Martino si apre con una lettera a Gregorio di Tours, in prosa: al santo vescovo (anche lui intenzionato a scrivere su san Martino23 ) è dedicata l’opera. Prosegue con il prologo che è a sua volta una dedica: ad Agnese e Radegonda (42 esametri). Ricorrendo alla consueta similitudine del marinaio che deve viaggiare in un mare pieno di pericoli, Venanzio comunica paura e apprensione per l’opera che sta intraprendendo.

Il corpo vero e proprio della Vita è dato da quattro libri in esametri, in tutto 2243 (513, 490, 528, 712).

  1. Il primo libro percorre rapidamente gli anni del servizio militare, gli anni successivi al congedo, i primi anni del suo episcopato. Si chiariscono dunque disegno e impianto dell’opera incentrata prevalentemente sui 26 anni di episcopato di Tours. Nei versi proemiali, Venanzio ribadisce la sua pochezza poetica, la sua modestia intellettuale. E tuttavia deve sciogliere un voto, saldare un debito. Subito dopo Venanzio racconta i due episodi salienti della vita militare di Martino: il taglio del mantello ad Amiens, il congedo. Seguono alcuni episodi anteriori all’assunzione degli ordini sacri: un viaggio (oltre le Alpi, dice Venanzio, e si comprende che Martino arriva fino alla sua città natale perché lì converte la madre); la cattura da parte di una banda di predoni; una tentazione demoniaca; la conversione della madre; dura e difficile lotta all’arianesimo e rapporti con Ilario di Poitiers; la fondazione del monastero di Ligugé; i primi due miracoli (resuscita un catecumeno e lo schiavo di un exmagistrato romano, Lupicino); lo stratagemma con cui viene fatto uscire dal monastero e costretto ad accettare la candidatura all’episcopato di Tours; la lotta al paganesimo (pone fine al culto di un falso martire, impedisce un funerale pagano, si sottopone ad una sorta di giudizio di Dio ordinando di abbattere un albero, ponendosi nella traiettoria di caduta e riuscendo a fermarlo a mezz’aria, distrugge più templi pagani); sempre nel quadro dell’impegno ad abbattere i simulacri pagani sfugge a due attentati; opera un miracolo a Treviri guarendo una fanciulla paralitica; è impegnato nella lotta contro le possessioni e le apparizioni demoniache (in un caso costringe un demonio ad annunciare l’imminente pericolo di una invasione barbarica); guarisce un lebbroso.
  2. Dopo un secondo, breve proemio (ancora l’immagine delle difficoltà di un viaggio per mare), Venanzio racconta la miracolosa guarigione della figlia del nobile Arborio e di Paolino, il magistrato romano che diventerà vescovo di Nola; la guarigione di Martino stesso, vittima di una rovinosa caduta; la partecipazione ad un banchetto offerto in suo onore dall’imperatore Massimo con il comportamento sconvolgente di Martino; la conversazione con gli angeli e diversi momenti della sua lotta contro le presenze demoniache (in questo contesto Martino confonde il monaco Anatolio che vantava rapporti con gli angeli e in realtà era posseduto dal diavolo); la cacciata di un diavolo che si era presentato nelle vesti splendenti del Cristo; altri momenti della vita e della celebrazione di Martino (la sua umiltà, il suo insegnamento, i rapporti con Paolino di Nola). Il libro tratteggia poi il ritratto morale di Martino e prefigura il suo trionfo in cielo. Si chiude con la preghiera di Venanzio di poter essere degno continuatore dell’illustrazione dell’opera di Martino dopo Sulpicio e Paolino.
  3. Ancora alcuni versi proemiali, in apertura del terzo libro (sempre similitudine marina: vengono citati Sulpicio e anche Gallo) e poi la corposa esposizione di un secondo episodio di nudità rivestita. Martino opera poi due guarigioni miracolose (una avviene a distanza) e resuscita un fanciullo. Vive anche una curiosa avventura quando viene catturato da esattori del fisco e picchiato. Seguono due episodi che richiamano i rapporti tra Martino e gli imperatori Valentiniano e Massimo. Poi tutta un serie di episodi alla spicciolata: la paglia su cui ha riposato Martino diventa un’arma contro il demonio; liberazione di una vacca posseduta; un leprotto viene salvato dai cani famelici che lo inseguono; alcune battute spiritose di Martino. Quindi Martino convince un exsoldato a non lasciare la vita monacale per quella coniugale. Ha poi rapporti diretti con gli angeli che lo tengono, tra l’altro, informato di quanto avviene al sinodo di Nîmes cui egli si era rifiutato di partecipare. Ha poi conversari diversi con personaggi della storia sacra, tra cui Maria e gli apostoli Pietro e Paolo. Il libro si conclude con la celebrazione di Roma e della cristianità.
  4. Ora Fortunato sente il porto vicino: l’autore è sempre inadeguato, ma la storia è molto bella e resta il debito da saldare. Segue una serie di episodi tra il meraviglioso e il miracoloso: viene guarita una bimba muta, un vaso d’olio che Martino ha benedetto non si esaurisce mai, un vaso cade senza rompersi, alcuni discepoli di Martino ammansiscono un cane nel suo nome. La parte centrale del libro è data dallo straordinario episodio della liberazione dei prigionieri radunati dal feroce Aviziano a Tours. Un’altra serie di eventi miracolosi: esorcismi (uno coinvolge ancora Aviziano), opposizione alla forza distruttrice della grandine, episodi di lotta al paganesimo, guarigione di una emorroissa, cacciata di un serpente, una pesca miracolosa. Il nobile Mario Arborio vede poi la mani di Martino ricoprirsi di pietre preziose durante una celebrazione eucaristica e successivamente Martino viene forzato a fare comunione con gli altri vescovi nel quadro delle persecuzioni contro Priscilliano. Seguono: un nuovo esorcismo, l’episodio una tempesta acquietata nel nome di Martino, una guarigione dalla peste, il curioso episodio di un monaco che cerca di riscaldarsi al fuoco acceso nella cella di Martino. Martino opera poi un ulteriore esorcismo sul monaco Brizio. Il libro, considerevolmente più lungo degli altri, si avvia alla conclusione: Fortunato celebra l’ultimo panegirico del santo e implora, per la sua opera ma anche per la sua vita, l’intervento dello stesso Martino. Gli ultimi 90 versi costituiscono il famoso congedo col quale Fortunato accompagna il suo libretto fino a Ravenna, là dove ha ricevuto miracolosamente la vista e dove dunque si è originato il debito che l’opera viene a saldare.
    Dunque, ecco le conclusioni che si possono trarre sulla struttura dell’opera di Venanzio.

 

  1. La materia, con esclusione della parte iniziale del primo libro, appartiene tutta ai 26 anni durante i quali Martino ha esercitato il suo episcopato a Tours. La vita militare è ridotta essenzialmente all’episodio del mantello (Amiens) e al clamoroso congedo: si tratta degli eventi che segnano gli esordi e la conclusione dell’esperienza militare di Martino. Un centinaio di versi appena è poi dedicato al periodo tra il congedo e la candidatura a vescovo di Tours. In tutto sono appena duecento i versi che si riferiscono a esperienze ed eventi accaduti fori del periodo episcopale.
  2. La narrazione vera e propria viene troncata in modo abbastanza arbitrario sulla liberazione del monaco Brizio da una terribile possessione diabolica. In realtà questa scelta di Fortunato Venanzio nasconde una logica corretta: Brizio fu il successore di Martino nella sede episcopale di Tours, fece erigere sulla tomba del suo predecessore una basilica nella quale volle essere a sua volta sepolto. Fu insomma il vero iniziatore del culto martiniano anche se era diviso da notevoli contrasti e forse da antipatie personali da Martino stesso. Ma di tutto questo non è alcuna traccia nel racconto di Venanzio che dall’episodio trae slancio per avviarsi alla fine del suo dire e per celebrare in Martino una sorta di eroe della pace e della conciliazione. Più logica, suggestiva ed efficace sarebbe stata una conclusione affidata al racconto della morte e dei grandiosi funerali di Martino. La descrizione di quegli eventi che di fatto costituirono la consacrazione popolare della santità del vescovo di Tours, manca totalmente.
  3. Di questo tenuto conto, la materia appare distribuita in modo abbastanza casuale e frammentario nei quattro libri. Per fare un solo esempio: nella parte iniziale del secondo libro si parla di un invito alla corte dell’Augusto Massimo, avvenuto a Treviri, durante il quale Martino ebbe un comportamento fonte di scandali. Non si ricorda nemmeno che l’episodio accadde nel quadro dei convulsi mesi in cui fu celebrato il drammatico processo contro Priscilliano e i suoi seguaci. Massimo appare anche in seguito ma tra i due episodi, nel racconto di Venanzio, non c’è alcuna relazione. In generale in ogni libro appare qualche miracolo, qualche esorcismo, qualche episodio di lotta al paganesimo.

Certo Venanzio lavorò sui suoi modelli (molto più Sulpicio che Paolino, come si è visto) e certo la sua opera strettamente legata alla struttura di questi. Se pensiamo ad esempio alla genesi dei Dialoghi di Sulpicio, di fatto esemplati su una raffazzonata e poco scrupolosa raccolta di memorie di Gallo, scusiamo tranquillamente il nostro Venanzio. Il quale, oltre a tutto, scriveva dopo che erano venute meno le forti tensioni ideali e pratiche che avevano innescato il lavoro dei suoi predecessori: difendere e imporre la figura di Martino (Sulpicio), rendere tale figura centrale alla religiosità europea (Paolino di Périgueux).

Venanzio è il fine letterato che vuole dimostrare di possedere ancora, in tempi già bui, una straordinaria padronanza della lingua che era stata di Virgilio e di Cicerone. Di questa sua raffinata, e per certi aspetti esclusiva, conoscenza si fece una bandiera. La trasformò in strumento di graziosa cortesia nei riguardi dei suoi benefattori e di carta di credito in un ambiente in cui voleva fare carriera.

E tuttavia si rischia di non comprendere a fondo le motivazioni che indussero Venanzio a sciogliere il suo voto in modo così ampio e coinvolgente, se non si tiene conto della centralità della figura di Radegonda nell’esperienza esistenziale dello scrittore.

Una lettura in filigrana della personalità di Martino (e naturalmente delle modalità scritturali con cui Venanzio ha deciso di proporla) porta a vedere proprio la regina/monaca (e personalità dominante nel suo monastero e nella politica merovingia) dietro il guerriero/monaco/ vescovo.

Le avventure personali di Martino e Radegonda nascono entrambe da una condizione di esilio spirituale.

Martino era stato in qualche modo destinato dal padre alla carriera militare fin dalla più tenera infanzia, con l’imposizione di quel nome guerriero (Martino, piccolo Marte cioè). E quando, dopo il trasferimento a Pavia, l’interesse del fanciullo per il cristianesimo fu reso evidente dalla frequentazione da parte di questi del catecumenato, il padre non fu contento della scelta del figlio. E ostacolò il ragazzo in ogni modo. Infatti, sfruttando una piega del regolamento che consentiva di anticipare a 15 anni l’arruolamento obbligatorio (usualmente previsto per i 17 anni), il padre gli fa compiere il giuramento militare praticamente nello stesso giorno in cui Martino depone la toga pretesta, simbolo dell’adolescenza.

Venanzio opera una scelta non casuale per gli esordi narrativi della sua opera: la spoliazione del mantello (è questo il periodo in cui Martino riceve il battesimo), il drammatico congedo dal servizio militare. Il primo legato al soldato giovanissimo, quasi imberbe, il secondo legato al soldato maturo, probabilmente ormai saturo e nauseato dell’esperienza in armi.

Non vi è dubbio che il quindicennio trascorso nelle file degli eserciti imperiali fosse sentito da Martino come un esilio morale, come un esproprio violento rispetto alla sua vocazione autentica.

(Del resto le stesse modalità con cui Martino viene eletto vescovo di Tours -rapito con uno stratagemma e costretto ad accettare la candidatura episcopale24 – dipingono una situazione di ulteriore esulanza psicologica rispetto alla vita ritirata della “laura” che rappresentava certo l’ideale esistenziale del santo).

Anche Radegonda era stata vittima di violenza fisica connessa a violenza morale. Ostaggio alla corte di chi aveva sconfitto la sua stirpe, riceve sì una buona educazione (nel parallelo: chi potrebbe dubitare che l’educazione ricevuta da Martino sotto le armi sia stata a suo modo una “buona educazione”?), ma è costretta a diventare la terza (forse la quarta, non è ben chiara la situazione matrimoniale di Clotario) moglie del re merovingio. Tenta la fuga, ma è ripresa e costretta alle nozze. E la sua vita diventa autenticamente esilio.

Si sentiva chiamata all’amore mistico, più che all’amore fisico. “Più parte di Cristo, che congiunta in matrimonio carnale” sottolinea Venanzio nella Vita sanctae Radegundis reginae. Sposa di un re di questa terra, ma mai separata dallo sposo celeste25 . E, nello stesso contesto, Venanzio ci racconta la feroce determinazione con cui Radegonda sfuggivo al talamo nuziale. Quando Clotario le si avvicinava, lei si levava dal letto con un pretesto, usciva dalla camera, stringeva vieppiù il cilicio sulle carni, si immergeva nella preghiera, si faceva penetrare dal gelo.

Nulla le sembrava insopportabile tantum ne Christo vilesceret: quando ritornava sotto le coltri era così intirizzita che né il calore del letto né il fuoco del camino riuscivano a rianimarla.26

E, al pari di Martino, anche Radegonda si spoglia dei suoi abiti.

Era, per lei, era una sorta di prassi, di abitudine mentale. Ogni volta che le fanciulle del seguito lodava no qualche suo splendido vestito, magari auro vel gemmis ornatum, lei se ne spogliava e, cercato il luogo sacro a lei più vicino, buttava il suo abito regale sull’altare.27

Si spoglia il giorno in cui, trovandosi vicino alla cella del santo Giumerio, fa un fagotto di tutta la ricchezza che ha indosso e lo mette nelle mani del sant’uomo. Identica cosa fa recandosi, in un’altra occasione, presso il beato Datdone. E naturalmente si spoglia il giorno in cui, ucciso suo fratello dal marito Clotario, essa decide definitivamente di darsi alla vita monastica. 28

Certamente questo spogliarsi si configura come ripulsa, come rifiuto del potere e del privilegio che gli venivano conferiti dal suo rango di donna andata sposa al re (che era anche l’uomo che aveva distrutto la sua famiglia). Ma è soprattutto il segno di una generosità assoluta, quasi una predisposizione sentimentale e mentale.

Annota Venanzio che mai presso di lei un povero faceva risuonare invano la sua voce (apud quam nec egeni vox inaniter sonuit). Credeva che sotto le vesti del mendicante si celassero le membra del Cristo. E ascriveva a sua perdita ciò che non le riusciva di dare ai poveri.29

E quando si reca a Tours, visita i luoghi martiniani (sancti Martini atria, templa, basilicam), non sa trattenere le lacrime (flens) ed anzi il pianto non riesce a saziarla (lacrimis insatiata): si toglie ogni vesta preziosa, ogni gioiello e depone tutto sull’altare del santo. 30

Dunque, nel racconto di Venanzio, Martino prefigurazione di Radegonda? E, inversamente, Radegonda che sceglie Martino come modello?

È certo che il giovane soldato che divide in due il mantello alla porta di Amiens non distribuisce il superfluo, piuttosto spartisce e comunica un privilegio.

“Un po’ di freddo in più per lui, un po’ di calore per il povero. Un unico, povero mantello è sufficiente per due: freddo e calore vengono ripartiti tra due poveri, freddo e calore diventano inconsueta merce di baratto. Ma, avvolto in quell’indumento, si rivelò il Creatore in persona: il mantello di Martino aveva rivestito il Cristo. Mai, alcuna veste imperiale aveva meritato tanto onore, il mantello bianco di un soldato vale più di una porpora di re” 31, annota Venanzio: come sottrarsi alla suggestione che stesse scrivendo di Martino e pensasse a Radegonda? Troppo puntuali i riferimenti alla veste che ricopre il corpo del Cristo, alla porpora regale (purpura regis).

La suggestione si precisa nell’episodio del tutto analogo che accade a Martino quando questi è già vescovo.

Un malato bussa alla porta del vescovo e chiede di essere rivestito, ha freddo, batte i denti. Martino ordina ad un suo diacono di provvedere, ma questi non lo ascolta. Allora si avvicina all’uomo, si toglie la tunica e gliela mette addosso. Poi chiama di nuovo il diacono e gli ripete che c’è un uomo nudo. Ma la nudità è, ora, la sua, a malapena celata dalla cappa episcopale. Stizzito, il diacono butta sulla strada una tunica di lana grossolana, fastidiosa ad essere indossata. Con grande umiltà e in silenzio, Martino se ne riveste e si avvia a celebrare messa.32

Se rileggiamo il testo latino, troviamo quasi le stesse parole spese per Radegonda, esattamente gli stessi giri concettuali:

…dum clamat egenus.
Tegmine pro nudi cupiens procedere nudus
nec partiris opem sed totum cedis egenti,
haec tua sola putans, petitus si nulla negasses,
ut magis esses inops, inopi dum cuncta dedisses.33

E quando incontra un lebbroso, Radegonda lo bacia.

Esattamente come faceva Martino, che col suo bacio sapeva guarire. Venanzio ricorda una guarigione avvenuta a Parigi. “… trovandosi di fronte un lebbroso che procedeva verso di lui. Quell’uomo era così malato che era divenuto straniero a se stesso: tutto chiazzato di macchie, completamente glabro, coperto di ulcere e di piaghe purulente; il suo passo era malfermo e la sua vista debole, il vestito a brandelli e l’espressione inebetita; pieno di pustole era il viso, mutilati i piedi e spezzata la voce. Il pallore aveva avviluppato quel disgraziato in un involucro innaturale.

Tutto d’un tratto il santo lo attira a sé per dargli un bacio: abbraccia l’uomo instillandogli un medicamento che lo libera dal male. Infatti non appena il lebbroso fu a contatto con la saliva benedetta delle sue labbra, il fardello della malattia fuggì a quel contatto che stillava balsamo medicinale. La fisionomia ormai scomparsa riemerge, nuova pelle ricopre il suo volto, sulla sua fronte deformata torna alla vista il suo aspetto naturale; i tratti del volto, a lungo cancellati, tornano a delinearsi.”34

Identico è l’atteggiamento di Radegonda. Anche lei agisce per restituire dignità e, se si può dire, “guardabilità” al lebbroso: porta acqua calda (ferens aquam calidam) e lava con cura ogni parte del corpo malato (facies lavabat, manus, ungues et ulcera et rursus administrabat, ipsa pascens per singula). E naturalmente lo bacia, anche lei lo ama con tutto il cuore (osculabutur et vultum, toto diligens animo)35. Nella vicenda di Radegonda, Venanzio aggiunge una annotazione che ritaglia in modo crudo la figura della regina. Dopo il bacio al lebbroso, essa, in qualche modo, si isola dal consorzio umano. Ha fatto, si direbbe, la sua scelta di campo.

Venanzio si rivolge direttamente a lei ed esclama: “O signora santissima, chi bacerà ora te che così abbracci i lebbrosi?”36 Un capitolo si chiude, un altro se ne apre: la fuga dal talamo e dall’abbraccio con il suo sposo terreno è compiuta.

L’immagine è quella della regina che si fa ancilla: delinea, Venanzio, una immagine molto vicina a quella di Radegonda quando descrive l’omaggio che rende a Martino, durante un banchetto, la moglie dell’Augusto Massimo. È la figura evangelica di Maddalena, ma anche di Marta e Maria di Betania.

“…E intanto la regina bagna in continuazione i piedi del santo con le sue lacrime, distesa a terra e tutta tesa ad esaudire gioiosamente i suoi desideri. E gioiosamente gli chiede di poter lei stessa preparargli il cibo: la sua affabilità ottiene quello che l’autorità di Massimo non era riuscita ad ottenere. L’imperatrice gli porta personalmente la sedia, gli imbandisce la tavola, gli versa l’acqua sulle mani: lei, da regina divenuta umile serva, gli reca lietamente i cibi che ha cucinato con le sue stesse mani. Per tutto il tempo in cui il santo siede a tavola, lei rimane in piedi, immobile. Porta quindi via i piatti e gli porge personalmente la coppa: serva capace, da sola, di soddisfare ogni desiderio di un solo uomo37.”

Di Radegonda, Venanzio, dice le stesse cose: lei, regina e signora del palazzo, era se stessa quando, fatta serva, serviva i poveri: devita femina nata, et nupta regina, palatii domina pauperibus serviebat ancilla.38

Che Radegonda sia Marta, del resto, Venanzio lo afferma esplicitamente: a chi è impedito, essa porge il cibo con il cucchiaio. E vuole essere lei di persona, nova Martha, a compiere l’atto di carità39.

Insomma Martino e Radegonda. Associati anche nei segni fisici: la cenere e il cilicio, ad esempio. Martino deve distruggere un tempio pagano e trova l’opposizione della gente del posto. Entra in penitenza per ottenere l’intervento di Dio: digiuna, si copre il capo di cenere, si veste di cilicio.40 Radegonda desidera soffrire anche durante il riposo: cenere e cilicio.41

E i miracoli.

I miracoli di Radegonda sembrano esemplati su quelli di Martino.

La regina guarisce una cieca di nome Bella42 , Martino guarisce Paolino il cui occhio è offuscato43 . Radegonda opera in continuità nell’esorcismo e nella cacciata dei demoni44 , esattamente come Martino. E talora le descrizioni coincidono alla lettera, con modalità del tutto analoghe.

Una volta Martino ha a che fare con un diavolo molto recalcitrante il quale si era impossessato di un cuoco: “E, dentro al corpo del posseduto, la bestia demoniaca era lacerata da terribili sofferenze perché le dita le impedivano di uscire dalla bocca. Allora, lasciando dietro di sé ripugnanti tracce del suo ripugnante ministero, la bestia immonda, in una scarica di ventre, fuggì dall’orifizio da cui escono gli escrementi (qua sordibus est via fluxu).”45 Esattamente come agisce Radegonda che costringe il diavolo che ha invaso e posseduto una donna a scegliere la via più sconcia per uscire: fluxu ventris egressus est.

Praticamente identico il miracolo del nocchiero –Martino e Radegonda sono lontani- che si trova in alto mare e viene assalito da una tempesta46 . E identico il rimedio: l’urlo che invoca il santo protettore. Il nocchiero di Martino è un pagano e dunque sollecita l’attenzione di un dio che non gli appartiene: “Martini deus, eripe nos!”. Il pescatore di Radegonda chiama direttamente la santa monaca: “Sancta Radegonda, dum tibi obedimus, non subdidamus naufragio, sed obtine apud Deum ut liberemur de pelago!”

E quando operano miracoli, i due santi sembrano dover avere il vuoto attorno a loro: allontanano tutti gli astanti perché così meglio realizzano il contatto diretto col dio cui debbono chiedere la grazia della guarigione.

Radegonda, venuta a conoscenza della grave malattia di una monaca, se la fa portare in cella e allontana tutti: hinc iubet omnes removeri.47 Martino, subito dopo aver fondato il monastero di Ligugé, viene informato della morte di un catecumeno. Accorre e, prima di operare il miracolo della resurrezione, vuole il vuoto attorno a sé: cella omnes iussit abire.48

Nello stesso periodo ridona la vita al servo di un magistrato romano, Lupicino. Anche qui: expulit hinc cunctos, solus solita arma requirens.49

Del resto il collegamento tra le due personalità è esplicitato dallo stesso Venanzio proprio nella pratica dell’operazione miracolosa. Nel momento in cui deve resuscitare dalla morte una bambina, Radegonda opera more beati Martini. Naturalmente prima di avere il contatto fisico con il corpicino per ritrasmettergli la vita, Radegonda chiude dietro a sé la porta della cella iubens longe discedere, ne quis sentiret, quid ageret.50

In questa trasparente osmosi di situazioni, merita attenzione anche l’episodio finale della vita di Radegonda in cui sembrano assommarsi e mescolarsi molti elementi che pertengono alla storia personale e al culto Martino.

Radegonda è alla fine dei suoi giorni. Un tribunus fisci di nome Domoleno (uno di quei funzionari abituati a spremere tasse e balzelli con ogni metodo) è gravemente debilitato in tutto il corpo. Gli riferiscono che la santa è lì vicino e lui accorre per essere guarito. Radegonda opera l’ultimo miracolo e però esige una contropartita, due anzi.

