0
Radegonda e Venanzio, una storia del VI secolo
Ateneo di Treviso, Palazzo dell’Umanesimo Latino, 21 aprile 2006
 

Numquid non poterat humilis superare superbum,
aut non deiceret tam mente benignus iniquum,
pacificis armis doctus domitare rebelles?

(Venanzio Fortunato, Vita sancti Martini II, 355-357)

Ateneo di Treviso, Palazzo dell’Umanesimo Latino, 21 aprile 2006

Verso la fine del 565 Venanzio Fortunato lascia Ravenna. Non vi tornerà mai più. Né mai tornerà in Italia: come è noto, tale allontanamento rappresenta il nodo dei problemi connessi alla biografia di Venanzio, il problema dei problemi. Di tale argomento voglio occuparmi in questa sede solo in funzione di un altro problema. Vorrei infatti piuttosto, sulla scia della mia traduzione dell’opera più complessa e significativa del poeta valdobbiadenese, la Vita sancti Martini, esaminare le motivazioni profonde che portarono alla composizione del poema. Motivazioni, a mio giudizio, mai sufficientemente esplorate dagli studi fioriti attorno a Venanzio.

Dieci anni dopo quel 565 egli compone il poema: 4 libri in esametri (per la precisione 2243 esametri più i 42 versi della lettera a Radegonda ed Agnese che rappresenta una ulteriore dedica). Lo indirizza a Gregorio di Tours, l’autore della Historia Francorum. È l’estate del 575 e Venanzio scrive assillato dai lavori della mietitura e nelle pause che tale oneroso lavoro comporta. Se piove, ci si può dedicare alla scrittura. Nella sua lettera al vescovo di Tours, Venanzio dice: “Dolce padre, perdonate tutte queste macchie: colpa della pioggia che mi è caduta addosso mentre ero intento alla mietitura. Prega per me, santo signore e mio dolce padre”[1]. Qualcuno sostiene che la lacunosa tradizione manoscritta di questa lettera potrebbe essere collegata proprio alle macchie generate dalla pioggia sul foglio redatto da Venanzio, che evidentemente scrive all’aperto, nei campi.

565-575: il decennio centrale della sua esistenza.

È un miracolo operato dal santo che lo induce a scrivere la Vita di san Martino.

“È dunque una ragione importantissima a indurmi a tessere il panegirico del vescovo che è stato all’origine della mia venuta in questo paese”, proclama Venanzio Fortunato nei versi proemiali della sua opera[2].

E nel finale, quando ha esaurito il materiale a sua disposizione e deve chiudere il cerchio, scioglie l’enigma davanti al suo lettore. Lo fa nel contesto del congedo alla sua opera, mentre le raccomanda l’itinerario da seguire.

Sì, lui Venanzio, ha ricevuto da Martino un miracolo immenso, la luce degli occhi. Era ormai praticamente cieco e un giorno a Ravenna, nella basilica di Giovanni e Paolo, si era unto gli occhi con l’olio della lampada accesa nella nicchia dedicata al santo. Era in compagnia di Felice, il vescovo di Treviso, affetto dalla stessa malattia, che fermerà Alboino e Longobardi sul Piave.

Racconta così. “È nella basilica innalzata a Paolo e Giovanni, che una parete presenta una raffigurazione del santo. Il colore è così delicato che viene voglia di abbracciare il santo. Ai piedi del giusto, è stata ricavata nel muro una artistica nicchia: vi arde una lampada la cui fiamma fluttua dentro un’ampolla di vetro. Ad essa mi sono avvicinato di corsa, perché mi tormentava un vivo dolore; gemevo perché la luce stava fuggendo dalla finestra dei miei occhi. Appena li toccai con l’olio consacrato, quel vapore di fuoco abbandonò la mia fronte malata: il guaritore è lì, col suo dolce balsamo fa sparire il male. Quel prodigio operato in me, i miei occhi non lo hanno mai scordato. Infatti davanti ai miei occhi, torna nitida la visione della loro guarigione e finché avrò corpo e vista non dimenticherò”.[3]

Se posso aggiungere una curiosità. La tuttora esistente chiesa dei santi Giovanni e Paolo in Ravenna (tra via Cura e via Massimo d’Azeglio) è stata profondamente ristrutturata nel Seicento e solo il campanile rivela elementi più antichi (forse IX secolo). Nella sua lunga storia ha avuto anche una inversione tra ingresso principale e altare maggiore. Ovviamente della nicchia di cui parla Venanzio non è più traccia. Il culto di Martino è però attestato da una grande pala settecentesca (?) che si trova su un altare laterale (a destra rispetto all’attuale altar maggiore). Martino vi è ritratto in abiti vescovili accanto a san Rocco. C’è un particolare intrigante: la persona che ha in cura la chiesa (l’edificio apre solo su richiesta) racconta della leggenda di un tale che lì, nella notte dei tempi, sarebbe stato guarito da una malattia agli occhi. Nella leggenda il personaggio è nominato come il Veneziano. Quando me la sono sentita raccontare non ho potuto fare a meno di pensare che il Veneziano sia il nostro Venanzio.