Domoleno dovrà dedicarsi alla costruzione di una basilica dedicata a Martino e dovrà rilasciare i prigionieri (se ne precisa anche il numero, sette: debitori insolventi, possiamo immaginare). 51 Notiamo la riproposizione di situazioni già note per Martino: rapporti conflittuali con gli agenti del fisco52 ; volontà di liberare prigionieri ingiustamente detenuti come nell’episodio di Aviziano53 e soprattutto, da parte di Radegonda, la voglia di legare la propria personale memoria all’erezione di un tempio che consacri definitivamente il culto di Martino.

Un rapporto ideologico fortissimo. Il monaco che è portato alla solitudine e al rigore ascetico e che deve invece essere vescovo controvoglia. Si trova a confrontarsi con problematiche civili e religiose: due realtà che Martino ha fatto coesistere nella sua esperienza quotidiana.

Come lui, ecco la figlia di una stirpe sconfitta, costretta ad essere regina e moglie: una violenza, avvertita soprattutto nella condizione maritale. Preferisce l’ombra del chiostro e tuttavia non rinuncia ad essere nella storia del suo popolo. Martino e Radegonda trovano nell’amore per gli umili questo tratto forte che rende sopportabili le contraddizioni dell’esistere.

Venanzio scrive di Radegonda e Martino, delinea un unico ideale umano.

DEDICA A GREGORIO54

Fortunato a Gregorio vescovo55 ,
signore santo e apostolico,
piissimo in Cristo, mio carissimo padre.

  1. Un animo affettuoso considera con affetto e accoglie anche ciò che è stilisticamente imperfetto. Epicheremi, ellissi, dieresi, digressioni56 : sono cose che lascerò agli oratori, ai retori e a tutti coloro che sono soliti decorare con complicati artifizi quanto dicono. Quelli insomma che ostentano le loro vesti da attori tragici57 , abituati come sono ora a cucire ora a dilatare i loro discorsi. Siate indulgente, affettuoso, caritatevole; mettete da parte il rigore severo degli specialisti. Tu58 ti muovi meglio su un terreno che io conosco poco, quello delle discussioni prodotte dagli artifizi degli antichi e dai sofismi dei moderni. Del resto te lo spiegherà a viva voce il latore di questa lettera: quando si sta mietendo59 –proprio nel momento in cui è si immersi nel lavoro della mietitura, voglio dire- non è possibile né badare ad ogni singolo elemento né aggiustare tutti i particolari.
  2. Mi affido dunque tutto e in modo particolarissimo alla vostra santa e dolce dignità episcopale60 : mi aspetto una ininterrotta preghiera per il tuo servo. Ecco ora la mia proposta: quando avrete deciso che siano messi in versi gli scritti in cui, con l’aiuto di Cristo e per intercessione di Martino, proprio di questo santo avete raccolto i miracoli61 , fate in modo e disponete che me ne sia recapitata una copia.
  3. Del resto, per concessione e grazia del Signore, io ho già messo assieme (in due libri la prima parte e in altri due il successivo dialogo62 ) quanto un uomo della forza espressiva di Sulpicio ha scritto sulla vita di Martino in un solo libro in prosa con delle aggiunte in forma dialogica. In questo modo, con i miei versi, negli ultimi sei mesi ho dissodato in quattro libri quella sua ponderosa opera: molto brevemente e condizionato dalla povertà dei miei mezzi. Di corsa e in modo rozzo, distratto da questioni futili e presuntuoso più che di efficace parola.
  4. Dedicherò questi libri al mio signore, al mio caro signore Martino, se gli viene concesso un congedo63 ; avrò inoltre cura di farli ricopiare il più velocemente possibile sui quaderni64 che mi avete mandato. Di sicuro continuerò a chiedere che il suo amore, rafforzato dalla vostra sollecitudine, non cessi di intercedere per noi, suoi umili e devoti servitori. Dolce padre, perdonate tutte queste macchie: colpa della pioggia che mi è caduta addosso mentre ero intento alla mietitura65 . Prega per me, santo signore e mio dolce padre.

AD AGNESE E RADEGONDA66
PROLOGO ALLA VITA DI SAN MARTINO

vv 1- 10 Quando un inesperto marinaio spiega le sue vele sul mare ribollente e, impreparato, ne affronta le acque tempestose; quando, al largo, il mare ringhia e ulula rauco, quando rumoreggiano le veloci onde e i marosi terrificanti; quando il mare si gonfia e rovescia montagne d’acqua mentre, quasi scogliera in movimento, si solleva la piatta schiena del mare -ondate che strappano i relitti dei naufragi dagli scogli fra i quali irrompono e urlano liquide valanghe-; i cerulei marosi avviluppano e squassano la barchetta che segue la sua incerta rotta sulla distesa delle acque.

vv 11-20 La tempesta aumenta di furore e la schiuma sferza l’aria, il mare cupo si ribella e invade il cielo: allora, scagliato dai flutti, il marinaio vola attraverso le nubi e la sua prua avanza sospesa nel vuoto. Se la prua si leva in alto, la poppa si inabissa nell’arena: l’imbarcazione oscilla e beccheggia, preda del capriccio dei flutti. Ecco, ora in alto, le onde marine, furibonde e rovinose, mentre il mare aizza l’ira delle acque, ecco il vascello, sbalzato dalla forza del mare e del vento, vola lontano dagli abissi marini.

vv 21-26 Il mare in tumulto atterrisce l’imprudente timoniere: si chiede, impaurito, quale rotta scegliere in così grande difficoltà. Stordito, inquieto, privo di forze, sconvolto, combattuto da dubbi e affanni, il navigatore di colpo si sente perduto, bisognoso di aiuto. Perde il controllo del timone che dovrebbe reggere con perizia e si lascia andare, schiacciato dal peso delle acque, ignaro dell’arte marinaia.

vv 27- 42 Allo stesso modo, o venerabile Agnese, o santa Radegonda cui tributo ogni devozione, io, il più piccolo tra i piccoli, ho promesso di portare in alto i miei passi, ma trovo tanti ostacoli perché le mie forze non bastano e tuttavia sono ordini perentori quelli che mi premono addosso. E il mio ingegno vacilla, non irrorato dalla linfa delle Muse; la mia mente è un lago inaridito che non sgorga dalla bocca. Io desidero ardentemente celebrare il santo Martino, i cui meriti uguagliano l’altezza delle stelle, ma la mia vena67 è disseccata. Chiedete per me a Martino che la mia nave non soffra fino a naufragare, che gonfi col suo soffio le mie vele. E confiderò che le vele possano –con l’aiuto della fede- giungere in porto solo quando sarà lui ad alitarvi sopra. Sorreggetemi con le vostre preghiere e chiedete parole a Dio che è Parola: se quella fontana zampilla, io sarò almeno esile ruscello che cerca la sua via. Date quello che Dio68 vi renderà con gli interessi, affinché io possa congiungere i miei magri talenti ai suoi tesori.

PRIMO LIBRO
DELLA VITA DI SAN MARTINO,
POEMA DI FORTUNATO, PRETE

Fortunato non è che l’ultimo dei poeti e si scusa per la pochezza del suo dire. Ma questo poema che si accinge a comporre è dovuto, è lo scioglimento di un voto a san Martino che lo ha miracolosamente guarito

vv 1- 49 Dopo che il Cristo, colui che troneggia nell’alto, fece ritorno al cielo, recando nella sua carne gloriosa i segni della vittoria, trionfante e splendido per le spoglie strappate al carcere infernale, lui che aveva sconfitto le leggi di morte del padrone degli inferi, lui che, nella sua potenza infinita, aveva frantumato le muraglie d’acciaio dello Stige69 e aveva strappato da quel luogo crudele – a migliaia!- una folla immersa in tenebre antiche, un esercito intero di prigionieri attraverso i battenti spalancati delle porte infernali, dicevo dunque, non appena fu risalito alle stelle e andò ad occupare il suo trono alla destra del padre70 , i miracoli da lui compiuti durante la sua esistenza terrena e rivelati dei libri evangelici, furono celebrati in lingua ebraica, e in greco, e in latino: un racconto in prosa, reso in una lingua quotidiana. Il primo, dunque, a cantare l’opera della divina maestà mettendola in versi e ad esporre nel suo carme l’ordinata successione degli eventi, fu Giovenco71 . Da qui si irradiarono le parole di un mirabile scrittore come Sedulio72 e, con linguaggio fiorito, Orienzio73 condensò i suoi brevi scritti. E Prudenzio74 , saggio e dotto, innalzò doni votivi ai pii martiri, raccontando la loro vita. Paolino75 , insigne per la sua fede e nobile di nascita e di cuore, espose coi suoi versi gli insegnamenti del maestro Martino. E Aratore attraversò, lui poeta dalla fertile parola, le vicende e gli atti degli apostoli, le loro gesta, insomma, come diciamo noi.76 Infine la successione dei santi eventi, già narrati dall’autore della Genesi, dal vescovo Alcimo77 è stata ripresa con straordinaria acutezza.

La mia è una ben povera intelligenza e io non sono che una infima parte della cultura italica. La feccia mi zavorra, la mia parola vale poco, i miei ragionamenti sono lenti. E poi: spirito ottuso, tecnica scadente, scarsa pratica, parola impacciata mi costringono a qualche sorso appena al ruscello della grammatica. A me, che vorrei dissetarmi almeno un po’ al mare della retorica, la cote della critica è riuscita a ripulire ben poca ruggine78 . Ciò che un tempo avevo appreso, l’ho disimparato e di tanta scienza resta, nelle mie narici, soltanto il profumo. Addosso non mi risplende il laticlavio della pretesta e nemmeno la mantellina79 , mi resta soltanto, nella povertà del mio eloquio, un gran desiderio di fama.

E dunque: circondato dalle vette di simile santa poesia, dai fiumi di tanta scienza, dai prati luminosi di tanta eloquenza, come potrò io, che non sono impreziosito da alcun fiore, intrecciare una ghirlanda e versare il mio povero assenzio in ruscelli di miele? E tuttavia a intraprendere questo lavoro, mi ha spinto quel famoso evento80 : altrimenti mi sarei reso colpevole di un grave fallo. È dunque una ragione importantissima a indurmi a tessere il panegirico del vescovo che è stato all’origine della mia venuta in questo paese.

E allora sarò io degno di porre mano alle gesta del beato Martino generato dalla Pannonia, in cui risplende la luminosa Sabaria81 , e di raccontarle con la mia lingua balbuziente? Martino non ha certo bisogno delle mie oscurità, lui che brilla di luce folgorante, un faro che splende alto nelle Gallie e che spinge la sua luce fino all’India.

Alla porta di Amiens, durante un inverno rigidissimo, Martino, giovane soldato, spartisce il suo mantello con un povero, il quale si rivela essere il Cristo

vv 50- 67 Martino era ancora un ragazzo, appena entrato negli anni dell’adolescenza.82 In un inverno di freddo glaciale la terra induriva, come onda; la rigida stagione imbrigliava i marosi con un morso di ghiaccio ed era imprigionata e scomparsa anche la vagabonda libertà dei fiumi: la crosta di ghiaccio si faceva via via più spessa perché l’acqua, traendo da se stessa i suoi legami, diventava sempre più fredda, sotto la sua rigida tunica.

Alla porta di Amiens gli si fece incontro un mendicante. Martino tagliò in due il suo mantello, unico riparo che gli era rimasto, ponendolo, segno di fervida fede, sul corpo intirizzito: un po’ di freddo in più per lui, un po’ di calore per il povero. Un unico, povero mantello è sufficiente per due: freddo e calore vengono ripartiti tra due poveri, freddo e calore diventano inconsueta merce di baratto. Ma, avvolto in quell’indumento, si rivelò il Creatore in persona: il mantello di Martino aveva rivestito il Cristo. Mai, alcuna veste imperiale aveva meritato tanto onore, il mantello bianco di un soldato vale più di una porpora di re. Così Martino ricevette l’acconto dei suoi poteri e il pegno dell’amore divino.

Martino rifiuta i donativi militari e vince una battaglia presentandosi inerme in prima linea

vv 68- 77 In seguito, nel periodo in cui barbari feroci aggredivano le frontiere della Gallia e nemici minacciosi premevano ai confini dei Vangioni83 , il santo rifiuta ogni donativo militare. A causa di ciò, Giuliano ribolle dell’ira terribile dei potenti: ordina che quel giusto sia rinchiuso e che all’indomani sia fatto avanzare a combattimento per primo. Il santo allora proclama che marcerà inerme davanti alla schiera. Giunge il momento della battaglia: il nemico chiede pace. La preghiera di un solo uomo spense il furore di una intera armata: solo, senza spargimento di sangue, Martino sconfisse un esercito immenso.

Martino si imbatte in una banda di ladroni e converte il suo aguzzino

vv 78- 87 Decise, qualche tempo dopo, di attraversare le Alpi e andò a cadere in un covo di ladroni. Lo legarono con le mani dietro la schiena e uno lo trascinava. Ormai la morte era vicina ma ugualmente egli cercava il modo di essere utile al suo aguzzino. Martino gli chiede di poter pregare il suo dio e il ladrone prende a credere: voleva uccidere e ora già attinge salvezza dalla sua bocca. È proprio quell’uomo feroce, con addosso le catene della fede, ad essere rapito: il predone si fa spontaneamente preda di Martino. Pietoso lui con la sua vittima, ma quanto più forte l’amore di Martino per lui! Salvi entrambi e ben vivi: il ladrone nella fede e Martino nel corpo. Duplice salvezza: tutti e due si salvano, tutti e due vincono.

Martino confonde il diavolo tentatore

vv 88- 103 Poi Martino si trovò ad attraversare la bella regione di Milano, viandante che calcava campi in fiore e praterie verdeggianti. Si vide venire incontro l’antico, temerario nemico84 , che si celava sotto le false fattezze di un uomo. Ciarlatano, sleale, orditore di inganni: gli chiede dove stia andando. Martino gli si fa vicino e gli risponde che si sta affrettando alla meta che gli era stata indicata da Dio. Gli replica il malvagio nemico: «Ovunque tenterai di andare, ti verrò dietro cercando di recarti danno e di ostacolare i tuoi progetti ». Pronta la risposta di Martino che parla con la voce del profeta: «Il signore è il mio aiuto, nessun male mi farà paura. Non avrò a temere chi teme, perché è Dio che io temo, la difesa di coloro che temono. Guidato dall’alto, io procedo sicuro tra i pericoli. Nessuno potrà tendere agguati a chi è sotto la protezione divina »85. Questa la sua risposta e il diavolo, trafitto dalla punta di una parola tanto efficace, si allontana. Così si ritira l’apparizione davanti a colui sul quale Dio proietta la sua ombra.86

Martino converte sua madre

vv 104- 107 In quel periodo Martino sciolse sua madre dall’errore del paganesimo: essa lo aveva generato alla vita terrena, lui la generò alla vita celeste. Una vecchia logora che rinasce nel fiume della grazia, una madre rigenerata in un più puro ventre ad opera delle sue stesse viscere.87

Martino, nella sua lotta all’arianesimo, viene torturato ma sopporta ogni supplizio

vv 108- 122 La dottrina che Ario aveva diffuso con la sua bocca sacrilega aveva devastato il mondo intero, simile a uragano furioso.88 Il naufragio aveva travolto soprattutto l’Illirico89 , sotto l’imperversare di quelle parole eversive. Anche da qui sorsero per il giusto nuove battaglie che resero più valoroso quel guerriero rinnovando le sue armi e rendendolo pronto, attraverso tanti pericoli, alla battaglia della fede. Quell’eroe della pietà, di spirito acuto, fedele campione della fede, nella sua lotta contro il nemico per arrestare l’espandersi dei veleni dell’eresia, fu straziato dalle torture, flagellato, cacciato dalla città 90. Sotto tortura proclama che il Padre, il Figlio e lo Spirito sono della stessa sostanza, sono della stessa natura, dello stesso genere, specie, potere, luce e dignità. E che la loro volontà è unica distinta in tre persone. Duri flagelli mordono la fragile carne dell’eroe e tormenti degni di un veterano lacerano la recluta del Cristo. E tuttavia il supplizio più grave diventa sopportabile nel nome di Colui che ama91 .

Ilario di Poitiers, campione della lotta all’arianesimo

vv 123- 145 Ilario92 , vetta suprema della fede, del valore e della dignità ecclesiale, irradiava sul mondo i dardi della sua fama e reggeva, con la forza del magistero sacerdotale, le regole basilari della Chiesa. Lui, terribile buccina di guerra, tromba della legge, araldo del Dio tonante; più bello dell’ambra, più luminoso dell’oro fuso tre volte, più largo del Po, più tumultuoso del grande Rodano, più fertile del Nilo, più esteso del generoso Danubio; pronto a riversare i flutti traboccanti del suo cuore, a irrorare le anime assetate alle fonti del suo pensiero -intelligenza ricolma dei quattro libri evangelici-, a far sgorgare sul mondo con la sua parola quei quattro nuovi fiumi; straordinario ornamento della Chiesa, diadema fiammeggiante e fulgido, tra le membra del Cristo, come la benda sul suo capo; animo combattivo, eloquenza dura come il topazio, spirito che nessun nemico poteva scuotere e distogliere dalla lotta per la fede, eloquio prezioso come le perle, parola più brillante delle gemme; dottore apostolico, capace di inficiare ogni ragionamento dei sofisti, educatore di discepoli grazie alla sua dottrina e alla luce della sua fede e della sua virtù: era dunque un ostacolo insormontabile per i suoi nemici i quali lo esiliarono nella lontana Seleucia93 dove il soldato di Cristo ottenne, con l’aiuto del suo Re, la ricompensa che gli spettava. Ma durante la sua lontananza la Gallia, abbandonata a se stessa, cede all’eresia e l’intero paese, squassato da una simile macchina da guerra, vacilla.

Vicissitudini di Martino a Milano e nell’isola di Gallinaria

vv 146- 154 Martino ne venne a conoscenza e subito andò a stabilire il suo eremitaggio sotto le mura di Milano, ma da qui fu scacciato da Aussenzio94 , malvagio fautore dell’eresia. Allora il santo esule raggiunse il luogo in cui si innalza Gallinaria95 : isola priva di qualsiasi coltura, in grado di offrire, come nutrimento, solo radici ed erba. Fu così che, di lì a poco, Martino mangiò il velenoso elleboro: l’alimento dal quale aveva creduto di trarre di che sopravvivere, cominciò ad ucciderlo. Ma bastò una sua preghiera a rendere innocuo quell’orribile veleno: la vita riprese in lui mentre moriva ciò che stava per causare la sua morte.

Martino fonda un monastero e opera prodigi: desta un catecumeno dal sonno della morte

vv 155- 178 Quando ad Ilario fu di nuova concessa la possibilità di tornare, Martino, il giusto, si affrettò a correre sulle sue tracce. Ilario accoglie con affetto quel discepolo tanto affettuoso, con amore quel discepolo innamorato96 . Martino fonda un monastero vicino alla città di Poitiers97 e subito si accompagna a lui un catecumeno che vuole apprendere dalle sue sante parole, ma durante un’assenza di Martino, una orribile morte gli strappò il compagno. Martino -alla sua assenza era imputabile la morte- fa immediato ritorno: torna l’amore e, insieme, un pegno di vita. Appena vede il corpo reso di ghiaccio dalla febbre, prende a piangere, a lamentarsi, a gemere, a urlare. Gli corre vicino, si sente bruciare dall’angoscia: raccogliendo la sua fede, ordina a tutti di uscire dalla cella, li manda fuori, oltre le porte. Resta solo, senza testimoni. Allora, infiammato d’amore, si stende sul corpo ghiacciato; ordina, in nome del Giudice, che il Tartaro rigetti il defunto. Indugia così per due ore, ed ecco tornare l’aspetto esteriore, gli umori vitali prendono a circolare nel corpo, le gote si arrossano e le pupille tornano a colorare gli occhi, tornano le facoltà visive, torna a vedere. Il sangue scorre e le vene si gonfiano al rianimarsi del cuore. Lo scheletro ancora vacilla ma poco a poco il corpo si raddrizza e, insieme al suo ospite, risorge dalla prostrazione tutto il monastero. Il catecumeno rinasce da se stesso, ad un tempo padre ed erede. Tornato alla vita98 , riferisce di essere stato condotto davanti al tribunale divino per essere condannato, ma le preghiere di Martino lo avevano riportato indietro.

Altro prodigio: Martino resuscita una schiavo di Lupicino

vv 179- 201 Martino stava attraversando, con passo veloce, il fondo di Lupicino99 quando apprende che uno schiavo, ahimè, è morto di una morte terribile: si era impiccato come una bestia, spezzandosi il collo. Entra nel luogo dove, preda della morte, giaceva l’infelice impiccato. Manda fuori tutti e, una volta rimasto solo, ricorre alle consuete armi: si stende sopra le livide membra del cadavere, lo stringe con l’arca del suo sacro corpo, perché non sia l’arca del sepolcro a stringerlo. Non appena le sue preghiere raggiungono l’orecchio del Dio che è fonte di vita, la Morte volge indietro il suo piede, prende a fuggire, abbandona la preda. La Vorace, rigetta il bottino dalla bocca sempre affamata. Il morto, con sforzo protratto, si raddrizza: era già polvere e ora si solleva100 , si muove, si rianima grazie al calore vitale, alza il suo fragile collo e le palpebre rese pesanti dal sonno della morte, a fatica schiude gli occhi, svegli sì, ma lo sguardo è ancora torpido. Nelle sue narici persiste il tanfo della morte. Ma, ecco, a sostenerlo, la mano di Martino: raddrizza tutte le membra e lo scheletro rimane saldo, sui piedi ormai rinfrancati. Rinasce e, con la forza della sua mente, reimpara a camminare. Vuole ringraziare il santo per avergli donato la vita e cerca di accompagnarlo al vestibolo della casa, lui che dalla porta della morte, già defunto, è stato appena strappato. Il giusto riceve questo premio come ricompensa. Gloria a te, o Cristo, che operi questi miracoli nel mondo.

Con uno stratagemma Martino viene fatto uscire dal suo monastero. Viene eletto vescovo e fonda un nuovo monastero

vv 202- 222 Accadde che gli abitanti di Tour lo reclamassero come loro vescovo101 , ma non c’era modo di indurlo a oltrepassare la soglia della sua cella. Allora un tale di nome Rusticio finse che sua moglie avesse la febbre e lo pregò: ottenne che il santo lo seguisse. Da ogni città accorrono sempre nuove folle, ripiene di gioia per quella loro santa preda, ben attente a tenerlo sotto custodia, perché quel giusto non abbia a fuggire102. Anche se qualcuno gli è contrario, l’innocente viene ugualmente eletto. Lo trascinano, viene consacrato, prende possesso del seggio episcopale. Ad avversarlo c’era soprattutto un vescovo, Defensore, che voleva impedire al pastore di allevare il suo gregge. Ma il giudizio del Signore non si fece attendere: Defensore si riconobbe nel versetto di un salmo, intonato da un lettore: «La bocca dei fanciulli e dei lattanti canta la tua gloria immensa, tu che sai così bene confondere il difensore103 ». A quel segnale favorevole che indicava l’errore di Defensore, le acclamazioni della folla si alzano fino al cielo, le grida si spandono ovunque e riempiono la chiesa. Defensore riconosce da solo il proprio sbaglio, grazie alla testimonianza del profeta. Successivamente Martino costruì, al riparo di un’alta rupe, un monastero secondo le sue intenzioni, volendo persistere, pur nella pienezza del suo ruolo episcopale, nella condizione di monaco. Lì convergono numerosi -a sciami- santi monaci.104

Martino pone fine al culto di un falso martire

vv 223- 234 Nei dintorni c’era un luogo da tempo molto frequentato. Una questione ormai antica, dati i molti anni trascorsi: ormai era diffusa la fama che lì si venerasse un santo martire. Ma il giorno in cui il santo si mise a pregare vicino al tumulo, un fantasma si levò dalla parte sinistra del sepolcro, una apparizione così cupa che già senza parlare esprimeva chi in realtà fosse. Martino gli intima di dire il suo nome e quale sia stata la sua vita. Il fantasma risponde che è un ladrone, giustiziato per i suoi crimini, e che nulla ha in comune con i santi martiri ai quali è riservata la palma, mentre a lui era toccato un ben tristo supplizio. Tutti odono, ma solo Martino vede: dopo tale responso, viene vietato quel culto superstizioso. L’altare è distrutto e il fantasma messo in fuga.

Martino impedisce un funerale pagano

vv 235- 248 Un giorno si mise per strada. Si imbatté nel funerale di un pagano e nel corteo che devotamente la accompagnava. Martino pensa che si tratti del trasferimento di idoli per una cerimonia pagana e subito traccia all’indirizzo del corteo un segno di croce. E la croce, segnale della fede, corre avanti Martino, preannunciando la sua lotta. La folla davanti a lui procede con passo torpido, si blocca, si irrigidisce; poi, come rapita da un vortice prende a girare su stessa. Il fardello che essi portano aumenta sempre più e sono costretti a deporre dalle loro spalle il cadavere: non riescono proprio a reggerlo e il peso del morto continua a crescere. Solo ora il santo si rende conto che si tratta di un funerale: alzando le mani una seconda volta nel segno della croce, intima che si allontanino. Quel segno, nato dalla sua grande pietà, aveva arrestato il corteo, quello stesso segno ora lo libera: i suoi ordini attraversano lo spazio inviati dalla stessa mano. Ed era stato un sospetto a spingere il vescovo ad operare quel prodigio.

Martino sventa prodigiosamente il pericolo di un albero che si abbatte su di lui

vv 249- 279 In seguito concepì il progetto di bruciare un antico tempio pagano. Impartì l’ordine di abbattere anche un pino che vi era addossato. Ma ecco farglisi contro un folto gruppo di contadini deciso a lottare per impedire che venga tagliata una pianta nata per il fuoco e ad esso votata105. Alla fine accettano che l’albero sia abbattuto, alla condizione, però, che Martino riesca a trattenerlo mentre cade. La folla è d’accordo, il vescovo si impegna senza esitare. Le sue fragili membra vengono portate sotto il tronco massiccio: tutti guardano in alto aspettando la rovinosa caduta del pino. Rimbomba l’albero, sottoposto ai veloci colpi delle bipenni, scricchiola il tronco, oscilla la cima, sta per cadere. Sconfitto dalla scure, si inclina e poi comincia la sua rovinosa caduta. In preda all’angoscia, i monaci osservano gli ultimi istanti del loro maestro, convinti che i rami stiano per trafiggere il corpo del giusto. Martino, al contrario, resta immobile, intrepido, opponendo al crollo del pino l’arma della croce per aggiungere quel trionfo alla sua lotta. L’albero sta già per cadere ed eccolo arrestare nell’aria, ben distante, la sua caduta: teme Martino, lo fugge, riprende la sua posizione, torna com’era prima. Anzi, ributta indietro rami e foglie in direzione opposta e trattiene, contro ogni legge fisica, la sua caduta, librandosi nel vuoto. Tagliato e inarcato al contrario di come la natura vuole, si indirizza in direzione opposta a quella che il suo peso lo obbligherebbe a prendere. E poi un furioso vortice lo rivolge contro i contadini: il pino rimbalza contro il declivio, per punire con terribile vendetta i nemici: strumento previsto per dare la morte, diviene strumento di castigo, proiettato verso la salvezza. Clamori sorgono da una parte e dall’altra: i monaci piangono per la gioia, i pagani sbigottiti da quell’inatteso prodigio, impallidiscono. La volontà di questi uomini ormai è mutata: essi chiedono l’arma della croce, abiurano al loro errore, si convertono. L’orrore, in loro nato a causa del pino, li porta all’amore per Martino. È dopo essere stato abbattuto che quell’albero ha prodotto i suoi frutti migliori.

Martino spegne un grande incendio da lui stesso appiccato per distruggere un tempio

vv 280- 298 Poi ordina di appiccare il fuoco al fastigio di un altro tempio, ma le lingue di fuoco prendono a divorare una casa vicina. Le fiamme avanzano prepotenti, senza che nulla le possa frenare. Lui stesso, allora, vola in direzione del globo di fuoco, sale sul tetto della casa, da qui comincia a pregare. Subito l’incendio muta direzione, prende ad infuriare contro i venti: l’ardente Vulcano soffia contro Borea. Elementi tra loro affini si ribellano l’uno all’altro, si fanno la guerra. Ecco le faville combattere contro gli zefiri contrari: da una parte preme il furore australe, dall’altra le fiamme volano con ali veloci per mordere nell’aria le penne di Borea. Il combattimento dura a lungo nel cielo, ma alla fine è vinto in questo sovvertimento delle leggi fisiche perché il vento prende a fuggire davanti alle fiamme che normalmente alimenta. Evento che desta stupore in tutto il mondo: i venti temono le fiamme, le fiamme non osano attaccare le travi, il fuoco affamato teme il suo naturale nutrimento. Poco a poco le lingue di fuoco si smorzano, si riassorbono. Il fuoco che normalmente brucia, ora si consuma in se stesso. E Martino, con la sua fede, fa piovere senza che ci siano nubi.

Martino distrugge ancora un tempio con l’aiuto degli angeli

vv 299- 324 Ancora un tempio che Martino cerca di abbattere: una folla di contadini vuole impedirgli di distruggere il loro santuario pagano e lo respingono. Allora Martino si ritira per due giorni in un luogo vicino: digiuna, il capo cosparso di cenere e vestito di cilicio, implorando l’aiuto di Dio per la distruzione del tempio. Subito appaiono al suo fianco due angeli, due principi del cielo, armati di scudo ed asta. Si avvicinano al santo e prendono a parlargli: «Martino, noi siamo scesi dal cielo per difenderti. Ti vediamo avvilito, coperto di polvere ma ora è il Tonante che si fa carico dei tuoi affanni e, là in alto, l’intera volta celeste freme per corrispondere alle tue preghiere. E l’Olimpo guerriero si unisce a te con ogni sua arma. Attraverso noi, il cielo si batte con te, perché tu abbia a portare a termine la tua impresa. Per questo il Signore ha mandato noi due, a reggere il tuo campo, perché la buona causa sta avendo la peggio. Scuotiti ora, rompi gli indugi, guarda le nostre armi inviate ad impedire che i contadini ti si rivoltino contro. Il nostro compito è sconfiggere i superbi. Non aver più paura, corri a distruggere il tempio col nostro aiuto perché non può esitare colui che ha dalla sua parte il favore della potenza divina». Allora il santo muove all’assalto per distruggere al più presto il tempio, fa a pezzi le statue, abbatte il santuario, demolisce gli altari: tutto l’edificio, un tempo maestoso, è ridotto a povere. I contadini, da ostili che erano, ora aiutano la distruzione, con zelo si dedicano a radere al suolo quel luogo di iniquità, bandiscono i loro dei e professano il nome del Tonante. Con un unico atto di forza abiurano alla loro religione e ne accolgono un’altra.

Martino sopravvive prodigiosamente a due tentativi di ucciderlo

vv 325- 353 Martino aveva in animo di abbattere anche un tempio degli Edui106 . Gli si oppongono dei contadini, coltivatori di quelle campagne, i quali, nella loro ignoranza, pensano di non aver nulla di meglio da adorare, se viene cancellata la loro religione. Uno di loro, il quale eccelle per forza che male applica ad una temeraria impresa, progetta di troncare con la sua spada la testa del santo. Martino non esita a presentarsi a lui col collo scoperto. Nell’animo di quella belva, -intorpidita nel cuore ogni sensibilità- si raccoglie ogni furore, si acuisce la rabbia. Gli balza contro, erge tutto il suo corpo affinché il furore dell’arma abbia a colpirlo alla gola con doppia efficacia: il fendente tanto più devasta quanto da più in alto viene vibrato. Il malvagio stringe le dita sull’elsa, la artiglia con le unghie107 , calcola l’orribile devastazione che la sua destra sta per portare, lui, artefice di morte, innamorato del delitto, insolente e crudele. Nell’istante in cui sta per vibrare il colpo al capo di Martino, la sua spada rimbalza indietro e, proprio lui che un istante prima era proteso a colpire, ora si trova disteso al suolo. Eccolo: la schiena a terra e, un attimo fa, stava buttandosi in avanti per perpetrare il suo delitto. Il superbo è domato in tutto il suo corpo, la sua bocca invia una preghiera. Giace sul terreno e davanti a lui si erge il giusto mentre, nei suoi progetti, avrebbe dovuto essere lui ad avere Martino ai suoi piedi. I ruoli si ribaltano: il debole si erge, crolla l’arrogante. In un’altra occasione, deciso nella sua opera di distruzione degli idoli, un uomo stava preparando la sua spada per uccidere Martino. Nell’istante in cui sta per afferrarlo, al predatore viene strappata la preda che si accingeva a ghermire. Contro ogni legge naturale l’arma viene sbalzata via, vola lontano, prende la via leggera dell’aria e scompare per sempre. La spada gli è strappata: indifeso e disarmato, il brigante torna ad essere mite ed innocente. Tuttavia la violenza mai sarebbe caduta dal suo cuore se l’arma non fosse scomparsa. Insomma, un atto di bontà compiuto controvoglia e solo perché era andato perduto lo strumento che serviva a recare danno.

Martino tira dalla sua parte ogni suo nemico

vv 354- 360 Spesso il santo, con la forza della sua preghiera e della sua fede, riusciva a imporre proprio a quei contadini che gli facevano resistenza, di abbattere col loro aiuto i templi selvaggi così empiamente venerati. In tal modo i ribelli, abituali oppositori del vescovo, nel distruggere i santuari diventano essi stessi armi in mano al santo e dunque Martino conduce le sue guerre grazie a truppe che gli sono nemiche e fa trionfare la sua causa grazie ai soldati del campo avverso.

Martino guarisce una fanciulla paralitica nella città di Treviri108

vv 361- 428 A dire poi quanto potenti fossero le capacità del taumaturgo di donare salute, e quanta grazia sgorgasse dal suo tocco guaritore, ogni parola umana è impotente se raffrontata a così grandi meriti. È sufficiente che uno lo veda per essere risanato: le sue azioni, per loro stessa natura, gli servono copiosamente da testimonianza e da garanzia. Una volta quell’uomo pacifico entrò nella città di Treviri . Lì giaceva, malata da tempo, una fanciulla, tutta rigida, le membra inerti, minata dal gelido languore della paralisi. È vicina al suo ultimo respiro, sembra già sopravvivere a se stessa. Ha gli occhi vigili, sentinelle della sua morte, torce che accompagnano il suo corteo funebre. Il suo respiro corre a sciogliere il nodo della sua vita terrena, appena percettibile si muove nel petto ansimante. Le nari aspirano l’alito della morte, sull’incerto confine della vita.109 Non ancora sepolta e tuttavia già parte del sepolcro, distesa: i piedi, le mani, il volto, le gote già immagini di una cadavere. Il vecchio padre, annientato nel suo affetto e nel suo amore, le gote lacerate, i bianchi capelli scarmigliati, non accetta che non esista una cura. Viene a sapere che il santo, spinto dalla sua bontà, è giunto in città. Vola il vecchio, nonostante i suoi anni, come fosse un ragazzo, agile, a grandi passi, di corsa, sconfiggendo così la sua età. Martino è circondato da un muro di gente in subbuglio, vescovi e popolo. Tuttavia, senza esitare, il vecchio si butta in mezzo a quella folla vociante, perché un grande dolore non bada alle convenienze. Si precipita, il vecchio, e si butta ai piedi del santo. Con affettuosi baci gli sfiora le ginocchia, le mani, i piedi. L’infelice a fatica, così come glielo consentono i singhiozzi, prende a parlare: «Martino, uomo di Dio, nato per donare la salute alla gente, padre generoso con tutti, io ti reco la mia pena. Non permettere, tu fautore della misericordia, che siano versate invano le lacrime di uno sventurato. È per me che tu ti sei deciso a raggiungere questa lontana regione, è nel donare la vita che le fatiche del tuo viaggio troveranno coronamento. Io ho in casa una figlia, prostata dagli attacchi del morbo, ormai vicina alla morte, senza speranza di poter trovare un rimedio. Quando stava bene era tutta la mia gioia, attenta e affettuosa nei suoi doveri, amorevole, la dolcezza della mia vita, il sollievo della mia vecchiaia. E ora sta morendo e trascina verso la morte la mia stessa carne, trae nel Tartaro un padre sventurato, dai capelli ormai bianchi. Vorrei essere io il primo ad andarvi, ma pare che non sia consentito. Che vita resta ad un vecchio? Quali prospettive per un genitore quando viene strappata, con la morte dei figli, ogni speranza? Una volta sposata, mi avrebbe donato dei nipoti, e il mio sterile tronco avrebbe potuto rifiorire nei rami della discendenza. E invece eccomi qua, ora, a constatare la perdita della sua vita. Vedo strappare mia figlia, la mia luce, alla luce del giorno, mentre se l’ordine naturale fosse rispettato dovrebbe essere lei a chiudere gli occhi del suo vecchio padre. E dunque, santo padre, degnati di fermare il cammino della morte ingorda; soccorri, o ministro della potenza divina, la figlia che sta per essermi rapita. Se tu indugi, noi siamo morti: soccorrici entrambi. Il dolore mi ucciderà, se non si trova una cura per mia figlia». Il vescovo arrossisce, la sua voce si confonde, dice di essere ben indegno ministro di un simile prodigio. Ma il padre lo incalza, insistendo con queste parole: «Tu sei qui da noi, medico votato alla guarigione dei malati, prodiga le tue cure, che ognuno comprenda che tu sei qui dal fatto che hai sconfitto la malattia». Le parole convincono Martino. Raggiunge il luogo in cui giaceva malata la fanciulla. Il popolo rimane fuori, in ansia per ciò che il pastore sta per operare su una sua pecora. Martino per affrontare la prova fa ricorso alle sue armi: si distende al suolo, leva il suo pensiero a Dio. Poi si alza e fissa in volto la fanciulla: all’istante la voce torna nel luogo da cui era fuggita, la lingua torna a vivere, riprende a vibrare. Più l’olio di oliva penetra nelle sue membra110 , il corpo torna a vivere, resiste stabile sull’appoggio delle gambe e la testa, ben solida sul suo sostegno, ne rende sicuro il passo.

Martino scaccia un demonio

vv 429- 449 Ancora un prodigio. Un servo del proconsole Tetradio111 era diventato schiavo di un altro padrone, un demonio che si era insediato in lui, senza speranza di scampo. La rabbia gli faceva digrignare i denti, diventati ormai le armi di un altro in una guerra in cui lui non difendeva più se stesso, ma era soldato arruolato dal nemico. Il padrone supplica Martino di liberare il suo servo, ma questi non può essere condotto davanti al santo perché quel malvagio ospite e nemico lo impedisce. Allora Tetradio torna ad abbracciare i piedi del giusto e lo supplica di seguirlo là dove aveva il suo nascondiglio il crudele ladrone. Martino però non vuole entrare nella casa di un pagano. E Tetradio, umile a dispetto della sua alta carica, promette che crederà nel Cristo, se Martino riuscirà a strappare il suo servo al nemico. Martino impone dunque la mano, e il crudele demonio si ritira, la bestia malvagia fugge davanti al buon pastore. Nello stesso istante Tetradio chiede di essere accolto come catecumeno e viene rinnovato dall’onda del battesimo che reca salvezza. Così servo e padrone sono purificati delle loro macchie, il primo sciolto dai lacci del nemico, il secondo dal suo errore, l’uno libero dai tormenti della carne, l’altro delle afflizioni dell’anima: entrambi liberi, assurgono allo splendore di un duplice trionfo. Le condizioni cui era ridotto il servo regalano la libertà al padrone: il perfido demonio abbandona il servo e Tetradio accoglie in sé la fede.

Ancora un demonio cacciato

vv 450- 471 Caso volle che, non molto tempo dopo, il santo entrasse in una casa. Arrestatosi sulla soglia, disse di scorgere l’ombra spaventosa di un demonio. Quella belva feroce si era impossessata di un cuoco e tormentava la sua preda: con i denti, usati come armi, sbranava se stesso e i suoi compagni. Questi scappavano da lui, nessuno osava opporglisi, fuggivano a rapidi balzi, cercando faticosamente un rifugio sicuro, contenti se appena riuscivano a sottrarsi ai morsi. Martino, figlio di Marte, soldato, duro come l’acciaio delle sue armi112 , non cede il passo e non lascia nemmeno fuggire quel flagello: gli ordina di fermarsi mentre quello affila i denti nella sua bocca. Il santo uomo gli caccia le dita in gola e lo apostrofa: «Se ci riesci divora, lupo malvagio, la preda che ti metto in bocca: la cercavi fuori di te ed ora questo cibo si offre spontaneamente ai tuoi denti». A queste parole le fauci si aprono, dall’una e dall’altra parte. E la bestia resta così, con la bocca spalancata: non osa sbranare le dita; anzi, ha paura di essere toccata da quelle mani che avrebbe voluto azzannare e sbranare. E, dentro al corpo del posseduto, era lacerata da terribili sofferenze perché le dita le impedivano di uscire dalla bocca. Allora, lasciando dietro di sé ripugnanti tracce del suo ripugnante ministero, la bestia immonda, in una scarica di ventre, fuggì dall’orifizio da cui escono gli escrementi. Quella è la tua strada, vagabondo, la strada che più ti si addice.113

Martino costringe un demonio a dire la verità su una annunciata invasione barbarica

vv 472- 486 In seguito si sparse per la città la notizia che stavano sopraggiungendo dei barbari.114 Il seme avvelenato recava una messe di paura e allora il vescovo intimò di farsi avanti ad un indemoniato che si accompagnava ad altri indemoniati. Gli ordina di confessare se rispondano al vero le voci che girano. Il viso dell’indemoniato è stravolto, come un reo trascinato davanti al giudice, incede con un passo umano e poi confessa che quella voce era stata fatta girare tra la gente da dieci demoni per incutere paura a Martino e costringerlo così a lasciare la città. «Un trattato di pace ha placato la tempesta barbarica. Tu, amante della pace, non devi temere alcuna invasione di quei popoli né paventare un motivo di guerra115 ». La presenza di Martino chiude la strada alla menzogna: il bugiardo afferma la verità, la follia proclama la certezza. La belva, mai sazia di malvagità, che con la sua bocca insanguinata urla fremente queste cose, ha suscitato la paura della guerra e ora fa rivivere i benefici della pace.

Martino guarisce un lebbroso

vv 487- 513 Di lì il santo si recò a Parigi. Vi entrò con passo spedito, trovandosi di fronte un lebbroso che procedeva verso di lui. Quell’uomo era così malato che era divenuto straniero a se stesso116 : tutto chiazzato di macchie, completamente glabro, coperto di ulcere e di piaghe purulente; il suo passo era malfermo e la sua vista debole, il vestito a brandelli e l’espressione inebetita; pieno di pustole era il viso, mutilati i piedi e spezzata la voce. Il pallore aveva avviluppato quel disgraziato in un involucro innaturale. Tutto d’un tratto il santo lo attira a sé per dargli un bacio: abbraccia l’uomo instillandogli un medicamento che lo libera dal male. Infatti non appena il lebbroso fu a contatto con la saliva benedetta delle sue labbra, il fardello della malattia fuggì a quel contatto che stillava balsamo medicinale. La fisionomia ormai scomparsa riemerge, nuova pelle ricopre il suo volto117 , sulla sua fronte deformata torna alla vista il suo aspetto naturale; i tratti del volto, a lungo cancellati, tornano a delinearsi. Che altissima testimonianza del potere del santo: in un istante, con il gesto della pace, pone fine agli assalti della malattia. Un abbraccio ha messo in fuga l’orribile malattia, viene meno il flagello del morbo mortale, sconfitto da una forma di battaglia mai vista, da un bacio. E straordinaria la fede di Martino: una fede fedele rinsaldata da un patto divino che ridona bellezza a ciò che era diventato turpe. Paese fortunato in cui il santo ha posato i piedi, gli occhi le mani! E famoso perché è stato un simile uomo a purificare118 le tue contrade, i boschi, i prati, le città, le campagne, le case, i templi, le rocche, le mura, le fattorie! Che eccezionale sigillo ricevi da un uomo eccezionale! Per curare un lebbroso, dalla sua bocca santa -meraviglia superiore ad ogni altra meraviglia- è sgorgata con un bacio l’acqua del Giordano: l’onda della sua saliva lava il fiotto purulento che sgorga dalle sue piaghe.

SECONDO LIBRO
DELLA VITA DI SAN MARTINO

Fortunato riprende a navigare: sulla sua nave carica il santo fardello del racconto martiniano

vv 1- 10 Da tempo, ormai, ho ammainato la vela dall’albero maestro. Il mare si calma e il nocchiero riprende forza; il carico, ridotto dopo la prima parte del viaggio, diviene più leggero al trasporto. Ormai ho concluso la prima parte della mia narrazione e ora isso le vele al vento, perché una leggera brezza mi invita a riprendere la navigazione. Spirito che voli alto siimi propizio, gonfia le mie vele, non consentire che i venti sfavorevoli flagellino la mia fragile imbarcazione. Che la mia prua porti Martino, sacro carico del navigante, dolce potenza, salda speranza della navigazione. È leggero il peso per chi ama, lieve il carico della merce anche se lo dovessi trasportare a braccia.

 

Martino guarisce la figlia di Arborio119 , e Paolino

 

vv 11- 43 Ciò che egli tocca con la sua mano (o anche solo se è lui ad essere sfiorato da qualcuno) dalle sue dita scaturisce potente, la guarigione, e dall’unghia cola un unguento. Perfino le nobili frange della sua povera veste, se mai a qualcuno capita di toccarle, dispensano generosamente la salute. È dall’acqua di questa fonte che viene arrestata una emorragia, è lo scorrere di quest’acqua che dissecca il fluire del sangue. Guarisce il malato che riesce a rubare -furto che reca guarigione- un filo. E, all’insaputa del medico, la malattia pone fine ai suoi attacchi.

Il giudice Arborio un anziano prefetto, era afflitto dal cruccio di una figlia gravemente ammalata di febbre quartana: aveva provato ogni cura ma nessuna si era dimostrata efficace per la fanciulla, quando una lettera inviata dal santo placò la febbre. La fanciulla era distesa e Arborio posò sopra di lei la carta: questa, asciutta, fece scorrere il sudore e l’ardente febbre fu fatta uscire da ogni parte del corpo. Il cielo era sereno, non un fiocco di nubi che potesse portare un po’ di pioggia, e tuttavia la fiamma del fuoco fu spenta dalla rugiada dell’inchiostro. Come si legge nel secondo libro di Mosè degli Ebrei, la pagina stese una nube, a difesa dalla tortura del calore120. Che mirabile medico, capace di guarire con una sua lettera! Questo era il suo modo di operare quando non poteva esserci di persona. La fanciulla fu presentata da Arborio al generoso Martino, perché fosse consacrata dalla stessa mano che le aveva salvato la vita. Che situazione felice: grazie alla sua verginità, la fanciulla fu salvata due volte. Martino la rese a suo padre e costui al padre celeste. E Arborio ottenne così, da un solo medico, una duplice guarigione perché sottrasse la sua amata discendenza a due pericoli mortali121 .

Paolino122 aveva un occhio offuscato da una densa nebbia: Martino gli impose le mani, un raggio acuminato lo penetrò, la nebbia sparì, il fulgore del giorno tornò a brillare: non più il volto di un guercio, ma lo sguardo di un uomo che brillava da entrambi gli occhi.

Dalle dita di Martino stillava l’unguento della luce, il cui contatto portò la salute meglio di qualsiasi collirio.

 

Martino è a sua volta prodigiosamente guarito

vv 44- 57 Un giorno toccò a Martino stesso di cadere dalla cima di una scalinata; ruzzolando di gradino in gradino, si ferì al capo e al volto, rotolò più e più volte lacerandosi in ogni parte del corpo. Mentre lui, guaritore di tanti, giaceva nella sua cella dolorante per le ferite, nella notte che avrebbe dovuto portare riposo, scese dal cielo, vigile, un angelo del Signore e gli si posò accanto. Tasta ad una ad una le ferite di Martino, le palpa, sfiora tutto il suo corpo con la mano: ne rinfranca il passo, cancella le piaghe già purulente, le fa sparire tutto ad un tratto. La pelle, lacerata dai sostegni dei gradini, torna uniforme e sana su tutto il corpo. Si presenta il giorno dopo, guarito, col corpo perfettamente risanato, prova viva e testimonianza dell’intervento angelico.

Certo, non era possibile che il santo fosse a lungo afflitto da quei patimenti che egli mai aveva consentito che affliggessero crudelmente gli altri.