Dunque la Vita rappresenta lo scioglimento di un voto, a dieci anni di distanza.

È davvero così? Oppure, meglio: è solo questo?

Venanzio si porta dietro la sua storia personale. Incrocerà l’avventura esistenziale di Radegonda, regina e monaca. Studiando questo incrocio cerco di dimostrare che la redazione della Vita di san Martino rappresenta qualcosa di ulteriore e diverso.

In questi dieci anni Venanzio gira inquieto per le Gallie. Tra il 566 e il 567 è a Parigi e poi a Tours. I dignitari merovingi lo accolgono con calore e affetto. Poi è in Spagna, a Braga, infine a Poitiers dove domina la personalità di Radegonda, che nel 538 era andata sposa a Clotario e poi si era data alla vita claustrale, consacrata da Medardo, vescovo di Noyon .

Nel monastero di Poitiers, dedicato alla Santa Croce, Venanzio ricopre diversi ruoli, di importanza via via crescente. Il suo prestigio aumenta, la sua fama di uomo di cultura e di letterato brillante gli apre ogni porta. Gregorio di Tours lo esorta a pubblicare i suoi Carmina. A metà degli anni Settanta Venanzio riceve gli ordini sacerdotali.

È famoso e ricercato. La sua scrittura conferisce prestigio e visibilità a occasioni e personaggi. Quando Radegonda ottiene dall’Oriente una reliquia della Croce, egli compone due tra gli inni più famosi della Chiesa, il Pange, lingua e il Vexilla regis prodeunt.

E compone agiografie su commissione, compone epitaffi ed è lui a celebrare l’intronizzazione di Gregorio.

Un passo indietro per gettare uno sguardo sulle motivazioni autentiche, ben oltre la volontà di sciogliere un voto, che spinsero Fortunato a lasciare l’Italia e a mai più tornarvi.

È il nodo dei nodi, come si diceva, della biografia venanziana: Fortunato racconta quasi tutto di sé nei Carmina, ma lascia senza risposte tutte le domande fondamentali: quando è nato, dove ha studiato, quando ha deciso di farsi prete e, appunto, perché ha deciso di spezzare così nettamente la sua vita in due.

Per quali motivi Fortunato intraprese quel viaggio? Se c’è una cosa che si può affermare con tutta tranquillità è che Fortunato non offre certo di sé l’immagine di un pellegrino che debba adempiere ad un voto. Rimane a lungo presso Sigeberto, il terzo figlio di Clotario e re d’Austrasia dal 561. Anche a Parigi non dimostra certo grande fretta. Del tutto fuggevole fu poi il suo passaggio a Tours, il luogo martiniano per eccellenza. Ciò suggerisce che la visita alla tomba di Martino sia stata un pretesto. Se Tours era la sua meta, perché recarsi fino a Poitiers e oltre?

Certamente le vere ragioni dell’espatrio di Fortunato sono da cercare altrove. La tesi a lungo prevalente ipotizza che Fortunato fosse diventato inviso al governo bizantino e fosse dunque indotto a cercare la protezione di Sigeberto. Fortunato avrebbe preso posizione a favore dello scisma dei tre Capitoli e dunque sarebbe stato dalla parte della situazione scismatica di Aquileia. Non abbiamo notizia di una militanza in tal senso. E, se quella di Fortunato era una fuga dal governo imperiale, la corte di Sigeberto non rappresentava certo un rifugio sicuro perché la corte d’Austrasia non era in quell’epoca in cattivi rapporti con Costantinopoli. Tra l’altro è questo il periodo durante il quale Radegonda, che viveva sotto la giurisdizione di Sigeberto, otteneva dall’imperatore una reliquia della croce.

E inoltre Fortunato non è arrivato in Austrasia come un “trovatore errante”. Il fatto che gli sia stata inviata incontro una scorta di eminenti funzionari della corte di Austrasia prova che aveva ricevuto un invito ufficiale alla corte. Non si spendono tante formalità per accogliere quello che oggi definiremmo un rifugiato politico. Dunque non un romantico precursore della figura del poeta maledetto, non un ricercato dalla polizia imperiale.