 

Martino partecipa al banchetto dell’imperatore Massimo

 

vv 58- 121 Non posso tacere questo fatto, tra i più clamorosi degli eventi occorsi al santo. L’Augusto Massimo, assurto alla massima dignità avendo ucciso l’imperatore123 e orgoglioso della strage di suoi concittadini, si era impossessato dell’impero con le armi. Reggeva dunque senza alcun ritegno le redini di un potere illegittimo, i vescovi lo compiacevano con il loro lassismo e la loro adulazione, un cerchio di clerici si muoveva ad un minimo cenno del principe. All’arrivo di Martino, tuttavia fu Massimo in persona a pregare il santo di essere suo commensale. Martino aveva già più volte rifiutato, ma alla fine l’Augusto ottenne di avere il beato alla sua mensa. Fu una gioia per tutto l’impero e un conforto per la città il fatto che una corte terrena accogliesse un convitato celeste.

Convengono i notabili, il prefetto, il console, i magistrati che facevano a gara per essere invitati e per partecipare al banchetto dell’imperatore: interessa poco Massimo, piuttosto vogliono vedere il comportamento del santo.

Il mondo intero freme e si infiamma per soddisfare i desideri dell’Augusto, reca ogni ricchezza e ogni delizia. Ecco ciò che possiedono l’Indiano, l’Arabo, il Geta, il Trace, il Persiano, l’Africano, l’Iberico; ecco ciò che offrono il Mezzogiorno, il Settentrione, l’Occidente e l’Oriente; ecco i prodotti che abbondano nelle regioni da cui spirano Borea e Aquilone, Libs e Circius, Austro ed Euro, e là dove scorrono Geon e Fison, Tigri ed Eufrate e poi il Reno, l’Atace, il Rodano, il Tevere, il Po, l’Istro e l’Oronte; ecco tutti i pesci del mare, tutti gli uccelli del cielo, tutti i frutti della terra. E poi mosaici, le gemme, le pietre, i ceselli e i profumi. E poi ancora i vini di Falerno, Gaza, Creta, Samo, Cipro, Colofone, Seraptide124 ; vini così limpidi che sembrano avere la stessa luce di una pietra preziosa e coppe così trasparenti che sembrano un’unica cosa con le bevande; qui un calice bianco come neve muta colore al mutare dei vini e là si crede di bere Falerno ma è la coppa a dare al vino il proprio colore. La mensa è decorata da sete con ricami fioriti, così raffinate che sembrano filate da Aracne e vengono distese seriche tovaglie intessute con fili purpurei. Sui letti sono gettate coperte di porpora, e sulla porpora brillano fili d’oro mentre ogni tessuto luccica delle pietre preziose di cui è decorato.

Infine i valletti, tutti ugualmente giovani e tutti ugualmente appariscenti: ognuno ha un abito diverso, tutti sono allo stesso modo eleganti. Ogni cosa che possa essere espressa dal linguaggio umano, ha potuto essere recata ai piedi dell’Augusto. Secondo il protocollo imperiale, tutto questo fasto è preparato per Martino il quale, appagato dal poco, si sarebbe accontentato di una sola di quelle ricchezze. L’Augusto si sdraia e assieme a lui si sdraiano i senatori. Quindi si sdraia sul letto, appoggiandosi sul venerando gomito, il prete125 mentre Martino si siede a lato dell’Augusto su una stretta sedia.

Il servitore porge la prima coppa a Massimo, il quale ordina che sia offerta al santo: voleva, l’Augusto, essere proprio lui a ricevere il calice da Martino e bere così per secondo. Martino prende la coppa che gli viene offerta, ne beve un sorso piccolo -è alla fonte di Dio che egli preferisce dissetarsi- e poi, trascurando il principe, offre ciò che resta della bevanda al prete, consapevole che lui ne è più degno.

Ne resta esterrefatto l’Augusto, e con lui i notabili, i convitati, i servitori: si giudicarono ed ebbero la misura della propria inferiorità.

La notizia di questo fatto corre per tutto il palazzo: per il santo l’Augusto era un convitato meno importante del prete. È una voce compatta: proclama che Martino ha osato fare davanti all’imperatore ciò che nessuno avrebbe osato fare alla mensa del più basso magistrato e perfino la folla dei cortigiani si vergogna a negare il fatto. Se per caso Martino voleva chiedere all’imperatore qualcosa in veste di supplice126 , ora è lui a dargli degli ordini. E inoltre predice all’Augusto la sua sorte futura: avrebbe raccolto buone messi, ma subito dopo, portando la guerra in Italia e attaccato da Valentiniano, avrebbe dovuto subire dei rovesci.

Quando, dopo una prima vittoria, il tiranno Massimo ebbe a soccombere e morire presso Aquileia, la bilancia inclinò dalla parte delle parole pronunciate da Martino.

 

Martino conversa con gli angeli (i quali lo vorrebbero in cielo) e riconosce i demoni

 

vv 122- 140 Spesso si vedeva Martino intrattenersi con gruppi angelici: un orecchio umano era in mezzo alle schiere degli angeli. Egli veniva salutato dalla loro voce oppure era lui a rivolgersi con un cenno a questi principi alati discesi attraverso l’aria sottile127 : essi, in colloqui affettuosi venivano a consigliarlo su come comportarsi. Gli angeli volevano rapire dalla sede terrena e portare in cielo un padre, un fratello, un concittadino -si potrebbe quasi dire- nei secoli dei secoli. Essi si rivolgevano a lui e gli ponevano delle domande con infinito amore: cosa faceva sulla terra un’anima monda di ogni peccato? Che dalla terra sulla quale non era che un pellegrino in cammino, un ospite, salisse dunque al cielo.

Tutte le apparenze e le figure bugiarde del demonio, tutte le forme sotto le quali si poteva nascondere colui che si era ribellato a Dio128 , si rivelavano immediatamente a Martino, il cui sguardo era di tale acutezza che nessuna falsa immagine riusciva a trarre in inganno i suoi occhi. Per quanto varie fossero le apparenze sotto le quali il diavolo si nascondeva, era nudo davanti al santo. Non esisteva schermo che valesse a coprirlo, non c’era illusione che potesse sostenere i suoi imbrogli: inviluppato nelle sue stesse trappole, vomitava furiosi insulti contro il beato perché, quando l’inganno viene smascherato, al nemico non resta che scagliare insulti.

 

Il diavolo uccide un mandriano

 

vv 141- 161 Una volta un diavolo si presentò nel ricovero di Martino: aveva in mano un corno di bue coperto di sangue, ed era a sua volta tutto insanguinato. Irrompe nella cella del santo e gli racconta una storia ripugnante: «Dov’è finito il tuo potere Martino? Guarda qui, gli dice, io mi sono appena servito di quest’arma per uccidere uno dei tuoi. La mia preda, catturata grazie ad una bestia del gregge129, ora è lì che giace e quest’arma vibrata da un bue ha commesso il delitto scellerato. La tua disgrazia è vita per me, e godo quando ti vedo scoppiare in lacrime».

A queste parole, subito Martino convoca tutti i frati e riferisce loro ogni parola pronunciata dal crudele avversario, preoccupato che il lupo non avesse portato via qualche preda dall’ovile. I monaci vanno alla ricerca del gregge e ne contano i capi: da quell’armento senza macchia non manca neppure il più piccolo degli agnelli. Manca soltanto un contadino, un mandriano pagato per portare dal bosco della legna da ardere. Martino ordina che si corra a vedere quale sia la causa di questa assenza: i monaci inviati lo trovano agonizzante, ormai all’ultimo gemito: con l’ultimo respiro che ancora gli erra nel petto, racconta l’aggressione: come un toro, sciolte le corna dal gioco, gli aveva trapassato il ventre. Poi, data la sua testimonianza, perde la vita e la voce. Ma il santo non si è lasciato ingannare da un simile imbroglio.130

 

Il diavolo intensifica i suoi assalti a Martino

 

vv 162- 178 Ecco il racconto di un’altra serie di eventi straordinari. Il perfido nemico inventa mille modi per recare danno. Ora assumendo l’aspetto di Giove, ora quello di Anubi, oppure il portamento di Venere e, molto spesso, il volto di Minerva, con i suoi inganni cercava in continuazione di distogliere il santo dal suo rigore. Si presenta sotto forme sempre diverse: vuol far crescere –una simulazione dietro l’altra- la paura e generare, anche se senza motivo, il terrore. Sconfitto quanto a poteri, il diavolo cerca di combattere sul piano della scaltrezza. Ma Martino resiste impavido, sprezzando queste vuote minacce e brandendo contro il demonio l’arma della croce: scudo con il quale il guerriero blocca le frecce nemiche, dardo acuminato con cui si libera dalla macchina da guerra delle falsità. Spesso i ribelli a Dio cercano anche di far nascere dei tumulti contro il santo, intimorendolo col flagello della menzogna. Ma queste dicerie senza fondamento suonano come vuoti cembali e Martino si oppone, per nulla intimidito, all’offensiva delle minacce perché una roccia ben piantata non può essere smossa dal vuoto.

 

Martino lancia un anatema contro il demonio e smaschera Anatolio

 

vv 179- 277 Poi, tutto preso dal fiele del suo mortale veleno, il serpente perfido, orribile, violento, viscido, invidioso, provoca Martino scagliandogli dardi insanguinati: «Perché tieni con te dei monaci gravati dal peso di pesanti peccati? Perché il santo recinto del maestro accoglie un esercito di peccatori?131 Che questa masnada di peccatori non abbia a contaminare con le sue magagne la comunità del giusto e che il malsano contagio del vizio non abbia a estendersi anche agli altri! Essi hanno contaminato la santa acqua del battesimo, e, sommersi dal peccato, del battesimo hanno perso la grazia. E non può esserci una possibilità di perdono per coloro che avendo perso la giusta traccia, si sono smarriti132 : se è difficile risollevare una volta chi è caduto in una voragine, è impossibile restituire la verginità ad una donna deflorata. Chi è caduto in disgrazia non può rientrare nella grazia di Cristo». Martino rispose così alla furibonda violenza del demonio: «Sciocco mentitore, non riesci nemmeno a discernere cosa è bene per te, dannoso nemico di te stesso, tu ti rechi torto e ti perdi da solo. Se ora tu ti penti, se tu volessi tornare in te, se rinunci a istigare al peccato e ad attirare nell’abisso le anime, se smetti di usare i tuoi dardi per recare rovina agli altri, se infine -fatto giudice di te stesso- condannassi i tuoi errori, posso prometterti, fiducioso nella pietà di Dio, che Cristo avrà misericordia di uno sciagurato quale tu sei133 e ti concederà immediatamente la remissione dalle tue colpe. È per questo che il Redentore, dalla cittadella celeste, è disceso sulla terra: per strappare al peccato chi si è perduto, per impedire di perdersi a chi si sta perdendo. È venuto, lui mondo di ogni peccato, a lavare le nostre macchie e per guarire le ferite del mondo con le sue piaghe. I diversi momenti della sua passione furono pegno della nostra salvezza: gli sputi, la flagellazione, il mantello, il fiele, l’aceto, la lancia, i chiodi, la santa croce, la morte, il sepolcro e la pietra che lo chiudeva, l’inferno, le tenebre e il tiranno. In tre giorni sconfigge ogni nemico e torna, vittorioso, ai cieli: la sua discesa è pegno della mia ascesa in cielo. Non ha scelto di vendicarsi con la morte di chi ha peccato, visto che, con la sua sofferenza, ci ha dato i mezzi per salvarci». Ecco come il santo cerca di rendere mansueta la belva ribelle: il pastore promette al lupo che gli sarà concesso ritorno al buon ovile. E con quanta maggior forza dunque promette all’uomo -per lui Dio si è fatto uomo, è morto e risorto- che si schiuderà il tesoro di Cristo! Che amore e che fede profondissima, che dolce speranza nella promessa di recare soccorso sia a chi inganna che a chi sta per cadere nel peccato. Esprime il suo desiderio, Martino, pur non essendo in grado di porgere aiuto. Se non si possiede il potere, è sufficiente dimostrare la buona volontà: dona tutto colui che non nasconde il suo amore. Ancora un episodio. Claro134 , un adolescente dal carattere tranquillo, che si era attaccato a Martino, dopo aver lasciato suo padre e ogni suo bene, in poco tempo si segnalò per fede e virtù. Aveva stabilito il suo ricovero vicino a quello del vescovo, in un luogo cui convennero parecchi monaci per condividere quel tipo di vita. A questo gruppo si associò anche il monaco Anatolio135 , il quale, nella vita comunitaria, dimostrò dapprima la disciplina di un umile confratello. In seguito però, il suo animo ingenuo fu ingannato dall’astuzia del nemico. Prese a raccontare che un angelo celeste veniva a fargli visita e a rivelargli gli inaccessibili segreti del Tonante: a lui volavano con ala veloce i messaggi celesti e lui poi raggiungeva le nubi per recare la sua umana risposta. Insomma affermava che tra lui e Dio la strada era breve, si vantava di poter raggiungere i confini del cielo e, grazie alla conoscenza dei segreti divini, di essere diventato ormai un profeta. Tuttavia non riusciva, con le sue false affermazioni, a convincere Claro a fidarsi di lui. Così, furioso come mai lo si era visto, una volta Anatolio osò asserire che il Signore gli avrebbe inviato una veste dal cielo. Gli sarebbe stata portata nel silenzio della notte e lui avrebbe indossata: una prova per confondere chi si faceva beffe di lui. Diverse voci si alzano dal gruppo dei monaci, una attesa immotivata tiene in ansia la comunità. Il carro della notte ha quasi percorso la metà delle sue ore, piega le ruote, sta ormai girando attorno alla meta: all’improvviso sorge un grande strepito, il ricovero vacilla, la terra trema, il monastero è in preda alla confusione, rimbomba di voci, di rauchi mormorii, di parole miste a rumori. Sembra che falangi guerriere volino nel firmamento, che scorrazzi un rapinoso turbine di manipoli. Poi, quando nella comunità tanto turbata, torna la quiete e quando la tempesta cede il passo a pace e silenzio, Anatolio chiama subito vicino a sé uno dei monaci e gli mostra, pieno di orgoglio, una tunica bianca: rivestito di quel falso ornamento, si gonfia di un orgoglio che non ha fondamento. Bianco è il suo vestito, ma è nero il demonio che lo ha tessuto. Poi chiama gli altri, accorre anche Claro, tasta la veste morbida, bianca come la neve. L’ordito è di seta, in fili sottilissimi, ma al tatto, è impossibile rendersi conto della tessitura. I monaci trascorrono quella notte in veglia, intonando inni: nei cori risuonano i salmi accompagnati dagli accordi del flauto perché Colui che troneggia nell’alto dei cieli riveli la vera natura della veste che hanno davanti. Ormai l’auriga dell’Aurora sprona i cavalli la cui schiuma si fa rossa136 e anche il carro del sole fletteva le redini luminose: il giorno nuovo richiama i contadini nei campi. Subito Claro cerca di mostrare il monaco a Martino, consapevole che egli poteva svelare la vera natura di ogni visione perché, agli occhi del santo, a dispetto di tutte le maschere, appare un solo volto: davanti a lui l’ingannatore vede annullarsi ogni suo inganno. Fuori di sé, Anatolio comincia a fare resistenza, dicendo che a lui è proibito l’ingresso nell’ovile di Martino. Lo trascinano contro la sua volontà e lui punta i piedi. La veste bianca, opera del nero impostore, svanisce, il mantello si dissolve lasciando il monaco ignobilmente nudo, il falso simulacro scompare con le sue forme immaginarie. Fugge il demonio, atterrito al solo sentire il nome di Martino.

 

Il diavolo appare a Martino nelle vesti del Cristo

 

vv 278- 354 Il nemico è impotente, tenta imprese superiori ai suoi poteri. Il perfido, pur privo di forze e così tante volte sconfitto da perdere ogni fiducia in se stesso, agita le sue armi: lui, il decaduto, tenta la scalata al cielo. Vuole il vanto di aver fatto vacillare chi ha più potere di lui, vuole aumentare i propri titoli di gloria colpendo con le sue frecce il forte avversario. Una volta, mentre il santo vescovo giaceva disteso sulla nuda terra e indirizzava preghiere al Signore per la sua gente, si formò davanti ai suoi occhi la laida immagine del ribelle. L’apparizione era radiosa e risplendeva immersa in una luce sulfurea: tenebra travestita di luce, oscura voragine, fulgido nelle sue vesti, cortigiano in veste regale, coperto di lamine d’oro, cinto di un falso diadema -le mille luci delle gemme inserite mandavano lampi- possente nella sua veste ingannatrice, calzato di stivali intessuti d’oro, orgoglioso del suo lusso, altero nel suo superbo trionfo.137 A questa apparizione il santo resta esterrefatto, ricaccia indietro le parole, entrambi rimangono sdegnosamente in silenzio: uno guarda all’uomo con alterigia, l’altro guarda al superbo con disprezzo. Il primo a parlare è il nemico malvagio e temerario: «Ecco qui, Martino, ciò che da tempo tu vai chiedendo con le tue insistenti preghiere, ciò che tu piamente desideri. Io sono il Cristo, la tua gloria. Tu chiedi con forza che io venga a ritemprarti dalle tue dure fatiche, che rechi il conforto della vittoria alle tue gravose battaglie. Un re deve distribuire ai suoi soldati le giuste ricompense. Nel momento in cui mi accingo a scendere sulla terra, qui da te io dirigo i miei passi, perché il tuo cuore trovi ristoro dall’ansia e dagli affanni». Non si turba, il santo, e si rifiuta di rispondere. Guarda con disprezzo e tace: riflette e non si lascia sfuggire una sola parola. Il suo animo resiste, incrollabile; esplora le cime e gli abissi, non gira le spalle come porta sbattuta dal soffio del vento138 . Allora il viscido serpente ritenta l’attacco con i suoi velenosi sibili: «Esiti? Perché non credi a ciò che tu vedi con i tuoi stessi occhi? Io sono il Cristo, io che converso con te, io che parlo e mi degno di svelarti i segreti che appartengono al futuro. Non mi devi temere, la mia fulgida luce testimonia per me». Ma lo Spirito di verità acuì e incendiò la chiaroveggenza di Martino, gli aprì la via: niente più veleni occulti. Martino ora vede bene l’inganno del nemico serpente, è libero e forte, e parla con queste sante parole: «Non così ha detto il Signore che sarebbe venuto nel mondo. Non era avvolto in un mantello di porpora, né impreziosito da un diadema quando si presentò agli apostoli e parlò loro, colonne della fede. E quando il suo corpo carnale fu rapito in cielo; quando i venti si fecero ali per i piedi divini; quando l’aria, calcata dalle sante piante, si mise al servizio del suo re; quando, trasportato da mani angeliche, varcò come una folgore il cielo, penetrò l’aria sottile senza turbarla con i suoi passi, volò col suo passo lieve, attraversando e fendendo le nubi senza che il remo piumato delle sue ali vi lasciasse la minima traccia. Infine, l’angelo che apparve ai Galilei intenti a guardare verso il cielo, disse che Colui che troneggia in alto sarebbe tornato esattamente come era partito. E dunque io accetto ciò che è da accettare, ma respingo la disonestà di pessima lega139 . Questa non è l’insegna del mio re, ma la cittadella del tiranno. Voglio vedere le palme delle mani trapassate dai chiodi, le carni che recano le sante stimmate della croce, il fianco e il costato attraversati dalla lancia: da qui sgorgano i rivi di sangue che danno il battesimo, l’onda santa il cui rosso fiotto lava le macchie, generoso riscatto pagato dal redentore -che della redenzione ha pesato le monete con la bilancia della croce-, dal salvatore che ha riscattato tutto il mondo col tesoro del suo corpo, quando egli fu la gemma che da sola valeva quanti tutti i tesori. Voglio rivedere il salvatore nella veste della sua passione. Altrimenti, se non vedrò tutti questi segni, negherò che il Cristo sia tornato. Il vincitore infatti deve testimoniare e provare il proprio trionfo: solo le piaghe delle ferite possono rendere pienamente degni del trofeo». Ed ecco il nemico senza più armi, colpito e sferzato da quelle parole, flagello caduto dall’alto attraverso l’aria sottile. Torna ad assumere la sua forma abituale, si dissolve nel nulla; simile a fumo nell’aria limpida, scompare alla vista, vola via la labile immagine di quella umbratile figura. Costretto a scomparire, riempie la cella di sporcizia: da questi indizi lo si avverte, perché trascina sudiciume coi suoi passi e, nella sua fuga, ha per compagno il fetore. Non è bastata una sfavillante immagine ad ingannare Martino, e un vuoto splendore a spegnere l’irradiarsi della sua mente: era la notte più nera a nascondersi entro quell’involucro di luce.

 

Umiltà ed insegnamenti di Martino

 

vv 355- 375 Davvero: non era possibile che l’umile non avesse la meglio sul superbo, che un uomo così profondamente buono non costringesse alla fuga il malvagio, lui capace di domare i ribelli con le armi della pace. Era dolce140 e amabile, ed era bello e profondo il suo modo di amare: non pago di lavare i piedi al suo prossimo, era solito baciare e asciugare con la sua bocca quelli di un ospite appena arrivato. Chi giungeva si vedeva versare da lui stesso l’acqua sulle mani, servitore celeste desideroso di servire gli uomini: la mano soccorrevole lavava i piedi del peccatore al quale sarebbe bastato toccare una delle frange per ricevere la salvezza. Insegnava che si debbono fuggire le seduzioni del mondo e che al mondo devono essere distribuite le ricchezze personali, senza cercare di guadagnare nulla durante la vita. È necessario sbarazzarsi delle ricchezze se si vuole salire al cielo, non caricarsi del grave fardello di terreni e tesori, liberarsi di ogni possedimento se si vuole aspirare ad ereditare il cielo. La zavorra impedisce infatti di salire, obbliga a scendere, anzi. I pesi traggono verso il basso invece che condurre in alto. Chi sale un monte, vacilla sotto il peso di una fascina e il piede cede quando la soma è troppo gravosa. Il carico eccessivo fa affondare tra le onde la nave e, per raggiungere il porto, è necessario gettare a mare parte delle mercanzie.

 

L’esempio di Paolino che si libera delle sue ricchezze

 

vv 376- 390 Martino celebrava le gesta del nobile Paolino141 . Egli, eletto più tardi vescovo di Nola, rese famosa questa città italiana, sede del governo spirituale, nella provincia di Campania. Paolino era ricco di terre e dei prodotti che queste producevano, ben fornito di servi: rendite immense, antica nobiltà, elegante nell’eloquio. Quando conobbe la ricchezza della fede cristiana, si fece povero e distribuì il suo enorme patrimonio per redimere i propri peccati. Disperse i suoi beni tra gli uomini e si costituì un tesoro nei cieli, fece salire in cielo la terra pur con tutta la sua zavorra: anche restando in un solo luogo, la materia bruta può balzare fino alle stelle. Dunque Paolino aveva integralmente fatto suo il precetto evangelico e Martino spinge tutti a seguire l’esempio di un simile uomo che, nonostante le sue ricchezze, riuscì ad avanzare lungo un malagevole sentiero e a raggiungere, sbarazzatosi del suo fardello e libero, la città celeste. Servendosi di questo esempio egli sprona i suoi seguaci a mete più alte.

 

Il ritratto morale di Martino

 

vv 391- 445 Ora si deve anche dire quali parole fluivano dalla bocca di Martino. Con quanto rigore e quanta acutezza parlava della legge divina: non c’era problema che restasse senza soluzione per simile esperto di diritto sacro. Sapeva risolvere gli enigmi più difficili, distribuiva con larghezza la saggezza del suo spirito generoso perché beveva alla fonte perenne che alimentava il suo rigagnolo.142 Il suo era un eloquio affettuoso, risoluto e insieme amabile, pungente e diretto, piacevole per l’animo di chi lo ascoltava. Possessore del cielo in terra, durante le sue veglie egli parlava col Cristo e gli confidava le sue difficoltà e, esperto com’era nella santa arte di patrocinare le cause dei miserabili, davanti a quel giudice esponeva le lamentele degli sventurati. Difensore incrollabile, si dimostrava superiore ad ogni oratore, giurista, avvocato; abile dialettico ed oratore eloquente, moltiplicava le sue preghiere per addolcire il giudizio divino. E quanto efficace doveva essere la sua voce in difesa di vedove ed orfani, se bastavano i suoi silenzi interiori a bussare alla porta del cielo! Il suo spirito aveva Dio per fondamento e, senza macchia com’era, era vicino al cielo: non concedeva al suo corpo né ozi né svaghi e ogni suo dovere egli lo portava a termine quanto più velocemente poteva. Il suo riposo era Cristo, che serviva notte e giorno, e, quanto a cibo e riposo, gli era sufficiente ciò che appena soddisfaceva ai suoi bisogni corporali. Ultimo ad accostarsi al cibo, era sempre pronto alla veglia: sonno e pasti quando capitava (vi si sarebbe anche sottratto ma la carne ne ha bisogno per non consumarsi). Occupava il giorno e la notte in due mansioni, ripetute in continuazione: lettura a mezzavoce o preghiere che attingeva alla sua memoria e tutto il suo riposo consisteva nel cambiare occupazione. Quando usciva continuava sempre, nel suo animo, a pregare, alzando al cielo non gli occhi fisici, ma quelli del cuore. Mai menzogna alcuna albergò nel suo animo, e mai ne uscì alcuna dalla sua bocca. Privo di ogni macchia del mondo, Martino apparteneva in tutta la sua purezza al Signore: mai condannò qualcuno, mai restituì il male ricevuto e, se mai ebbe a recare offesa al prossimo, fu solo per caso. Se qualcuno inferiore a lui lo offendeva, egli rinunciava al piacere della vendetta e mai ebbe a spogliare un subalterno del suo grado. Pieno di carità anche verso i nemici, affettuoso con i giusti, indulgente con i peccatori: nessuno fu più estraneo di lui alla collera, al furore, all’allegria e alla tristezza. Mai la fronte offuscata da nubi, mai scrosci di risa dalla sua bocca: era sempre uguale se stesso, nel volto e nel colorito, di pelle e di cuore. Mai veniva meno a questo suo atteggiamento: pur restando nel suo involucro mortale, la sua immagine fisica emanava tuttavia qualcosa di immortale. Dio abitava nella sua bocca, l’amore nel suo spirito, la pace nel suo cuore. Se si prendeva minima cura di sé, spinto dalla misericordia, molto si occupava degli altri, al punto da superare l’ordine naturale e farsi angelo. In cammino verso l’alto, col suo spirito anticipava l’aldilà e, cittadino del cielo, raggiungeva le stelle, libero dal peso umano. Clamorosi erano i prodigi che operava e numerose la profezie sul futuro: ancora risiedeva sulla terra, ma era già intimamente legato al cielo e conosceva i misteri di Dio, quasi il consigliere di un amico, nel momento in cui rende partecipe delle cose più riservate un caro cliente. Per Martino il Cristo era amore, decoro e ogni cosa. Il Cristo era la sua gloria, il fiore e il profumo, il cibo e il sapore, sorgente, luce e strada. Nell’amore del Cristo egli era profondamente innestato e ancorato. Se ne nutriva: Martino è simile ad un albero che, nel prato, cresce vicino a dove scorre l’acqua; ricco in ogni stagione di fiori, rami, foglie e frutti, produce i frutti magnifici e perenni della vita eterna.143

 

Il trionfo di Martino nel cielo

 

vv 446- 467 Tra le schiere degli apostoli, i santi profeti, i cori dei martiri, gli eserciti luminosi del cielo, nel luogo in cui risplende questa armata condotta dal Re che non conosce sconfitte, in ogni squadrone, coorte, legione e in chi li comanda, nei soldati, nei conti e, di grado in grado, nei duchi e nei consoli, c’è chi risplende della sua candida toga, chi della sua fiammeggiante corona, chi della sua luminosa pretesta, chi del suo prezioso diadema. Gli uni recano la clamide, gli altri braccialetti adorni di topazi; da una parte brilla radiosa una cintura, dall’altra lampeggia la benda che cinge i capelli; uno esibisce l’eleganza della toga palmata, un altro la trabea144 : su tutto, la decorazione delle pietre preziose, dell’oro, della porpora e del bisso. I nostri occhi non vedono queste ricchezze del senato celeste. Ma tu, Martino, sotto l’autorità del principe del cielo, godi di questi tesori, ti unisci ai cori angelici e ai patriarchi, eguagli nei meriti gli apostoli, raggiungi l’altezza dei profeti, ti associ ai martiri da cui scorre la rossa onda del sangue, confessore fulgido, più candido di un giglio, circonfuso di luce purpurea145 , splendido e maestoso. Tu avanzi liberamente verso i celesti palazzi del Re, potente eroe, soldato che passi nell’esercito celeste146, cittadino dei cieli per l’eternità, alfiere che rechi lo stendardo della croce nobilitata dai tuoi trionfi147 : dolce Martino, il mio cuore ti deve venerare, la mia parola ti deve celebrare.

 

Fortunato prega di poter essere degno cantore di Martino, dopo Sulpicio Severo e Paolino148

 

vv 468- 490 Il primo a raccontare, in prosa, la vita di san Martino fu Severo, e poi la cantò in versi il santo Paolino, l’uno e l’altro brillanti biografi, capaci di volare alla tua altezza. E tuttavia entrambi sono stati messi in difficoltà dal soggetto davanti al quale la loro poesia è stata sconfitta. Io, oscuro come sono, oso mettermi accanto a tanta luce; io, piccolo tra i piccoli, tento di raccontare la grandezza di un grande: il mio piede vacilla, la mia bocca ansima in preda alla balbuzie, la mia parola è grossolana. Finisco insomma per disperdere ciò che dovrei radunare. Perdona alla mia lingua la colpa di aver cercato di raccontarti in questo mio scritto. Reca il soccorso della tua benevolenza ad un misero, la tua misericordia ad un miserabile. Quando verrà a giudicare il mondo il Reggitore che regna nell’alto dei cieli, tu ricordati di me e ottieni che sia dimenticata la mia cattiva opera. Assistimi, generoso mediatore tra me e il Signore: sciogli col tuo intervento il nodo del peccato con cui io stesso mi sono inviluppato. Che sia ben fondata la speranza di salvezza del povero Fortunato: io mi sono prosternato, supplice, davanti a te, o santo patrono, tu che guarivi con i tuoi baci salvifici le piaghe della lebbra, tu che riportavi all’inizio una vita ormai sulla soglia della morte, quando tu vivevi ancora nel fragile involucro della tua carne. Ora io ho bisogno che, in virtù del tuo affetto, tu mi porga orecchio con indulgenza: ben ascoltate sono le tue preghiere presso Colui cui tu appartieni ed Egli accoglie le tue richieste perché tutto accorda ai suoi amici. Possa il soccorrevole Re soddisfare ogni tua domanda.

TERZO LIBRO
DELLA VITA DI SAN MARTINO

Fortunato riprende a navigare: affronta acque ancora più difficili e ora ha un nuovo compagno, Gallo

vv 1- 23 Fino ad oggi l’ancora era infissa su fondali propizi150 . Appoggiata sull’arpione inerte, ha prolungato i suoi indolenti ozi, mentre il dolce alito del vento culla il mio sonno e l’ombra mi avviluppa vicino al molo e alla verde sponda. Ecco che il giorno luminoso fa avanzare l’aurora fiammeggiante e il marinaio spinge la sua navicella verso l’alto mare. Ormai anche per me è ora di sciogliere le gomene, lasciare i canneti del litorale, alzare le vele ai venti. Prima mi pareva di navigare attraverso le schiume dell’Adriatico, tra i rauchi rumori della tempesta, trascinato dai gorghi marini: mi era guida Sulpicio che con la sua affascinante parola e il suo stile elegante ha così efficacemente raccontato la santa vita di Martino; quella stessa vita che io ho appena percorso col mio piede zoppicante in due libri in cui, coi miei modesti mezzi, cerco di raccontare le gesta del grande patrono. Ora però mi sembra di avere davanti i marosi dell’Oceano e di affrontare una rotta ben più pericolosa sulla quale i flutti azzurri si scontrano con violenza: la mia navicella, la tempesta, l’abisso trasformano la paura in terrore. E tuttavia, mentre mi dirigo in alto mare, che Gallo faccia risuonare nelle mie orecchie le gesta del santo uomo: così si acquieteranno le turgide onde rigonfie e la fatica della mia navigazione sarà alleggerita dal suo racconto ora dolce ora pungente. Eccomi ormai preda dei marosi, mentre la costa sparisce alla vista. Prenda il remo Gallo allora, e Martino governi le vele. E che Cristo susciti i venti e le onde che mi possono ricondurre in porto. Ora, in questo mio andare per mare, marinaio a mia volta, anch’io provo a raccontare le gesta del santo.

Martino dona la sua veste ad un povero

vv 24- 73 Nei mesi invernali, quando il Bosforo incatena le sue acque e la tempesta vieta alle prue di solcare le distese marine, quando l’Oceano impedisce di recare i propri commerci fino alle isole dei Britanni e i semi nascondono i loro germogli sotto una crosta ghiacciata, quando l’acqua, penetrata dal gelo, si indurisce e l’erba appassisce, un povero malato stava davanti alle porte della chiesa elemosinando una veste. Ma il freddo era tale che la sua lingua era legata e dalla bocca non usciva neanche una parola. Il santo dà allora ordine ad un diacono di rivestire il mendicante. Si tira quindi in disparte, in un luogo dove può in tranquillità sfuggire all’accorrere della gente. Ma di lì a poco Martino si rende conto che il povero ancora trema e non ha ricevuto nulla, si leva la sua tunica e con quell’indumento ricopre l’uomo ormai intirizzito. Ma lo fa di nascosto, senza alcun testimone, e poi dice al povero di allontanarsi. Arriva poi l’arcidiacono che invita il santo a farsi avanti, ma Martino gli ingiunge prima di rivestire il nudo. A questo santo richiamo, l’arcidiacono rimane esterrefatto e stupito: non sa che fare, non vede alcuna persona nuda. Non può sapere che si tratta del suo vescovo, seduto vicino a lui; sfugge ai suoi occhi che Martino non è, al di sotto, coperto dalla tunica perché il corpo, protetto dall’anfibalo151 , non era visibile. L’enigma che gli pone Martino lo angoscia, la domanda lo imbarazza e non riesce vedere quale soluzione dare al problema del povero. Allora riprende la parola il santo: «Portami un mantello, il povero che ha bisogno di coprirsi c’è davvero». Il diacono si infuria e porta a Martino un indumento grossolano. Lo butta ai suoi piedi ed esclama: «Ecco la veste ma non c’è chi ne ha bisogno!». Il santo indossa la villosa cappa di Bigerra152 , lui, che nemmeno una veste candida e risplendente di fili d’oro avrebbe degnamente ricoperto. Quindi avanza, altissima dignità e poverissimo vestito: una miserabile veste per un membro del senato celeste. Mentre celebra il santo ufficio davanti ai fedeli e la sua mano benedice le offerte sul sacro altare, all’improvviso sorge dal suo capo un globo di fuoco che non brucia153 . La fiamma si muove dolcemente, gli sfiora la nuca e i capelli, lo accarezza delicatamente. Fulgore potente e luce fiammeggiante, è diadema sul suo capo, è emblema dei meriti di Martino, lo circonfonde di luce come se fosse una veste, gli tributa l’ossequio negatogli dal diacono, rivela e illumina il gesto che lui aveva tenuto nascosto. O ricco povero, non pago di possedere una sola tunica: non ne possiedi un’altra e ti vuoi privare anche di quella nel momento in cui ritieni che esista una veste ancora più grossolana. E anche la cappa più leggera ti è pesante quando un povero grida il suo bisogno. Pur che un ignudo sia rivestito, tu desideri di procedere nudo: non stai a dividere il tuo bene ma lo regali intero a chi ne ha bisogno perché sai che la tua unica ricchezza consiste nel non negare nulla di ciò che ti si chiede, e di farti ancora più povero donando tutto agli altri poveri. Non ti sei vergognato, o venerabile padre, a restartene ignudo. Né la tua fede né il tuo amore hanno provato vergogna per tale privazione: tanto più fede e amore accrescono la tua gloria, quanto meno tu pensi a te stesso. Vorrei parlare ancora più a lungo su questa bella storia che riguarda la nudità, ma altre vicende attirano la mia voglia di raccontare.

 

Martino guarisce Evanzio154 : la strada gli pesa e allora lo guarisce da lontano

 

vv 74- 96 Evanzio, uomo dalla fede ancora vacillante, giaceva malato sul suo giaciglio, debilitato dal male e già le sua labbra erano attraversate dall’ultimo respiro. In fretta mandò la sua invocazione al vescovo, convinto che se Martino avesse intrapreso quel viaggio, egli lo avrebbe ricondotto alla vita: venisse velocemente, dunque. Martino non esita, si mette in viaggio. Il suo è il passo di un vecchio e allora, non ancora giunto a metà del percorso, si fa precedere dalle sue virtù di guaritore prima ancora di essere fisicamente davanti al malato. È la somministrazione della medicina ad annunciare che il santo sta arrivando ed è la cura a fare da battistrada e a segnalare che lui tiene dietro. Lento è il piede dell’eroe ma il rimedio lo precede velocemente e una salubre brezza reca il profumo che preannuncia l’arrivo del santo. Gli unguenti, per portare velocemente soccorso, volano attraverso l’aria. Come il sole irradia il suo calore lontano dalla sorgente, così Martino possiede la capacità di recare aiuto anche dove non è presente. Davvero una cosa meravigliosa: la malattia è messa in fuga e il malato si alza prima ancora che il medico gli tasti il polso. Evanzio corre incontro al santo, gli rende omaggio, lo ringrazia: è proprio lui ad accompagnare nella sua casa chi lo ha restituito a sé stesso ridonandogli la vita. È felice e salta colui che fino a qualche istante fa giaceva sul suo letto. Intanto, dopo aver sperimentato la virtù meravigliosa di Martino, Evanzio, guarito, supplica il santo di fermarsi nella sua casa fino al giorno dopo. Il giorno è ancora breve ma egli vuole avere davanti agli occhi un simile ospite: la sosta, tuttavia, si traduce in un’altra occasione di guarigione.

 

Martino guarisce uno schiavo morso da un serpente

 

vv 97-120 Durante quel soggiorno uno schivo venne colpito dal velenoso dente di una serpe; la furia del veleno gonfiò il corpo della vittima. La morte sgradita rifiutava di accordare alla vita qualsiasi proroga mentre il terribile veleno si impadroniva di ogni parte del corpo. Evanzio allora posò lo schiavo davanti ai piedi del beato Martino, fiducioso nel potere assoluto che a lui conferivano i suoi meriti. Il santo subito prende a sfiorare con le dita ogni singola parte del corpo, tocca le membra che ormai stanno morendo con la sua mano salvatrice. Quindi pone il suo dito sopra la ferita, proprio nel punto in cui il serpente ha portato il suo attacco, e subito un rivolo di veleno prende a rifluire da ogni parte, ripercorrendo a ritroso la strada che la vipera aveva aperto. Il santo allora cerca con gli occhi il punto in cui la materia purulenta si raccoglie e rigonfia la pelle, preme col pollice e fa uscire dall’orifizio lasciato aperto dal terribile morso il veleno che il serpente vi ha inoculato. Il sangue cola denso, come latte dalla mammella di una capra, e la piaga tumefatta vomita la morte dalla ferita in un rivolo filante e viscoso, liberando il veleno ad ogni pulsazione della vena. Il sangue, spinto attraverso il canale delle vene, trascina con sé il veleno ormai inoffensivo e il passaggio che Martino ha aperto consente di far refluire in senso inverso il liquido mortale. L’assalto della fede ha sconfitto il morso virulento del serpente: la sua arma è andata distrutta nel momenti in cui si è rivelata incapace di distruggere. Lo schiavo si rialza in piedi e sul suo viso non resta nemmeno traccia del pallore. Il padrone lo guarda ammirato, ed è sbalordita anche tutta la gente di casa vedendo correre al suo lavoro colui che vedevano già avviato al sepolcro.

 

Martino viene preso a nerbate dagli esattori delle tasse e perdona i suoi carnefici

 

vv 121- 152 In un’altra occasione il santo vescovo che visitava, secondo la sua abitudine, le singole parrocchie della diocesi155 , si imbatté in un carro del fisco. Era vestito di una ruvida cappa. In quel momento le mule, impaurite alla vista dei lembi svolazzanti della cappa del santo, portano il carro fuori strada e lo rovesciano. Il conduttore e il soldato, abbandonati carro e redini, si scagliano su Martino e, senza che lui ne abbia colpa, lo prendono a bastonate e frustate: ben miserabile contropartita offre alle bestie da tiro il massacro di un uomo. Martino, schiacciato da quella grandine di colpi, sopporta, aspetta che sbollisca la furia dei picchiatori, non muove le mani per colpirli a sua volta. Dalla sua bocca, nemmeno un gemito. Per questo un ancor più spregevole furore aggredisce quelli che lo stanno picchiando e che scambiano la sua pazienza per disprezzo: più Martino sopporta, più essi incrudeliscono. Quindi tornano al carro: imprecano sempre di più e la vendetta sazia la fame della loro ira furibonda. Ordinano alle mule di muoversi e di rimettere il carro sulla strada, urlano a gran voce, menano bastonate, straziano le loro carni a frustate, le spintonano, ma le due coppie di bestie non tirano più il loro carico. Rimangono impiantate nel terreno, sfinite, immobili come statue di bronzo. Sembra che il terreno si sia liquefatto e ora le tenga impastoiate in una sorta di colla, che siano inchiodate nel fango. Gli uomini si rendono conto di essere bloccati dal potere di un dio e allora si mettono a correre, veloci, chiedendo il nome del viandante: scoprono che è Martino quello che hanno tanto crudelmente trattato. In preda alla confusione, abbassano la testa, piangono, arrossiscono di vergogna. Si gettano davanti ai piedi del santo e lo pregano di perdonare il loro errore: che lasci partire le mule bloccate. Martino aveva ordinato che restassero bloccate, ma, dice156 , approva il loro pentimento, ha care le ferite ricevute, dà il suo perdono. Conclude col suo consenso a partire. Il potere di Martino li ha legati, la sua affettuosa indulgenza li ha sciolti. Il prosieguo del viaggio dipende dalla sua parola: la sua voce li ha bloccati, la sua voce li libera. Il carrettiere si riappropria del giogo, delle redini, della reda, delle mule.

 

Martino resuscita un fanciullo

 

vv 152-208 Ancora un prodigio. Durante un suo viaggio, Martino giunse nel territorio dei Carnuti157 . Ovunque, nei campi, gli si faceva incontro una folla pagana, spinta dall’affetto che avevano per il santo, anche se non credevano ancora in lui. Affluivano da ogni parte per godere di uno spettacolo mai visto: il sigillo di Cristo non brillava ancora su di loro, su loro ancora non scorreva la santa onda del Tonante, generatore del Verbo. Gioisce, Martino, perché il Signore gli svela i suoi arcani progetti; comprende di essere giunto in un luogo che può diventare un campo fertile di messi. Comincia il santo coltivatore, con la parola, ad arare quei cuori incolti; con la sua limpida predicazione ripulisce quella sodaglia coperta di rovi; apre i solchi, ripassa, ripassa una seconda volta, una terza e una quarta, poco a poco dona la vita e la capacità di dare frutti a campi sterili. Sparge in quei popoli rozzi la novità del seme cristiano. Nelle anime di quegli uomini nascono teneri germogli e i virgulti crescono dolcemente nei solchi diritti. Cosa può fare il santo davanti al raccogliersi di quelle folle immense, unico operaio davanti ad una messe così abbondante? Apre la terra, vi depone il seme, semina, innesta, lega, stringe158 . In quell’occasione una donna, avvilita per la morte del figlio, lo porta davanti a Martino, reggendo il corpo sulle braccia protese: scoppia in un pianto disperato, intona selvagge cantilene di morte. Lo strazio la fa singhiozzare a tal punto che a stento riesce ad articolare qualche parola: «Potente amico di Dio, venerato nel mondo intero, tu che, con il tuo amore sempre accanto a noi, ti lasci commuovere da chi si lamenta, questo corpo gelido ti dice qual è il mio ardente desiderio. Eccolo mio figlio, me misera, strappato dal mio seno. Sua madre ero, e ora non ho più né speranza né erede. Mio figlio è morto e con lui è venuta meno la mia famiglia e i frutti che speravo di cogliere. Non ho più ciò che mi compensava del dolore del parto, nessuno cui rivolgermi con tenerezza, cui appoggiarmi quando sono stanca, cui dare il mio latte. Il ruolo stesso di madre è ora ridotto a nulla. Tu sei la mia ultima speranza, recami l’aiuto della parola che guarisce, restituiscimi mio figlio, fai che non resti senza significato il nome di madre. Se il mio bambino non torna che mi trascini con sé nella morte». Tutto il popolo la sostiene urlando: «O santo uomo esaudisci, le sue preghiere». Una sola voce rimbomba da ogni bocca: «Abbi pietà di chi ti supplica». Allora il santo vescovo si inginocchia in mezzo alla campagna, poi si prostra davanti agli occhi di tutti, opera quanto può per il popolo di Dio, cerca di riconquistare un agnello per fare più grande il gregge. L’Onnipotente acconsente, e così la gloria del suo servo raggiunge l’apice. Il buon avvocato dunque ha parlato, ha inviato le preghiere all’orecchio divino. Recita la sua arringa ben ordinata, la conclude: a questo punto il vecchio si alza, nel bambino torna la vita: viene restituito al seno materno con tutto un popolo a testimoniare l’evento. Si alza un clamore immenso e nuovi desideri si agitano nei cuori degli uomini, stupiti che un uomo abbia cambiato le dure leggi159 della morte, un uomo mortale capace di imporre il proprio diritto alla morte. In massa, allora, professano il Cristo loro dio e loro signore e pregano Martino di ammetterli nei ranghi dei battezzati160 , secondo le regole cristiane. E subito, in quella landa, il popolo intero accede al catecumenato. Non hanno bisogno di templi né di recinti resi sacri da un altare: un campo espleta generosamente la funzione di chiesa e i riti, abitualmente celebrati in luoghi chiusi, ora si svolgono sulla spianata di una campagna. La morte di un solo fanciullo ha generato la vita per un popolo intero e, per un individuo riportato sulla terra, tantissimi riconquistano il cielo. Fortunato esercito, guidato da Martino!

 

Martino e l’imperatore Valentiniano 161

 

vv 209-246 Al tempo in cui l’imperatore Valentiniano, fiero che il mondo fosse asservito alla potenza di Roma, esercitava il potere conferitogli, Martino fu costretto da una pia causa a recarsi a corte. L’imperatore, presagendo che il santo gli avrebbe fatto delle richieste che lui non era in grado di soddisfare, dà disposizione che Martino sia respinto dalla città. E vieta, istigato dalla moglie che in quel tempo era seguace di Ario, che quel giusto passi le porte e si introduca nel palazzo. Ma il santo, nel vedersi con tanta perfidia respinto e cacciato dalla corte, torna rivestito delle sue consuete armi. Cinto di cilicio, cosparso il capo di cenere, segue la regola del soldato di Cristo: rifiuta cibo e bevande, si dedica, notte e giorno, senza interruzione, alla preghiera. Da sette giorni ormai, spinto dall’amore, il santo ha iniziato la guerra e si consuma nelle sue armi, ed ecco un angelo apparire vicino al santo e ordinargli di raggiungere il palazzo. Martino, confidando nel suo aiuto, si dirige verso la città, senza che alcuno lo fermi all’ingresso. Arriva al cospetto dell’imperatore. Valentiniano, nello scorgere il santo, viene preso dall’ira per quella visita. Il santo gli è davanti e lui nemmeno si alza dal suo alto trono. Subito un vivo fuoco corre sul soglio imperiale; la fiamma vaga e oscilla la dove risplende il morbido sedile, si spande impetuosa per fare giustizia della colpa dell’imperatore e per temperare col suo calore l’inflessibilità della sua anima ostinata162 . Le lingue di fuoco cominciano a bruciare, l’incendio attacca l’imperatore e la sua augusta autorità viene umiliata dalle fiamme rabbiose. Valentiniano lascia all’istante il trono, si rizza in piedi e, in preda alle fiamme, abbraccia le ginocchia di Martino, poi si rotola ai suoi piedi. La punizione ha dunque costretto quell’uomo arrogante a comprendere il proprio errore: Valentiniano apprende quanto poco valga il suo regno, mortifica la sua altera maestà: reclina il suo capo imperiale fino ai piedi di Martino e, fattosi rispettoso, non attende nemmeno che il giusto esprima le sue richieste. È lui, l’arrogante, ad esaudire i desideri del supplice prima ancora che egli li esprima. Più e più volte l’imperatore prepara per il santo un solenne banchetto regale e, al momento di partire, testimonia con dei doni il suo favore. Ma il santo, così forte nella sua povertà, rifiuta ogni cosa e il disprezzo per i doni lo fa apprezzare ancora di più dall’imperatore. La ricchezza di Martino è tanto più grande quanto meno egli si dimostra ambizioso e avido. Ogni ricchezza appartiene solo a colui che non chiede nulla.