Il contrario semmai, come ha ben studiato Jaroslav Šašel. Fortunato era un agente dell’imperatore presso le corti franche e in particolare alla corte di Metz. Non dobbiamo pensare certo ad un agente segreto che agisce sotto copertura e che si avvale del suo ruolo di poeta mondano per nascondere oscuri e sottili maneggi. Più semplicemente l’imperatore, preoccupato dalla minaccia longobarda, cercava alleanze nelle Gallie. Il re di Metz che possedeva anche la Provenza poteva tornargli molto utile. Fortunato, senza dubbio già noto per il suo talento di poeta, era un uomo prezioso per convincere il re e i suoi grandi riuniti nel giorno delle nozze. Fortunato arriva infatti a Metz, capitale dell’Austrasia, proprio nei giorni in cui Sigeberto sposa Brunechilde, figlia di Atanagildo re dei Visigoti, con tutta evidenza matrimonio di enorme importanza politica. Alle nozze Fortunato declama un memorabile epitalamio: non certo improvvisato al momento, ma preparato da lungo tempo e suo biglietto da visita. Un blasone anzi. Il poeta ebbe dunque l’incarico di portare avanti quella che uno studioso francese definisce una guerra del fascino. Voleva, lui, l’italiano colto, risvegliare in Gallia il sentimento di una comunità spirituale: la Romania contro i barbari della seconda ondata. I valori delle arti e della cultura potevano essere le armi buone.

Se si ferma a Parigi non è tanto per Cariberto, il figlio più vecchio di Clotario I, re di un regno che andava da Amiens ai Pirenei e che aveva proprio Parigi per capitale. Anche se per lui scrive un panegirico (ma di corsa e perché in qualche modo obbligato), gli preme soprattutto far visita al vescovo Germano, il grande amico di Radegonda. Non è dubbio che sia lui a indirizzare a Poitiers Fortunato. E la vedova di Clotario non era certo un pezzo da trascurare sullo scacchiere politico.

Radegonda cercava inoltre protezioni per il suo monastero. Fu forse lei a mandare Fortunato da Martino di Braga, molto autorevole nel mondo cristiano occidentale, uomo di sintesi fra due culture diverse. Martino di Braga era in effetti nato nell’Europa dell’Est, in Pannonia, come il suo omonimo vescovo di Tours. Jaroslav Šašel ha ragione di vedere in lui uno strumento di riconquista dell’Occidente da parte di Giustiniano. I due uomini avevano bisogno di confrontare e scambiare tra loro le rispettive esperienze.

Dunque alla fine del 567 o agli inizi del 568, Fortunato si stabilì a Poitiers dove coprì l’incarico di segretario ed economo nella comunità fondata da Radegonda. Il lavoro non gli mancava di sicuro. Il monastero di Poitiers era una casa molto grande e l’amministrazione delle terre da cui il monastero traeva di che vivere doveva essere particolarmente impegnativa. Bisognava inoltre sorvegliare gli interessi spirituali di un ordine fondato da poco, facendo attenzione a raccogliere tutte le protezioni possibili.

La posizione di Radegonda, infatti, era molto delicata: il vescovo Maroveo cercava in ogni occasione di manifestare ostilità al monastero che era come un’isola autonoma nel suo territorio. Fortunato, una volta divenuto prete (attorno al 574/576), ebbe a sua volta a patire l’animosità del prelato.

È dunque un letterato famoso (e già ben esercitato nell’agiografia, anche se solo in prosa: la Vita di san Martino rimarrà l’unica da lui composta in versi) quando si decide a sciogliere il voto formulato davanti alla nicchia dedicata a san Martino nella basilica ravennate di Giovanni e Paolo.

Indirizza la Vita proprio a Radegonda e ad Agnese che è la monaca cui essa cede la direzione del monastero, volendo rimanere nell’ombra.

Abbiamo molte notizie su queste due figure femminili dalla Vita Radegundis dello stesso Venanzio Fortunato (oltre che dal De vita sanctae Radegundis composta da una monaca del monastero di Santa Croce di Poitiers, Baudonivia nei primi anni del VII secolo; da notare che lo stesso Gregorio di Tours ci fornisce alcune notizie, soprattutto riguardo ai funerali, nel Liber in gloria confessorum). Radegonda ed Agnese sono poi le destinatarie di molti scritti e componimenti poetici di Venanzio Fortunato.