 

Martino viene servito a tavola dalla moglie di Massimo163

 

vv 247- 268 Un altro episodio. Al tempo in cui a reggere l’impero164 di Romolo era Massimo, il quale era salito al più alto grado grazie alla vittoria in una guerra civile165 , costui invitava sempre più spesso Martino nel suo sontuoso palazzo. Tutti i discorsi vertevano sulla vita nella luce del cielo: quali onori, quali riconoscimento dei meriti e gloria, quali palma e corona ci sarebbero stati per i giusti? E intanto la regina bagna in continuazione i piedi del santo con le sue lacrime, distesa a terra e tutta tesa ad esaudire gioiosamente i suoi desideri166 . E gioiosamente gli chiede di poter lei stessa preparargli il cibo: la sua affabilità ottiene quello che l’autorità di Massimo167 non era riuscita ad ottenere. L’imperatrice gli porta personalmente la sedia, gli imbandisce la tavola, gli versa l’acqua sulle mani: lei, da regina divenuta umile serva, gli reca lietamente i cibi che ha cucinato con le sue stesse mani. Per tutto il tempo in cui il santo siede a tavola, lei rimane in piedi, immobile. Porta quindi via i piatti e gli porge personalmente la coppa: serva capace, da sola, di soddisfare ogni desiderio di un solo uomo. Quando la cena finisce, la regina lavora ancora e raccoglie frammenti di cibo, avanzi, croste e briciole: tutto è, per lei, preferibile alle vivande imperiali. Martino si è comportato in questo modo per far uscire dal carcere dei prigionieri, per consentire il ritorno ai lari domestici di chi era stato condotto in esilio. O santo padre, poca gloria aggiunge a te quello che l’imperatrice ha fatto, ma la sua maestà è cresciuta in prestigio dopo averti servito.

 

La paglia su cui Martino ha dormito diventa un’arma contro il demonio

 

vv 269- 295 Sul confine fra il territorio abitato dai Turoni e quello abitato dai Biturigi, sorge un villaggio che gli abitanti chiamano Claudiomago168 . Caso volle che Martino passasse di là e fosse alloggiato nella bella sacrestia della casa del Signore. Una volta partito il santo, alcune vergini consacrate si recano a cercare i posti in cui egli era stato in piedi, e dove si era seduto, disteso, inginocchiato. Sfiorano ogni cosa con le labbra, ogni cosa recano alla bocca per baciarla. Si dividono come una santa reliquia la paglia del suo giaciglio: la leggerezza delle pagliuzze trova compensazione nel peso del potere che hanno acquisito. Nessuno dei fuscelli toccati dal santo resta inutilizzato e, in seguito, la tenera paglia avrebbe spezzato potenti forze. In effetti c’è un uomo violentemente posseduto dal feroce nemico169 e lo spirito dell’errore170 agisce furiosamente in lui: afferra la sua preda, la fa follemente ruotare come attorno ad un perno. Basta un fuscello appeso al collo dell’uomo per far fuggire il demonio, basta una festuca di frumento per mettere in fuga lo spaventoso nemico. Uno stelo, fertile di frutti, viene vibrato come una freccia contro il demonio, l’esile paglia, simile a rigida falarica171 , vola a trafiggerlo. Il demonio mai avrebbe altrettanto temuto una punta di ferro, e nemmeno avrebbe avuto paura del dardo scagliato da un arco o della freccia fatta scivolare veloce dalla coda di penne. Come se un dardo scagliato da un arciere parto avesse trapassato e annichilito172 un nemico, come se un colpo portato da vicino lo avesse straziato, così il demonio rivestito d’acciaio173 trema di spavento per un fuscello. È come se le fiamma viva del focolare fosse consumata in se stessa dalla paglia174 : l’uomo guarisce e il demonio -lupo mostruoso, leone ruggente che abbandona la preda- fugge via velocemente.

 

Anche una vacca viene posseduta dal demonio e da Martino liberata

 

vv 296- 325 Il santo stava tornando da Treviri, quando si trova davanti, in mezzo ad una spianata, una vacca impazzita che un demonio, aggrappato al suo dorso scosso dalle convulsioni, tormentava. La calcava con le gambe a penzoloni, e la sua frusta fendeva l’aria e batteva la vacca. Mai si erano visti un simile mortifero cursore e una vacca trasformata in cavallo di posta: cavaliere che sprona un animale con le corna, tristo mulattiere, bifolco aggrappato al dorso di una bestia che tortura senza scopo. Egli inasprisce il furore dell’animale in ogni modo possibile: impazzita ad opera di quel crudele cavaliere, la vacca si muove in tutte le direzioni e, sotto il peso del suo aguzzino, galoppa dove la strada è più tortuosa e impervia. Capita proprio vicino al santo con le sue corna minacciose, ma Martino alza una mano e le ordina di arrestarsi: la vacca si blocca sulle sue zampe, già è meno aggressiva. Subito il santo si rende conto della presenza del diavolo ostile e si rivolge a lui: «Vai per la tua strada, belva feroce; fuggi, crudele; torna da dove sei venuto, malvagio; fatti indietro, bestia sanguinaria; smettila di tormentare un animale inoffensivo, essere malefico». La bestia crudele subito abbandona il dorso dell’animale e la vacca riprende il suo abituale, mitissimo carattere. Si prosterna davanti ai piedi del santo, adorante, in venerazione: un animale, privo di intelligenza, piega il ginocchio. Contro la sua natura, riesce a comprendere cosa il santo ha compiuto e gli rende omaggio, anche se non può valutare la grandezza del suo potere. La vacca si inchina ancora di più ora che il suo collo è stato liberato: prima, quando era prigioniera, si impennava, ora, che è libera dal suo persecutore, si abbassa. Quella che si drizzava muggendo infuriata, ora, libera da ogni pastoia, si lascia cadere sottomessa. Non ha voce e allora esprime la sua gioia inginocchiandosi sulle zampe anteriori. Allora il santo vescovo ordina alla vacca di allontanarsi e subito questa torna al suo gregge, liberata dalla parola del pastore175 . Questo prodigio accadde all’epoca in cui il santo fu circondato da lingue di fuoco senza che nemmeno il bordo della sua tunica ne venisse bruciato. 176

 

L’amore di Martino per gli umili animali: salva un leprotto dai cani famelici che lo inseguono

 

vv 326- 367 Voglio raccontare i meravigliosi prodigi compiuti per i piccoli animali. Durante un viaggio che il santo stava compiendo attraverso le sue parrocchie, vede davanti a lui -una schiera di cavalli scorrazza tutta presa dalla foga della caccia- una preda scovata in mezzo al bosco dal fiuto sottile dei cani. I cavalieri, lanciati all’inseguimento, attraversano la campagna urlando a gran voce, i segugi incalzano e tormentano la lepre in fuga; abbaiando e facendo vedere i denti, la stanano dalle macchie, si allargano, gli avidi predatori, e corrono veloci. L’uno corre sui passi dell’altro, le orme si mescolano: un cane insegue senza abbaiare; un altro squarcia l’aria coi latrati; questo, ingannato da un odore, gira in un bosco vuoto di prede; quello frena il suo slancio davanti ad un cespuglio che si muove. La caccia ad una sola preda fa fremere le fauci di tutti i cani177 : più e più volte passano sopra la lepre, cercando invano di morderla e di ghermirla con gli artigli, ma la preda, agile com’è, riesce a sfuggire. I cani della muta si intralciano l’un l’altro e l’inafferrabile bestiola riesce ancora a sgusciar via. Ma ormai non ha più via di scampo: monti, valli, pietraie, foreste e boschi, ogni rifugio le viene a mancare, ormai fugge nella spianata dei campi, completamente allo scoperto. I garretti non reggono più, i piedi sono stanchi, il muso reclina; è inquieta e attenta ad ogni latrato che esce dalla bocca dei cani. Ma ecco che avverte il segno della presenza di Martino. Devia di colpo dalla sua corsa, cerca di ingannare gli inseguitori, si tuffa tremante nell’erba folta, le orecchie basse, smarrita, angosciata, ansimante. Vacilla, si lascia cadere davanti ai piedi del santo, come uno straniero che domanda asilo: non può farlo con la voce e allora, col suo ansimare, prega di essere salvata. Ora la bestiola giace protetta e difesa da Martino, si riposa coperta dall’ombra ristoratrice di un albero. Come di consueto il santo offre pietoso il suo aiuto, ordina ai cani di fermarsi e di lasciare andare la lepre fuggiasca. E non appena la santa parola raggiunge le orecchie dei cani, quegli agili corridori si bloccano, inchiodati dalle frasi di Martino: lo slancio si arresta, si ferma proprio al colmo del salto e i cani retrocedono, come fossero dei granchi. La piccola lepre, sana e salva, si lancia negli ampi spazi della campagna e, una volta allontanati i cani, torna a percorrere la sua via, calcando sicura sentieri di montagna178 . La lepre fugge, i cani tornano indietro, nessuno è morto: questa è la vera salvezza. È in questo modo che Martino reca la pace anche alle piccole bestie e l’immagine della sua bontà si manifesta nell’impotenza dei cani che impararono ad avere pietà nel momento in cui viene loro vietato di azzannare la preda. Certo, non c’erano uomini sui quali operare prodigi, ma non c’è meno gloria se è stato un animale ad avvertire gli effetti dei suoi poteri miracolosi.

 

Alcune espressioni spiritose di Martino

 

vv 368- 387 E inoltre, quanto spirito brillò nei suoi discorsi!179 Una volta ebbe a vedere una pecora appena tosata del suo vello ed esclamò: «Questa pecora ha adempiuto al precetto evangelico!180 Questa bestia innocente portava due tuniche e ne ha regalata una, si è spogliata del vello che la copriva e ha rivestito un ignudo». Un giorno Martino vede nei campi un porcaio nudo che, coperto solo da una tunica di pelle, batteva i denti: «Ecco Adamo, tanto tempo fa cacciato dal paradiso ed esiliato dal paradiso terrestre, che fa pascolare la sua mandria di porci. Ora noi dobbiamo spogliarci delle vesti dell’uomo vecchio per prendere le fattezze del nuovo Adamo».181 In un’altra occasione, il santo, mentre osservava dei campi verdeggianti (una parte era adibita a pascolo, per una mandria di buoi; una parte era scavata, per farci pascolare i porci; una parte era una terrazza destinata ad ospitare fiori e, in effetti, incoronata di fiori) istituisce tre paragoni con queste tre situazioni: «La parte scavata, adatta a farci crescere i carici,182 è immagine del turpe adulterio; l’erba tagliata è immagine del matrimonio, mentre la terrazza fiorita di violette è immagine delle vergini: coperta di erba folta, produce foraggio abbondante; ricoperta di fiori è un omaggio a Dio, più preziosa delle gemme, più splendente della porpora».

 

Martino convince un exsoldato a non lasciare la vita monastica parlando del ruolo delle donne

 

vv 387- 404 In un’altra occasione un soldato che aveva abbracciato la vita monastica dopo aver deposto il cinturone183 e desiderava trascorrere il resto della sua vita assieme alla moglie, cambiò parere e intraprese una via migliore per affrontare il passaggio. Fu Martino che, ricorrendo alla sua autorità episcopale, lo convinse con questi argomenti: «Non è opportuno che un combattente sia unito ad una donna perché, al momento di affrontare combattimento, è solo il coraggio virile ad aiutare. Che la massa più debole rimanga all’interno delle mura e che il sesso debole si tenga al riparo dietro al muro di cinta. Alla donna, che è nata per aver paura, solo la paura è riservata. Un soldato valido per la battaglia deve andare in combattimento col suo elmo in testa, splendido per la scintillante maglia della triplice corazza, con le spalle ben protette dalla lorica, appoggiato sulla lancia, abile a manovrare lo scudo e a recare offesa con l’arco; ora deve saper vibrare la spada, ora scagliare il giavellotto, mentre il sudore scorre a fiumi sotto il peso della tunica di ferro». Blandendolo con queste parole convince il giovane a rinsavire: egli lascia la moglie e aspira ad ottenere la corona184 tornando alla vita eremitica.

 

Martino ha visioni angeliche

 

vv 405- 414 Di discorsi come questi, arguti ed edificanti insieme, Martino ne faceva moltissimi: impossibile recuperarne la lista o annotarli per iscritto. Chi potrebbe esaminare in dettaglio ogni particolare della vita del santo, quanta fede c’era nel suo animo, quanto alti e puri fossero i suoi propositi? Lo andavano a visitare non soltanto uomini provenienti da lontane contrade, ma anche, con affetto, le potenze angeliche. Spesso cori angelici si presentavano davanti a lui per incoraggiare il loro stanco amico con parole di tranquillità e per dare forza al loro padre in un abbraccio, per così dire, di parole. Il racconto che segue (si riferisce a fatti accaduti precedentemente) lo prova.

 

Martino non partecipa al sinodo di Nîmes ma un angelo lo tiene informato di quanto vi si dice

 

vv 415- 429 A Nîmes185 era stato convocato un sinodo di vescovi al quale il santo vescovo si era rifiutato di partecipare. Egli si preparava a salire su una barca e scendere il fiume186 seguendone la rapida corrente: perfino quando stava in mezzo alla gente quell’eremita preferiva appartarsi: lui era seduto a poppa, mentre tutti i suoi, separati, stavano a prua. Era proprio il giorno in cui l’assemblea si era sciolta ed ecco scendere sulla barca, portato dalle sue ali, un angelo del Signore: gli racconta per filo e per segno le decisioni prese dai vescovi: ha assistito al sinodo al posto di Martino e, per soddisfare ai suoi desideri, ha attraversato lunghe distanze nel cielo. Sorretto dalle sue ali durante il viaggio nel cielo, non si è affaticato, ma è velocemente volato fino a lui per recargli le ultime notizie. È il Signore che gliele invia perché non vuole che a un amico resti nascosto qualcosa. Tutte queste parole, esattamente come l’angelo le aveva riferite a Martino, trovarono in seguito conferma: le predizioni si dimostrano vere e le rivelazioni non inducono all’errore.

 

Le vergini Maria, Agnese e Tecla appaiono a Martino, come anche Pietro e Paolo

 

vv 430- 454 E infine ecco cosa accadde un giorno in cui Severo187 e il suo compagno Gallo (allievi e devoti servitori di Martino) stavano seduti fuori della sua porta: la cella del santo si riempì di un mormorio diffuso e la porta rimase chiusa per due ore. Si sentiva parlare ma i discorsi erano incomprensibili. I due sentivano sì un brusio, ma le parole pronunciate erano inintelligibili. E fu certo un privilegio aver percepito dei suoni soprannaturali, averli potuti sentire anche senza comprenderne il senso. Ed ecco che il santo esce dalla sua cella, ancora più sereno. Sulpicio lo interroga a lungo su quanto è accaduto; Martino non si lascia smuovere da quelle richieste ma alla fine racconta ogni cosa per filo e per segno. Il santo spiega che sono venute a parlare con lui Agnese, Tecla e Maria188 ; delle sante descrive i tratti e l’aspetto, la loro figura, gli occhi, le gote, i piedi, le mani, il petto, il portamento -a tal punto era limpida la luce in cui gli capitò spesso di vedere i tratti delle sorelle- il colorito che avevano e quanto erano belle, il loro fascino e la loro grazia. Si erano scambiati parole e saluti di pace: poi Martino era tornato dai suoi confratelli, esse dalle consorelle, lui camminando sulla terra, loro in volo. Ebbe poi spesso il privilegio di incontrare tranquillamente Pietro e Paolo, culmine del gruppo degli apostoli, colonne portanti. E spesso sostenne anche combattimenti contro i diavoli che egli costringeva a fuggire chiamandoli ognuno col suo nome. Riferiva che la più perniciosa era la presenza di Mercurio, mentre ricordava che Giove era considerato una bestia stupida. Venanzio si rivolge a Martino e ne tesse l’elogio assieme a quello di Roma e della cristianità.

 

Lo prega poi di aiutarlo a ottenere indulgenza per i suoi peccati

 

vv 455- 528 O sguardo limpido, che nessuna nebbia può velare, spirito illuminato dalla saggezza, capace di una serenità senza nubi, i tuoi occhi umani possono vedere Tecla nel cielo. E vedi Agnese con la fronte cinta da corona, e guardi Maria che risplende su tutti nella sua luce preziosa. Tu hai visto il tempio del Signore appoggiato su un diadema, hai visto il talamo dello Sposo -lo sposo più bello di ogni altro- costruito di gemme e decorato di oro e porpora. Com’era il diaspro ai piedi del letto e il topazio che gli era vicino? E, alle sue dita, gli splendidi anelli verdi e sfavillanti? E i braccialetti di ametista color di fiamma al suo braccio destro? E la sua cintura da cui si irradiava lo splendore delle pietre preziose? E com’era la sua lunga veste traforata e incrostata di piccole pietre levigate? E il mantello che gli pendeva dalle spalle, intessuto di crisopazi frammisti a berilli? E l’elegante collana che brillava sul suo collo? Portava forse una benda di ametista tra i capelli color di neve? E, all’orecchio, una bianca perla con un sigillo cesellato? E portava un diadema dai mille riflessi cangianti? E la sua fronte? Com’erano gli occhi, la sua figura, le sue gote, i piedi, le mani, le braccia da dove si irradiavano i fuochi delle gemme riflesse nella prateria fiorita ?189 Racconta, buon pastore, alla tua pecora: quali argomenti esaminavate nei vostri discorsi? E cosa accadeva nei tuoi frequenti incontri con Pietro e Paolo, primi e fulgidi depositari del ministero di Dio, i più splendenti scrigni d’oro, impreziositi da gemme sfolgoranti? Quanta serenità, secondo te, brillava sul volto di coloro che per primi diffusero la dottrina di Cristo per il mondo, i primi a dire: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio Padre onnipotente che domina e troneggia nell’alto dei cieli.”? Su questa pietra è fondata e regna la Chiesa: non la smuovono i venti, non la abbatte il turbine tempestoso, non la trascina via, come sabbia fluttuante, la pioggia torrenziale: questa pietra viva rappresenta le fondamenta della nostra salvezza e contro di essa mai prevarranno le porte dell’inferno. E che diceva allora Paolo, tromba che risuonava ad ogni popolo, quando diffondeva per mare e per terra le lodi di Cristo, quando versava sull’Europa, sull’Asia e sull’Africa il sale del suo insegnamento? Ovunque arrivano i raggi del sole, lì è accorsa la sua parola190 : ha invaso Settentrione e Mezzogiorno, Oriente e Occidente, varca l’Oceano, ovunque ci sia un isola con un porto, fino alle terre dei Britanni, fino all’ultima Thule191 . Una sola tromba che ha suonato in ogni contrada. Istruiti dall’insegnamento di simili maestri, celebrano i doni che il Cristo ha dato, gli Ebrei, i Greci, i Romani, i Barbari e gli Indiani. L’Istraelita li canta, e così fanno l’Ateniese e il Quirite, grazie a questi due principi della fede, sotto il principato di Roma, la città che ospita in due celebrate tombe le spoglie mortali degli apostoli192 . Essi occupano entrambi il primo posto sulla terra, entrambi il primo posto nei cieli: identico valore avevano la loro parola e il loro insegnamento, con identica dignità occupano il seggio curule. Entrambi trionfano e spargono sempre nuovi doni su tutta la terra: il santo martirio li fece entrare insieme nel cielo dei beati nello stesso giorno193 : i due consoli segnarono la data dell’era della salvezza194 . Dai loro volti si spandeva una identica luce così radiosa che la luminosità del loro viso superava quella dell’astro mattutino. Nemmeno il fulgido disco del sole brilla così intensamente! O occhi colmi di dolcezza, nel momento in cui tu osservi le figure di questi beati! Hai visto Sion e la serie delle sue dodici porte [hai visto Sion e le sue dodici porte folgoranti195 ] che l’Onnipotente ama più di tutti i templi di Giacobbe196 : le porte sono ornate dallo splendore cangiante delle pietre preziose, sono ricoperte di lamine d’oro, recano smeraldi artisticamente incastonati, luccicano di crisoliti, sono costellati di perle bianche. La grazia vi ha sparso sopra a profusione tutti i tesori dell’amore e, alla sommità di ciascuna, brilla uno splendido topazio dai mille colori: attraverso queste porte i popoli, le nobili genti questo regno, entrano nella città celeste, in virtù dei loro meriti e vi dimorano per sempre, arruolati fino alla fine dei secoli nelle liste dei cittadini del cielo. Tra questi grandi e queste eccelse e sublimi potenze, unito ai nobili patrizi e ai consoli, tu, Martino, siedi vicino al Re, senatore, cui la fede ha fornito le armi, cui il tuo Re è fiducia, soldato, cliente per amore, fatto coerede della sua gloria. Tu che hai il potere, io ti prego, chiedi perdono per i miei peccati, ascolta ciò che mormora una lingua piena di difetti, affinché dalla santa sorgente scorra indulgenza sulle mie ferite: grazie alle tue preghiere, o santo Martino, possano le mie piaghe cicatrizzarsi e guarire.

QUARTO LIBRO
DELLA VITA DI SAN MARTINO

Proemio al quarto libro: Fortunato sente il porto vicino

 

vv 1- 27 Mi sono lasciato alle spalle il mare: non più preda delle onde, guadagno la costa e il porto. Colgo col mio pollice le bianche corolle dei gigli, recido con l’unghia le rose, corro nei campi delle viole, assaporo i mille profumi della campagna in fiore: ed ecco cogliermi il sonno, sono stanco e il collo reclina, mi appoggio e mi stendo su un giaciglio d’erba. E tuttavia torna il giorno, ormai, e si fa chiaro. Devo rimettermi in cammino, mentre la rondine mi saluta col suo grido mattutino, perché l’alba precoce ha spazzato via la breve notte. I miei occhi ancora annegano nel languore del sonno, e nonostante ciò mi devo alzare. Le mie dita, al risveglio, fanno dileguare il sonno dagli occhi. Io, o miei sodali, riprendo il cammino che Gallo mi invita a compiere. Io, nocchiero, con i miei tre libri, tre volte ho intrapreso la navigazione tra i flutti e, per così dire, tra le onde ingannatrici delle Simplegadi197 , dello Ionio, dell’Egeo, del capo Maleo198 , sempre incalzato dalla tempesta. Ma, ad impedire ad Austro di farmi naufragare su fondali ingannevoli199 , ha preso in mano il mio timone la grande vicenda del santo patrono Martino. Una vicenda che io cerco, per quanto inadeguato, di delineare con le mie rozze parole; io, artigiano maldestro e grossolano, tento di forgiare un monile che la lima non sa levigare, che non so laminare col martello e battere sull’incudine, che il fuoco della forgia non ha provato. La tenaglia, col morso delle sue ganasce, non ne ha saggiato la consistenza e, insomma, è un metallo ancora grezzo quello che esce dalla mia bocca. Ma è una storia molto bella, a dispetto della mia scarsa abilità, perché il suo fascino regala di per se stesso un bel gioiello. Tuttavia io devo saldare il mio debito, con ciò che resta da fare di questo mio lavoro, e ripagare almeno un poco colui al quale io sono grandemente debitore.

 

Martino guarisce una bambina muta

 

vv 28-51 Intanto, nel territorio dei Carnuti200 , un padre, in preda all’angoscia, presenta a Martino, perché egli la guarisca con la sua parola santa, una bambina muta dalla nascita: sono 12 anni che la fanciulla, che si trova in uno stato di grave prostrazione, è priva della voce. Martino non fa attendere l’aiuto del suo amore e della sua carità. Allora si stende al suolo, alzando al cielo una silenziosa preghiera: il corpo a contatto con la terra, lo spirito che vola verso l’alto. Appena avverte che, grazie alle preghiere, la sua fede ha ottenuto un risultato, dispone che gli sia portato dell’olio di oliva per consacrare la fanciulla e, dopo aver benedetto il liquido ottenuto da un frutto della terra, glielo versa nella bocca. Poi, tenendo tra le dita misericordiose201 la lingua della fanciulla, le chiede il nome di famiglia di suo padre. All’istante liberata, la lira della faringe fa squillare il suo plettro202 e la volta del palato fa risuonare come una cassa armonica dei suoni cui non è abituata; questi urtano contro i denti nella cavità della bocca203 e producono parole: la figlia affettuosa risponde con il dolce nome del padre. Da molti anni sua madre l’ha partorita: ora, si può dire, nasce una seconda volta grazie alla parola. Già donna fatta, la fanciulla emette i balbettii dei lattanti, comincia a far girare dolcemente le parole, a staccarle. La lingua ancora intorpidita si muove male e, simile a stridula zampogna, tarda ad articolare suoni intelligibili fino al momento in cui il suo fiato esplode in una compiuta sinfonia. Allora il padre abbraccia le venerande ginocchia del santo, piange di gioia e urlando -è di una voce che è stato fatto dono- ringrazia Dio per quella gioia e ne fa risuonare altissima la lode.

 

Il miracolo dell’olio

 

vv 52-71 Un altro prodigio. La moglie del feroce giudice Aviziano204 era malata. Nella speranza di essere guarita dalla sua malattia, fece recapitare al santo un vaso d’olio pieno esattamente per la metà: il balsamo avrebbe scacciato la malattia e ridonato la salute. Martino fa il segno della croce sopra l’ampolla e subito il liquido sale fino al bordo; poi l’unguento schiuma e ribolle, cresce straordinariamente abbondante nell’involucro di vetro. Anche la parte secca del vaso diventa totalmente umida. Sale velocemente, contro la legge naturale che vorrebbe che scendesse verso il basso, e a grandi fiotti lascia il suo letto per guadagnare il largo. Quell’olio non viene dalla radice di un ulivo né lo ha prodotto una bacca siriaca: è un potere meraviglioso quello che lo ha fatto tanto crescere. Effluisce verso l’alto collo che chiude l’ampolla, ma non si accontenta di riempirla. E infatti l’onda dell’olio si accumula ben presto all’orlo e poi si spande: il vaso non può più contenerlo -tanto potente è la benedizione della destra di Martino- e traboccando macchia tutto il vestito del servo. L’olio scaturisce dal dito di Martino, come da una fonte, e scorre via. E anche quando l’olio è corso via come un fiume, il vaso è ancora pieno e così la matrona lo riceve: miracolo della fede!

 

Il miracolo del vaso benedetto che cade senza rompersi

 

vv 72-86 A questo proposito corre alla memoria un fatto non meno meraviglioso. Un servitore che riportava indietro un’ampolla di vetro benedetta da Martino, l’aveva incautamente posta sul davanzale di una finestra, dopo averla, per rispetto, avvolta in un panno finissimo. Un secondo servo, all’oscuro di ciò, tira verso di sé un lembo svolazzante di quel lino. L’ampolla cade sul pavimento e rimane diritta sulla superficie di marmo: né la pietra frantuma il vaso, né il vaso perde una goccia d’olio. Salva, intera, come se delle piume ne avessero sostenuto il volo, come se fosse discesa, leggera, portata da due ali: il vaso non ha alcuna una fenditura, non una crepa. È così: il liquido che si trova all’interno preserva l’involucro esterno, ed è ciò che avrebbe dovuto essere protetto a mantenere in realtà integra la propria protezione. L’olio custodisce il vetro, gli impedisce di andare in frantumi e il liquido contenuto difende il proprio contenitore. La benedizione di Martino ha reso infrangibile un vaso fragilissimo.

 

Nel nome di Martino i suoi discepoli ammansiscono un cane

 

vv 87-97 Due discepoli di Martino camminavano un giorno fianco a fianco, quando furono aggrediti da un cane che abbaiava furiosamente. Uno, spinto dall’amore di carità, disse: «In nome di Martino ti ordino di tacere e di non disturbarci con i tuoi latrati». E immediatamente quel cane ha tronca la voce, come bloccata in gola, deve ringoiare l’urlo che stava per liberare dalle sue fauci e il latrato feroce gli si strozza nella gola ingorda. Il molosso rimane così, la bocca intorpidita e la voce bloccata, torturato dalla sua rabbia perché non può spalancare le mascelle. Deve ritirarsi, il cane, soffocare il suo mugolio, rinunciare al suo urlo terrificante. Efficace fu il nome del santo, anche se non era materialmente lì con la sua parola.

 

Martino convince Aviziano a liberare i prigionieri di Tours

 

vv 98-157 Dunque provo a proseguire col mio passo lento il viaggio che ho intrapreso, fino a quando mi è dato avanzare sulla strada, fino a quando mi invita una brezza favorevole, fino a quando l’ora e la luce del giorno spingono avanti il mio piede tardo. Il conte Aviziano era un uomo dal carattere arrogante. All’epoca del suo mandato, giunse a Tour, appoggiato dalla forza del suo terribile ufficio. Ecco convergere lì folle di popolo e anche una lunga teoria di prigionieri incatenati205 : capelli lunghissimi, mortalmente magri, braccia ischeletrite cui perfino i ceppi di ferro erano larghi, visi tanto emaciati che era quasi impossibile riconoscerli. Si vedeva la gente vagare in lacrime per la città. Aviziano dà disposizioni perché siano apprestati strumenti di tortura in misura anche superiore al consueto; poi il malvagio comanda che ci si presenti davanti al suo terribile tribunale, da cui i suoi occhi crudeli potevano vedere i corpi bruciare. Appena il santo è informato che si stanno eseguendo questi ordini di morte, al cadere della notte, si reca nel pretorio che tanta crudeltà ospitava: procede, lui, viaggiatore solitario sulla strada della pietà. Il vecchio arriva affaticato, ansimante; si stende davanti alle porte, lui che è bontà, davanti alla soglia disumana: qui riposa il giudice, sprofondato nel torpore del sonno. Ed ecco che un angelo alato entra nel palazzo e tuona con voce minacciosa all’indirizzo del conte dormiente: «Tu sei qui, addormentato, mentre Martino è fuori. Tu stai riposando, lui sopporta gravi fatiche, tu giaci su un morbido letto, lui sulla dura pietra». Angosciato, Aviziano subito si leva dal letto urlando che fuori della porta giace il santo Martino. Ordina ai servi di togliere i catenacci e di aprire al santo: il venerabile servo di Cristo non deve patire oltraggio. Squillano delle risate: sono i servi che dileggiano Aviziano. Sciocchi come sono, dicono che il padrone ha sognato vane visioni notturne: non c’è alcuno fuori della porta o lì vicino. Subito Aviziano cade nuovamente in un profondo sonno. Allora l’angelo si fa più pressante, lo sveglia ancor più bruscamente, lo scuote forte, perché non abbia a cedere ancora al sonno. Terrorizzato, il giudice non vuole più fidarsi di alcuno, non chiede più ai servi e, in tutta fretta, si dirige alla porta del suo palazzo. Vi trova Martino, come nel suo presagio di poco prima. Quell’uomo crudele prende la parola per primo, rivolgendosi così al santo: «Martino, perché mi fai questo, o vescovo venerabile? Tu non combatti con me ad armi pari. Tu vieni per far assolvere dei colpevoli e torturi me con la tua sferza. Dunque tu preferisci che io paghi per tutti e la tua scelta è che il loro delitto venga riscattato dal mio supplizio? Le ore della tortura sono cambiate da un nuovo carnefice: di giorno vengono torturati i colpevoli, di notte tu torturi me. Servo di Dio, quanto sia forte la tua potenza, lo dice chiaramente che, sulla base del tuo giudizio, tocca a me, giudice, di essere percosso. E tuttavia da questo prendi atto di come io mi sono comportato nei tuoi riguardi: sono venuto personalmente da te, non ho incaricato né un servo né un amico. Quando la sentenza incalza, non sono ammessi indugi. Non servono parole: nonostante il tuo silenzio, capisco quello che vuoi. Ti prego, vattene, lascia questo posto, concedimi ciò che ti chiedo: che la tua punizione e la tua vendetta non abbiano ora ad abbattersi pesantemente su di me». Così parla Aviziano e, mentre il santo si allontana velocemente, fuori di sé, chiama i suoi funzionari e ordina di spalancare le porte delle camere di tortura, delle prigioni e delle gabbie. Rilascia i prigionieri e poi abbandona a sua volta la città. Dunque se ne va anche l’orrore soffocante e Aviziano, che tanta paura incuteva, ora fa paura a stesso. L’ordine logico delle cose viene ribaltato: la pace nasce dal fatto che il giudice se ne sia andato. Non si è sparso sangue e il pastore ha cacciato il lupo e salvato il gregge.

 

Ancora episodi di esorcismo

 

vv 158-172 Tutte le volte che Martino lasciava il monastero per recarsi rapidamente in città, nel momento stesso in cui metteva il piede fuori della cella per cominciare il viaggio206 , i posseduti dal demonio –schiere numerosissime- prendevano a tremare, a urlare, a girare su stessi. Anche se la gente non si rendeva conto che stava arrivando il santo, bastava l’urlo dei diavoli a preannunciarlo. All’avvicinarsi di Martino, si potevano vedere corpi muoversi, sospesi nel vuoto, sollevati ben alto in aria, e altri con i piedi in su e la testa in giù, come se stessero precipitando dalle nuvole (ma le vesti non si scomponevano e continuavano a coprire le parti intime): citati a comparire davanti ad un giudice ammettevano crimini ed errori. Era un esame frettoloso in cui correvano a confessare ogni loro atto, giurando di essere uno lo stupido Giove, l’altro Anubi207 , e che erano il vaso che ospitava il ministero impuro del demonio. Il buon carnefice tortura la bestia selvaggia e questa deve fuggire.

 

Martino ferma la grandine

 

vv 173-194 Ora racconterò ciò che Martino ha fatto nella regione dei Senoni.208 Ogni anno la grandine copriva con un compatto strato ghiacciato i terreni appena seminati e la perdita del raccolto lasciava delusi i contadini: non c’erano più bionde spighe a reclamare il lavoro del mietitore, il contadino si vedeva defraudato della trebbiatura e la sua mano restava inoperosa. Allora gli abitanti, tante volte frustrati, proprio quando le spighe stavano arrivando a maturazione, vedendo i loro campi sterili impigrirsi nei loro stessi solchi209 e il loro povero raccolto massacrato rifiutare il nutrimento ai coltivatori, mandarono a Martino una delegazione fidata per pregarlo di allontanare dalla loro terra il terribile flagello della grandine. Si alza al cielo la preghiera di Martino e questa è sufficiente ad ottenere lo scopo. Infatti, non appena il buon vescovo ha fatto sgorgare le invocazioni dalla sua bocca, le nuvole prosciugano le loro piogge cariche di grandine, e le terre, da tempo vedove, si ritrovano fertili e riprendono a generare. Durante i venti anni che Martino visse ancora210 , il dono del santo patrono mantenne inalterata la sua efficacia. Ma quando l’uomo di Dio partì per salire tra gli astri, la grandine aggredì di nuovo i contadini con violenza rapinosa di cui ormai si era perso il ricordo. Privati del loro protettore, una distruzione crudele devasta i campi e il cattivo tempo fa prigioniere le spighe e le distrugge. Il difensore è morto e subito la grandine torna a cacciare la sua preda. Con la morte di Martino la natura riprende a flagellare l’uomo.

 

Martino libera Aviziano da un demonio

 

vv 195-209 Ancora. Quel giusto si trovò un giorno ad incontrare un’altra volta Aviziano. Vide che, sopra di lui, incombeva la figura di un crudele demonio, dall’aspetto orribile e dal laido corpo. Il santo fissò lo sguardo su di lui e, pur da lontano, emise un soffio che lo scacciò via. Il giudice crede che Martino abbia soffiato su di lui e gli dice: «Perché, o buon pastore, mi tormenti e mi offendi? Perché mi marchi di infamia gettandomi addosso il disprezzo del tuo soffio ?»211 Il nobile vescovo gli risponde con atteggiamento amichevole: «Non faccio questo contro di te, per punirti di un disonorevole peccato: ho soffiato contro la figura che, con tuo danno, ti stava addosso, sulle spalle». E subito il demonio, che gli stava così vicino da sembrare una guardia del corpo, lascia il suo posto. Si era insediato sul collo di Aviziano, e ora abbandona il seggio che aveva occupato. Aviziano è di nuovo libero, alza la testa. Sbarazzato del suo fardello, infatti, il giudice ritrova la propria dignità: era stato duro e implacabile, ora si fa più mite.

 

Martino scatena le furie della natura contro una torre pagana

 

vv 210-232 Ancora un evento prodigioso accaduto nel villaggio di Amboise212 . In quel luogo era stata costruita, per ospitare degli idoli pagani, una torre di marmo213 . Si trattava di una costruzione massiccia e pesante per le sue pietre levigate con molta precisione: tempio dell’orgoglio, trono che si lancia verso il cielo, falsa immagine della superstizione, reale inganno per i fedeli214 , strumento immenso di prevaricazione che spingeva i suoi fedeli a farsi adoratori del nulla. Il santo aveva pressantemente dato mandato che, come era giusto, fosse distrutta215 , ma, con i mezzi umani, nessuno c’era riuscito. E allora il santo vescovo ricorre alle armi consuete: trascorre in veglia le ore della notte, parla col Signore e interrompe così il cupo silenzio. Ma quando, al nuovo mattino, si spandono sul mondo le luci dell’aurora e Febo tende attraverso le nubi il suo mantello d’oro, ecco all’improvviso, tra i tuoni, levarsi un uragano che attraversa lo spazio soffiando e facendosi rovinoso: Martino, è per correre in tuo aiuto che l’uragano infuria, muove le tue truppe e le arma di venti furibondi. Non appena colpisce il tempio con l’urto di una rapace tromba d’aria, lo fa vacillare battendo sui muri con un rabbioso turbinio. Frantuma gli idoli e riduce in polvere le alte mura di quella torre, segno di arroganza fino ad instante prima.216 O santo vescovo, dal nome dolce e destinato a restare nei secoli, non c’è uomo che non si sottometterebbe a chi, come te, ha perfino le nubi che combattono in sua difesa.

 

Martino distrugge una colonna sacra agli dei pagani

 

vv 233-250 Desidero raccontare anche questo prodigio, propiziato dallo stesso potere. Si ergeva, alta e dritta, una colonna, mostruosa immagine217 , dall’aspetto terrificante e così alta che lo sguardo non poteva raggiungerne la sommità. E sopra stava la statua del nemico. Il santo vuole ridurla in polvere ma non ci riesce e allora eccolo ricorrere alle armi vittoriose della preghiera: il guerriero chiama a sé le potenti forze del cielo, si stende sul terreno, vi si allunga, mentre le sue preghiere lo portano tra le stelle. Prega a lungo, a lungo si rotola nella polvere ed ecco, sotto i suoi occhi, discendere una colonna dal cielo che attraversa dolcemente l’aria e durante la sua caduta fende le nubi. Simile a freccia scagliata con forza, va a colpire il bersaglio della torre e la costruzione si scompagina, si dissolve in frammenti. Si sfaldano i blocchi di pietra e gli idoli, senza più base, crollano: il dio ingannatore viene colpito da un nuovo genere di freccia, falsa divinità che deve subire l’ira del vero Dio. E tuttavia dalle rovine dei templi ridotti in polvere sono nate delle ricchezze perché, una volta distrutti, sulle ceneri della barbarie sono sorte delle chiese.

 

Martino, medico inconsapevole, guarisce una donna che soffre di emorragie

 

vv 251- 271 A dire la gloria di Martino, è necessario narrare anche questo episodio. Una donna pallida perché perdeva il suo sangue goccia a goccia, aveva il corpo disseccato per questo continuo fluire di sangue. Era una naufraga che trascinava il suo corpo con sé, perduta nell’onda del suo sangue, distrutta dalla fatica di quel suo violento diluvio: ed era lei stessa che generava da dentro di sé e contro di sé le piogge di quell’uragano. Ormai annegava, sommersa dalle sue stesse onde, e non vi era un porto per lei, un mezzo di guarigione218 . Ma non appena tocca la frangia del vestito benedetto di Martino -ne tasta i fili proprio sul bordo del santo tessuto- ecco scaturire la guarigione: un unguento dapprima invade le sue dita e poi una grande fede in quella medicina le entra nel petto. Immediatamente si secca la sorgente del flusso, la ferita aperta, nella parte bassa del suo corpo, riduce lo scorrere del sangue, l’onda del sangue restringe l’effusione e torna verso la sua sorgente, le cavità delle vene chiudono il passaggio all’ininterrotto fluire. La veste del santo medico ha indurito e coagulato il rivolo di sangue e il sangue ha avvertito il freno derivante dal potere dell’uomo. Se ne riparte, la donna, felice e guarita grazie al suo sotterfugio. All’insaputa del medico219 ha ottenuto il beneficio della guarigione. Oh, la tua santità, Martino: doni la guarigione e nemmeno lo sai.

 

Martino scaccia un serpente

 

vv 272- 283 Un giorno il vescovo si allontanava col suo passo svelto. Ecco dirigersi verso di lui, a nuoto attraverso un fiume220 , un serpente che solcava l’acqua: avanzava con le spinte del petto e usava la coda come un remo; muoveva la schiena coperta di scaglie e, con le sue ondulazioni, tagliava le acque scure. Quando il santo lo scorge, esclama: «Ti ordino nel nome di Cristo, torna indietro, bestia maledetta». E il serpente, lontano, inverte il lento moto delle sue spire, si gira su stesso e porta via il suo terribile carico di veleno. Poi si dirige verso le sabbie umide221 della riva opposta: nuota scivolando nei gorghi delle onde e riattraversa il fiume. La vipera ha obbedito agli ordini e così ha perduto tutta la sua aggressività perché nemmeno il più torbido veleno resiste agli ordini del santo.

 

Martino e la pesca miracolosa

 

vv 284- 304 Era il periodo in cui ritornano le solennità pasquali, durante le quali il buon vescovo mangiava anche del pesce e completava il suo pasto degustandone un po’. Chiede pressantemente ai monaci se si sono procurati del pesce. L’addetto a svolgere questa incombenza risponde che ha pescato tutto il giorno senza tuttavia prendere nulla: invano aveva lanciato il suo amo legato con un crine alla canna e nemmeno con la rete era stato possibile catturare alcuna preda. Il pastore gli replica molto tranquillo, ma fermo: «Ora ritorna al fiume e vedrai che non andrai deluso». È una speranza, una certezza che spinge l’addetto: si reca velocemente al fiume e intanto le rive si affollano di monaci, giunti in schiera per vedere l’effetto delle parole del santo profeta Martino, perché sanno che egli non parla mai a caso e che le sue parole non vengono mai smentite. Non appena il pescatore getta la sua rete dalla barca e ne trascina lentamente le umide maglie nelle acque limpide della Loira, un grosso luccio viene imprigionato dalla piccola sciabica. Viene tratto a riva il pesce, nato per vivere nell’acqua e catturato non dalla rete del pescatore ma dalle parole di Martino. Preda che nuota, si offre per le necessità del santo e corre a tale morte, preferendola al dono della vita.

 

Arborio222 vede la mani di Martino coperte di pietre preziose durante una celebrazione eucaristica

 

vv 305- 330 L’ex prefetto Arborio racconta un altro segno del potere di Martino, da lui visto nella città di Tours e di cui è testimone fedele. Un giorno, mentre, in grande raccoglimento, sta celebrando il divino sacrificio, il santo padre presenta a Dio, sull’altare, le offerte pure. Durante il suo servizio sacerdotale, pronuncia le parole di benedizione sui doni del Cristo che si trovano sull’altare e li accoglie come suo corpo e suo sangue. Ed ecco all’improvviso la venerabile mano brillare di uno splendore straordinario e lampeggiare dei fuochi di mille pietre preziose: sembra diffondere intorno un’aureola di raggi luminosi. Dalle braccia di Martino gemme cangianti lanciano bagliori, mentre una luce fulva come l’oro si irradia dalle pietre verso la luce del sole. Per rendere questo racconto del prodigio ancora più degno di fede, lo stesso Arborio, uomo di grande prestigio personale, afferma di aver udito il fragoroso crepitare delle pesanti gemme. Così, stando a questa doppia testimonianza, la amorosa mano destra del giusto ebbe a folgorare e brillò anche uno smeraldo, disceso in basso e quasi diventato la sua manica. Oh, lo splendore di Martino: hai addosso una veste di pietre preziose, e mai si è visto un mantello il cui tessuto sembra mandar fiamme perché la trama rutila di topazi e l’ordito di diaspri, e una tunica che ha per vello splendide gemme. Quale mano d’artista ha tratto dal fuso il filo per un simile vestito? Quale artigiano ha filato quella lana color dei giacinti? Chi ha potuto intrecciare delle dure gemme e farne dei fili? Questi fatti potranno essere raccontati più per spingere alla devozione che per divulgarli.223 Come cercare di penetrare il mistero, quando non si riesce nemmeno a percepire ciò che si nasconde nella luce? Uomo, tu hai di che stupirti quando è la grazia divina a tessere i panni.

 

Martino a Treviri

 

vv 331- 386 A questo punto inizia il racconto di una vicenda piuttosto lunga, ma io la percorrerò velocemente riassumendola. Negli anni in cui Massimo 224 regge l’impero -un cavaliere, per così dire, che regge le redini- egli dispone che Itacio sia posto sotto scorta militare perché qualcuno non trovi il modo di farlo incriminare da un tribunale civile come accusatore del vecchio Priscilliano. Egli invia in Spagna dei tribuni investiti di pieno potere per braccare gli ultimi eretici, confiscarne i beni, condannare alla pena capitale quelli che fossero stati rintracciati e in modo tale da poterli colpire tutti senza pietà in un’unica occasione. La bontà del santo vacilla per queste molteplici disgrazie e lui, intensamente pregato di intercedere a favore del governatore Leucadio225 , accorre a Treviri, dove peraltro lo spingono anche altri motivi di preoccupazione. I vescovi parlano in continuazione agli orecchi di Massimo: Martino non deve partecipare al sinodo, a meno che egli non venga ad una pacificazione. Il santo obietta che lui è nella pace di Cristo e, in una prima fase, si tiene lontano dalle riunioni sinodali. Di nuovo i vescovi accorrono al palazzo di Cesare perché egli abbia forzare il vescovo -del tutto innocente- a schierarsi apertamente con loro che invece erano nel torto.226 L’imperatore lo chiama ad un colloquio e, con molta calma, invita il santo a condividere la comunione con gli altri vescovi: «Il solo che abbia manifestato dissenso e si sia allontanato, dice, è Teognisto227 che giudicava peccaminosa la situazione e dunque rifiutava la comunione con i confratelli». Ma il santo è ben saldo sulle sue posizioni e l’imperatore, non riuscendo con tutta la sua autorità a piegarlo, si ritira dalla vista di Martino. E immediatamente sguinzaglia, una volta per tutte, dei sicari col loro gladio minaccioso con l’ordine di sgozzare e passare a fil di spada tutti quelli che avessero trovato. Non appena il santo viene informato che l’inganno ha gettato la maschera, si impegna col re a partecipare alle riunioni dei malfattori228 e , infuocato dalla sua pietà, rinuncia per amore alla propria inflessibilità. La sua anima, innocente di ogni colpa, entra in comunione con i perversi. (Ma da quel luogo, poi, Martino si sarebbe staccato andandosene in tutta fretta). Ma intanto deve farsi avanti: il suo animo è in subbuglio, è abbattuto, tormentato, angosciato perché deve riunirsi, anche se solo per un’ora, con degli uomini iniqui. Poi riprende il suo cammino che attraversa vaste distese desolate, preceduto da alcuni suoi compagni. Quando è vicino ad Andethanna229 , ecco farsi incontro al grande uomo un angelo del cielo che si fa vedere pubblicamente col suo volto per indirizzarsi apertamente a lui. Dopo aver svelato il proprio viso, gli si fa vicino e gli parla così: «Con quanta ragione, Martino, tu ora ti senti prostrato dal dolore! Ma da quella situazione potevi uscire soltanto accettando le imposizioni: al bivio tra due mali, hai dovuto subire dolore e sofferenza. Ma recupera la tua fermezza, ritrova la forza del tuo potere, riprenditi, deponi il tremore. Il peccato non può spezzarti, la tua gloria non può morire. Non lasciare che le tue vittorie vadano perdute, agisci come è tua consuetudine, torna, o maestro, ad apprendere dalle tue stesse lezioni. Non basta un’unica caduta ad abbattere il coraggio di un valente atleta. Il dolore spinge una mano ferita ad incalzare ancor più acremente il nemico e le piaghe inferte danno ancora più forza alle anime coraggiose. E il coraggio, non evidente all’inizio, cresce in proporzione alla brutalità delle ferite ricevute. La vittoria viene concessa al guerriero che maggior numero di colpi ha subito» . Queste le parole fraterne dell’angelo: proprio come un fratello, con le sue esortazioni, ridà la vita all’amico di Dio. E Dio a tal punto era preoccupato di evitare il cedimento a Martino. Martino, l’innocente, in seguito non partecipò più ad alcun sinodo, ma questa sconfitta del suo prestigio fu compensata da nuovi profitti .230

 

Un nuovo esorcismo operato da Martino

 

vv 387- 401 I fatti recano di per se stessi le prove in questa santa azione del venerabile Martino. Un giorno si presentò alla porta posteriore della sua cella un malato tormentato e ferocemente perseguitato da un demonio furioso: l’ombra malvagia lo torturava col suo spirito maligno. Ancor prima che toccasse la soglia del santo monastero, il feroce nemico del suo ospite fuggì il contatto con Martino, terrorizzato al solo vederne il santo volto. Il più oscuro degli esseri non può sopportare la luce, come una persona incostante non può sopportare la fermezza. L’infedeltà fugge davanti ad un cuore fedele, la crudeltà davanti alla bontà, la collera davanti alla dolcezza, l’aggressività davanti all’indulgenza. E dunque il nero demonio temette la porta della luce. Erano gli strumenti irripetibili del santo: bastava vedere la sua cella ricca di grazia per ottenere la guarigione. Il santo rimane chiuso nella sua cella: da lui sgorga la fonte di ogni cura che guarisce ancor prima che appaia l’ombra di chi deve guarire.

 

Nel nome di Martino un pagano acquieta una tempesta

 

vv 402- 425 Non basta l’ammirazione per ciò che Martino ha operato essendo personalmente presente: è sufficiente il suo nome per diffonderne i doni in tutto il mondo. Ecco il fatto. Un uomo stava navigando a vele spiegate attraverso il mar Tirreno, sulla rotta che porta a Roma. All’improvviso si leva un vento che scatena violente folate. I flutti si alzano, le corde sferzano le vele tese, l’albero maestro oscilla impotente, le bandiere vengono strappate dai pennoni231 , vibrano le connessure dei due bracci della liscia antenna232 . Senza più risorse e stordito, il timoniere precipita dalla poppa: le onde si ergono ancora più alte, la struttura cede, il rombo del mare si fa minaccioso, la prua beve e il nocchiero vomita. Non vale più la sua perizia, non lo aiuta l’esperienza, si dilegua la speranza, il furore delle onde lo incalza, non vede più la luce e la morte lo minaccia. In questa situazione difficile in cui l’unica certezza è il pericolo, i passeggeri tremano per lo spavento. Soltanto un egiziano (non faceva parte della comunità, ancora non aveva conosciuto la grazia di Cristo) si mette a gridare: «Dio di Martino, strappaci al pericolo!». Subito il feroce uragano si acquieta e tornano tranquille le onde rigonfie del mare, si spiana l’acqua sotto la nave, torna immobile la liquida distesa marina: calme le onde, sopito il fragore del mare. Corre la nave sul mare diventato amico e gli abissi rispondono ai voti; le vele spiegate ai venti favorevoli costeggiano i litorali. I marinai guadagnano il porto, riempiendo il mare con le loro cantilene233 . Così il Cristo onora generosamente i meriti del suo servitore. Il potere della sua fede si estende sulle terre, sul mare, nei cieli.

 

Martino guarisce Liconzio234 dalla peste e accetta una ricompensa per riscattare dei prigionieri

 

vv 426- 488 Ora, in questa parte finale del mio racconto, desidero raccontare un fatto straordinario. Liconzio , discendente da una nobilissima famiglia, famoso per i suoi alti incarichi, per la sua fede e le sue ricchezze, era uomo che ricalcava le orme della sua discendenza. Una volta una peste mortale ebbe ad invadere la sua casa, una malattia rovinosa che aveva punto col suo aculeo tutta la famiglia. Tutti i poveri servi e i clienti erano accomunati in un’unica strage che attaccava or l’uno o l’altro; e si sarebbe potuto dire che erano corpi abbattuti da colpi di freccia. La morte non tiene in alcun conto il rango sociale. Resta un’unica speranza di aiuto al mondo: Martino. Velocemente viene inviata una missiva che, con molta devozione, richiede il suo aiuto. Così parla la bocca di Liconzio, così il suo cuore: «Se non vieni subito, questa pestilenza crudele si porterà via ogni cosa, poco impiegherà ad uccidere tutti e a trascinarli nel Tartaro. Da tempo ormai la malattia avanza e finirà col distruggere tutto ciò che si porta via. Tu che ne hai il potere, reca aiuto ad un popolo su cui incombe la morte. Chi dispera della salvezza va in cerca del sostegno più valido». Martino comprende che questo flagello è una punizione divina e teme che non sarà facile che le sue siano esaudite. E tuttavia accoglie l’appello dell’amico disperato: certo, per sette giorni e per altrettante notti, veglia prostrato sotto la volta celeste, senza mai rompere il digiuno, continuando a pregare in continuazione per tutto il tempo. E non desiste, se non nel momento in cui i desideri di Liconzio vengono accolti, la guarigione entra nella casa, la salute torna a vivere235 , caccia via, mette in fuga l’epidemia. Ma quando Liconzio comprende che l’aiuto è costato sofferenza a Martino, corre da lui, gli dice la sua riconoscenza con tutta la devozione del cuore, vuole ricompensarlo con dei doni per la gioia che la sua casa sia stata strappata alla peste: un beneficio meritato dalla sua fede, a somiglianza del centurione che il Signore con la sua parola potente preferì a tutta Israele236 e che ottenne la guarigione della figlia prima ancora di essere entrato in casa. E allora offre a Martino dei grandi lingotti d’argento, in numero di tre volte trenta e poi ancora dieci237 , per ripagarlo del suo aiuto. Aggiunge, con il cuore di nuovo colmo di gioia, queste parole di supplica: «Come potrò, santo padre, pagare il mio debito per questo dono della vita? La luce del giorno non ha prezzo, non si può comprare o vendere, la vita anche di un’anima soltanto ha un valore troppo grande. Quando un solo flagello devastava tutta la mia casa e non mi restava il minimo aiuto che potesse ridare la salute a qualcuno, ecco la tua difesa, grazie alla quale in tanti ora vivono, tutta la mia famiglia, uomini e donne di ogni età. Mi perdo nell’ammirare questi cadaveri stabilmente richiamati alla vita quando vedo che questi, ai quali, durante la loro agonia, già stavo preparando le esequie, vengono a servirmi. E infatti appena la tua voce è volata in cielo dalle profondità dell’anima, grazie ai tuoi meriti la volta celeste è sembrata piegarsi per portare più vicino a te le parole di Cristo; appena la tue preghiere furono pronunciate davanti al Tonante e la tua pia voce risuonò nelle orecchie dell’Onnipossente, subito Dio divenne, nella sua bontà, indulgente e concesse l’aiuto di un rimedio guaritore. La peste crudele abbandonò i corpi, membro dopo membro: le persone che ormai erano preda della morte furono guarite. Ripresero vigore, assieme alla speranza, i piedi, le viscere, gli occhi, la voce. La malattia muore, sepolta nella carne vivente. E dunque, padre, accetta questo piccolo tributo come prezzo delle nostre vite, lasciami saldare il mio debito e perdona se l’interesse è piccolo». Martino non accetta quanto gli viene offerto, ma nemmeno lo respinge. Prima di oltrepassare la soglia del monastero, dà disposizione che il denaro sia devoluto al riscatto dei prigionieri238 . Così il santo trae da una sola sciagura una doppia occasione di diffondere i suoi doni. A questi dona la libertà, a quelli la guarigione -dei prigionieri furono liberati dal peso delle loro pene- e tutti, in concordanza di cuori, intonarono canti di gloria per dire il loro grazie.

 

Martino e il monaco impudico

 

vv 489- 519 Ecco ancora un’altra occasione di stupore, se le mie parole riescono a dare il giusto rilievo alla storia. Un giorno un frate, tutto infreddolito, passa davanti alla cella di Martino, mentre il fuoco arde nel braciere del santo, carico di carbone. Subito si siede nel tentativo di rubare, per così dire, un po’ di calore. Si denuda l’inguine, butta avanti i piedi, allunga le gambe. Subito, dall’interno della cella dove stava rinchiuso, il santo dice: «Chi è che là fuori profana la mia cella, così, col corpo svestito, le ginocchia scoperte e l’inguine nudo?» Come si spiega questo? Ditelo voi, ve ne prego, dotti sofisti. Davanti agli occhi di Martino la parete è diventata trasparente come lino o come la tela che tesse il ragno volando con il suo filo o come la rete i cui nodi formano maglie molto larghe. Come fa il muro ad essere tanto sottile da sembrare fessurato? Forse sono i mattoni ad essersi alzati, forse si sono aperti per lasciare spazio ad una finestra, o forse le dure pietre si sono sciolte come molle glutine. O forse è questa parete di pietra ad essersi ridotta ad una vetrata, o forse è essa stessa ad essere diventata di vetro tanto da lasciar filtrare lo sguardo di Martino? O forse il muro, fattosi leggero, si è alzato e si è incurvato a formare un arco, per rimanere sospeso un istante, senza andare in pezzi? Ma forse lo sguardo di Martino è così acuto da passare le pietre e tanto penetrante da attraversare tutti gli ostacoli. Oppure è stato un angelo, portato dalle sue ali, a volare fino a lui, nel chiuso della sua cella, oppure un messaggero ha aperto il muro opaco penetrando in un luogo impenetrabile. Oppure ancora: nel momento in cui la luce era tutta all’esterno, Martino aveva una sua luce all’interno? Oppure è possibile che mentre il suo corpo stava fermo in un luogo, il suo spirito vagasse velocemente? Spiegate voi, sapienti oratori, e, abili parlatori come siete, penetrate nel mistero. Che cosa possono i vostri numeri e i vostri atomi, i vostri ragionamenti e i vostri discorsi? Qui la vostra abilità vi sparisce da davanti agli occhi perché se non guardate Cristo non vedete nulla. Grande è la potenza di Dio, grande è il potere che dà a Martino. Grazie all’aiuto divino, questo uomo ammirevole compie ciò che gli altri nemmeno conoscono; grazie ai meriti della fede, egli ottiene ciò che sarebbe precluso alla sua natura di uomo.

 

La collera di Brizio

 

vv 520- 571 Mi resta, a gloria del santo, ancora un episodio da raccontare. Ormai la pagina è quasi piena della mia scrittura e si avvia alla fine. Un giorno il santo stava seduto sul suo duro sgabello di legno e di lì vide due demoni su una roccia a strapiombo. Erano avvolti in un nero mantello, e mandavano urla spaventose. Questi operatori di menzogna lanciavano frecce di fiele. Artefici di ingiustizia, pesanti macchine armate per recare dolore, dalla loro bocca avvelenata di serpenti facevano uscire queste parole: «Ehi, Brizio239 , fai vedere cosa possono gli accessi di collera!» Ripetono questo invito, fino a quando Brizio, spinto dal male, forza le porte e prende ad ingiuriare Martino. Il compagno di Satana240 con l’animo sconvolto vomita un insulto dietro l’altro vantandosi di avere più meriti del santo. Gesticola, così, in preda alla rabbia e, avvelenato dall’odio, dà una immagine falsa di sé241 . Esalta le azioni della sua vita, emettendone temerariamente, lui stesso, un giudizio; lancia intollerabili e infondate vanterie, sembra preda inerte del vento, simile all’ombra di una foglia, scuote la testa, si alza dritto. Il suo debole spirito è sconvolto, il suo animo agitato; scalcia e gonfia il petto; privo ormai di ogni senso della misura, insuperbisce e sembra un attore sulla scena242 . La sua ragione sconvolta vacilla, non si trattiene più e riversa ingiurie truculente sul vescovo. Ma perché mortificare così Martino e coprirlo di fango? Perché tanta crudeltà contro un uomo pacifico, perché tanta arroganza e tante minacce contro un uomo umile? Perché inoculare tanto amaro in un animo così dolce? Non è decoroso che un uomo pio debba udire simili cose, che un uomo buono le debba sopportare. E tuttavia Martino arde di pietà e non attacca il suo nemico, accoglie con animo sereno l’amico furioso, accoglie amichevolmente colui che è avvelenato dall’odio. Tranquillizza il rabbioso, lo blandisce con dolci parole: non riesce a non essere padre, un padre senza fiele anche nei riguardi di un nemico. Il santo alza le sue preghiere e subito i demoni fuggono. Brizio, fuori di sé fino ad instante prima, riacquista le sue facoltà mentali, corre verso il vescovo, lo prega e lo implora. Tutto il suo corpo chiede pietà243 . Dalla generosità di Martino, ecco sgorgare impetuosa l’indulgenza: il colpevole non ha bisogno di piangere o pregare a lungo, non deve moltiplicare le sue suppliche per ottenere perdono perché la cosa che più preme a Martino è assolvere il peccatore dalle sue colpe: egli valutava che fosse una perdita qualsiasi cosa non avesse concesso di sua spontanea volontà e un suo guadagno rimettere i debiti di chi gli vuole recare offesa. Corre incontro a chi gli chiede il dono della riconciliazione, desideroso di non essere in conflitto con alcuno, di perdonare tutti, sempre disponibile a legare solo con i patti della pace e a sciogliere dalle colpe. Si rifiutava di procurasi un danno attraverso la riparazione di un delitto perché, quando si opera nella carità, è già vendetta sufficiente la clemenza la quale miete le messi dell’amore e non ha bisogno di ergersi a punitrice: la clemenza si alimenta di ogni atto di bontà e la pace è la sua dote e la sua gloria. Dunque questo guerriero della santità, questo soldato dell’esercito della pietà, che ama i patti della riconciliazione e trionfa rivestito delle armi della pace, apre il suo cuore misericordioso alla parole del supplice, dolcemente conduce il peccatore tremante nel porto riparato del perdono e, forte della suo consueto affetto paterno, lo riaccoglie nella comunità.

 

L’ultimo panegirico

 

vv 572- 593 Queste erano, dolce padre, le tue offerte, i tuoi santuari, i tuoi altari. Queste erano le tue ricchezze, i tuoi tesori, i tuoi regni, i tuoi denari, i fiori, i profumi, il cibo, il sapore, il vino, il cinnamomo, il balsamo, l’incenso. Questo era, santo padre, tutta la tua preoccupazione, assoluta e totale: meditare sul Cristo con la pietà del tuo cuore e nei tuoi atti, rifiutare di restituire il male, avere pietà dei peccatori e perdonare loro. Indulgente verso il peccato, presidio del perdono, rifugio dei colpevoli, speranza dei miserabili, persecutore dei diavoli, difensore dei fedeli, riscatto dei prigionieri, strada per chi si è smarrito e cura per chi è malato, guaritore di tutti, di tutti innamorato, di tutti irripetibile amico: come potrò io lodare degnamente te che tutto il mondo esalta244 ? E quale lode sarà sufficiente per uno che tutta la terra sente di dover onorare? E anche volendo riferire ogni cosa di te, come potrei se nemmeno l’universo intero può spiegare245 ? Tu tieni Cristo abbracciato a te, sempre, tu lo hai nel cuore e sulle labbra, non puoi accettare che il Signore si allontani senza te e, anzi, il Tonante lo tieni sempre vicino, legato con le catene dell’amore. E il Dio dell’amore, legato dalle tue preghiere, non si scioglieva: la sua amicizia, la tua fede ti hanno conferito un primato che ti eguaglia ai raggi solari e al correre della luna. Tu avanzi luminoso e splendido, bello, se posso dire, come la stella del mattino, fulgido eroe che rifletti il fulgore di Dio, e irradi luce a tua volta, nel candore della tua veste, nel fulvo brillio del tuo magnifico diadema.

 

Fortunato Venanzio implora l’aiuto di Martino

 

vv 594- 620 Ricordati delle mie suppliche, padre ricco di grazie, esaudisci il tuo servo, il povero Fortunato, che trema per i suoi peccati. Attorno a lui latrano rabbiosi i suoi peccati mortali e lo straziano profondamente le crudeli ferite dei suoi errori. Ti prego, intercedi perché sia perdonato, tu che hai ottenuto la corona della vittoria246 . Salva dal pericolo la tua pecora, o buon pastore, impediscile di arrancare, che non resti fuori dall’ovile. Tendigli, padre eccelso, la tua mano, sorveglia i suoi passi, dirigi la sua anima, pesa le sue gravi mancanze sulla bilancia dell’indulgenza. O piuttosto prega, generoso e amoroso come sei, perché ottenga misericordia; con la tua dolcezza ottieni il ristoro di un balsamo di conciliazione. Sii mediatore tra Dio e il peccatore; in ginocchio e con le palme tese al cielo, prega silenziosamente mentre la tua anima attraversa lo spazio. Quando verrà il giudice dell’universo -tu stesso sarai chiamato a sedere alla sua destra-, arbitro delle nazioni, sgomento dei popoli davanti al suo tribunale, ottieni in nome dei tuoi meriti che io possa sfuggire alla fornace dalla fiamma crepitante. Ti prego: nascondi la mia fragilità sotto il velo della tua santità, scampami dal fuoco che tanto mi fa tremare rivestendomi col tuo mantello. Io so che Cristo, il quale ti associa al suo regno destinato ad esistere nei secoli, ti può concedere la grazia per qualsiasi peccatore. Ti prego: ricordati del tuo servitore in Cristo, santo padre, per quello stesso Dio di cui tu contemplerai la luce in eterno. Concedimi il perdono, dolce, amorevole, caritatevole, benigno patrono se, nel tentativo di raccontare nella mia poesia il tuo splendore, gli ho invece arrecato danno. Ma non c’è racconto che riesca a condensare tutta la tua gloria infinita che Dio ha ugualmente diffuso sulla terra e nel cielo.

 

Il congedo247 : vada il libretto di Fortunato fino a Ravenna dove Martino gli ha ridato la vista

 

vv 621- 712 Rallenta la tua corsa, mio libretto, e vergognati un po’ del tuo narrare sconclusionato. L’ordito manca di qualche punto e reca numerose grinze; i fili, male intrecciati, lasciano vedere sotto i nodi una stoffa ruvida, simile al tessuto grossolano fatto con gli ispidi peli di cammello, là dove, per Martino, si sarebbe dovuto tessere un mantello di seta oppure intrecciare pagliuzze d’oro ai fili di una folgorante pretesta o far correre delle perle legandole al tessuto di una toga color giacinto oppure intrecciare una cangiante corona con rose, gigli e gemme. Ma la lingua, spossata, ormai riposa e ti chiede licenza, mio libretto. Contentati di raggiungere le mura di Tours e di recare le tue suppliche nel luogo dove il vescovo Martino ha il suo venerabile sepolcro: una tomba famosa che da qui protegge quelle che furono le sue campagne. Che egli ti conceda soccorso amorevole perché quel generoso nei secoli sa che nulla mi appartiene, ma che si tratta dei suoi doni che tornano a lui. Se tuttavia avrai voglia di entrare, fatti coraggio. Di lì, tranquillo e spedito, raggiungerai la città dei Parisii248 , che ora è retta dal vescovo Germano e che, per il passato, era la diocesi di Dionigi249. Se poi procederai nel tuo cammino, onora la tomba di Remedio e abbraccia il santuario del beato fratello Medardo250 . Spero poi che tu possa attraversare i fiumi delle terre occupate dai barbari e che tu riesca a passare, in tutta sicurezza, il Reno e l’Istro251 : dirigiti allora su Augusta252 dove c’è la confluenza del Virdo e del Licca253 : lì tu venererai le sante reliquie di Afra martire254 . Se poi hai voglia di proseguire sulla tua strada e non trovi ostacolo nei Baiovari255 , attraversa le Alpi proprio nella regione vicino alla quale abitano i Breoni e poi immettiti nella valle in cui scorrono le impetuose acque dell’Eno256 . Da qui mettiti a cercare il tempio del benedetto Valentino257 e indirizzati poi verso il Norico dove le acque del Birro compiono un ampio giro258 . Poi la strada segue la Drava su cui incombono dei fortini259 ; là, tra le montagne, sopra una collina, troneggia Agunto260 . Imbocca rapidamente, da qui, la strada che conduce verso le Alpi Giulie le cui cime sono tanto alte da perdersi tra le nubi. Poi esci attraverso Forum Iulii (così lo chiamano, dal nome di Cesare)261 e quindi, costeggia la rupe su cui sorgi, o Osoppo263 . Di là vai a Ragogna che, bagnata dalle acque del Tagliamento, ne sorveglia la vallata.264 Di là prosegui attraverso le distese di campi verso le terre del Veneto265 , seguendo ancora ai piedi delle montagne la linea dei castelli fortificati. Se ti capiterà di avvicinarti alla città di Aquileia, venera con tutto il tuo cuore i Canziani, amici del Signore266 e l’urna benedetta del martire Fortunato267 ; venera con fervore il vescovo Paolo268 il quale sin dai miei primi anni voleva che mi dessi alla vita religiosa. Se tu segui la strada che passa attorno a Concordia269 , sappi che lì si trovano due santi famosi, Agostino e Basilio. Se poi riesci ad entrare tranquillo nelle terre dove sorge la mia Treviso270 , vai in cerca, ti prego, del mio famoso amico Felice271 , a cui Martino un giorno ridonò la vista nella stessa occasione in cui la ridonò a me. Avanza attraverso Ceneda272 e vai a visitare i miei amici di Duplavilis273 : è la terra dove sono nato, la terra del mio sangue e dei miei genitori. Qui c’è l’origine della mia stirpe, ci sono mio fratello e mia sorella, tutti i miei nipoti274 che nel mio cuore io amo di un amore fedele. Valli a salutare, ancora ti chiedo, anche se di fretta. Se non ci sono ostacoli sulla via per Padova, recati in quella città. Là, te ne prego, deponi un bacio sulla tomba della santa Giustina275 . Vedrai rappresentati su una parete i prodigi operati da Martino e, sempre là, fai il tuo dovere presentando i saluti all’eminente vescovo Giovanni276 e ai suoi figli che furono un tempo miei compagni di poesia. Quindi incamminati lungo il corso del Brenta, poi lungo quello del Reteno277 ; una volta attraversato l’Adige, sali su un battello del Po: la sua corrente veloce spingerà la tua agile barca. Di là dirigiti del tutto tranquillo verso la placida Ravenna e, quindi, visitando piamente i luoghi consacrati ai suoi santi, venera la tomba del grande martire Vitale278 e quella del buon Ursicino che condivide con lui la condizione di beato. Poi bacia la soglia della magnifica basilica dedicata ad Apollinare, inginocchiati supplice e quindi visita ogni chiesa. Cerca l’altare di Martino, il piccolo santuario nel quale il Creatore mi ha reso la vista, contro ogni speranza. A chi mi ha fatto un simile dono, offri in cambio, almeno queste parole, ti prego. È nella basilica innalzata a Paolo e Giovanni279 , che una parete presenta una raffigurazione del santo. Il colore è così delicato che viene voglia di abbracciare il santo280 . Ai piedi del giusto, è stata ricavata nel muro una artistica nicchia: vi arde una lampada la cui fiamma fluttua dentro un’ampolla di vetro. Ad essa mi sono avvicinato di corsa, perché mi tormentava un vivo dolore; gemevo perché la luce stava fuggendo dalla finestra dei miei occhi. Appena li toccai con l’olio consacrato, quel vapore di fuoco abbandonò la mia fronte malata: il guaritore è lì, col suo dolce balsamo fa sparire il male. Quel prodigio operato in me, i miei occhi non lo hanno mai scordato. Infatti davanti ai miei occhi, torna nitida la visione della loro guarigione e finché avrò corpo e vista non dimenticherò. Poi te ne prego, cerca quanto più diligentemente puoi i miei compagni281 e, se parlerai con i miei amici, il tuo amore ti accorderà la loro grazia. Io fornisco questo materiale grazie dal quale possano, con il loro stile elegante, comporre e far fiorire un poema che canti le gesta di Martino: col loro splendido genio poetico creeranno un’opera degna di essere diffusa in tutto l’Oriente. Martino, l’eroe che i suoi meriti rendono radioso, certo non ha bisogno di questi versi perché la fama trionfante del suo potere occupa i cammini del mondo, si estende sulle pianure, varca i mari, brilla perfino oltre le stelle. Egli distribuisce alle genti l’elemosina delle sue prodigiose cure ma tutti i suoi doni egli li riceve dal suo Signore di cui è al servizio. Ovunque si estende il nome di Cristo, si estende anche la gloria di Martino.

admin