Radegonda nasce attorno al 518, figlia di Bertario, ultimo re di Turingia. È donna di notevole e raffinata cultura, di grandi devozione, religiosità e pietà. Quando il regno patrio cade sotto gli assalti dei Franchi nel 531, viene fatta prigioniera. Riceve una buona educazione e sposa, pochi anni dopo (538, a Vitry in Artois), proprio Clotario, re dei Franchi. Nel contesto di durissime lotte dinastiche, Clotario uccide il fratello di Radegonda, fatto prigioniero assieme a lei. Le ragioni della soppressione non sono note (si trattava forse di segrete intese con Costantinopoli). Radegonda decide allora, dopo essersi consultata con Medardo (il santo vescovo di Noyon), di entrare in convento. Consacrata proprio da Medardo, fonda, tra il 552 e il 557, un monastero a Tours e poi un altro a Poitiers, aiutata e sostenuta dallo stesso Clotario, che peraltro non aveva mai smesso di amarla appassionatamente e cercò anzi di distoglierla in ogni modo (compreso il rapimento) dal proposito di professare i voti. Radegonda vi vive dal 560 fino alla morte (587) come semplice monaca. A capo del monastero essa aveva fatto eleggere, come si è detto, Agnese, figlia della più alta aristocrazia di Poitiers e consacrata da Germano, il vescovo di Parigi. Nell’ombra di una voluta posizione da comprimaria, Radegonda svolge un ruolo che è religioso ma in gran misura anche politico. Quando Clotario muore (561) la sua autorità cresce ulteriormente nel rispetto, anche, dei suoi figliastri Cariberto, Chilperico, Gontrando, Sigeberto. È il vero e proprio ago della bilancia politica del regno. È lei che ottiene da Giustino II, imperatore d’Oriente, un frammento della Santa Croce (e Santa Croce sarà da allora il nome del monastero). Forti sono infatti i legami con l’Oriente dove si trova una parte della sua famiglia: il cugino Amalafrido serviva nell’armata imperiale. Per far entrare in Poitiers la preziosa (e prestigiosa!) reliquia, Radegonda deve vincere l’ostilità e la gelosia del vescovo Maroveo. Venanzio le era certamente vicino, prodigo di consigli. E per l’ingresso del frammento, compone il Vexilla regis prodeunt, ancor oggi inno vivissimo nella liturgia cristiana. Sono proprio Radegonda e Agnese a insistere perché Venanzio ponga fine al suo vagabondaggio e si stabilisca a Poitiers. Quando esse muoiono (rispettivamente 587 e 589), Venanzio è ancora semplicemente l’amministratore dei beni del monastero di Santa Croce.

Soprattutto impersona sempre il fine letterato che vuole dimostrare di possedere ancora, in tempi già bui, una straordinaria padronanza della lingua che era stata di Virgilio e di Cicerone. Di questa sua raffinata, e per certi aspetti esclusiva, conoscenza si fece una bandiera. La trasformò in strumento di graziosa cortesia nei riguardi dei suoi benefattori e di carta di credito in un ambiente in cui voleva fare carriera.

E tuttavia si rischia di non comprendere a fondo le motivazioni che indussero Venanzio a sciogliere il suo voto in modo così ampio e coinvolgente, se non si tiene conto della centralità della figura di Radegonda nell’esperienza esistenziale dello scrittore.

Una lettura in filigrana della personalità di Martino (e naturalmente delle modalità scritturali con cui Venanzio ha deciso di proporla) porta a vedere proprio la regina/monaca (e personalità dominante nel suo monastero e nella politica merovingia) dietro il guerriero/monaco/vescovo.

Le avventure personali di Martino e Radegonda nascono entrambe da una condizione di esilio spirituale.

Martino era stato in qualche modo destinato dal padre alla carriera militare fin dalla più tenera infanzia, con l’imposizione di quel nome guerriero (Martino, piccolo Marte cioè). E quando, dopo il trasferimento a Pavia, l’interesse del fanciullo per il cristianesimo fu reso evidente dalla frequentazione del catecumenato, il padre non fu contento della scelta del figlio. E ostacolò il ragazzo in ogni modo. Infatti, sfruttando una piega del regolamento che consentiva di anticipare a 15 anni l’arruolamento obbligatorio (usualmente previsto per i 17 anni), il padre gli fa compiere il giuramento militare praticamente nello stesso giorno in cui Martino depone la toga pretesta, emblema dell’adolescenza.

Venanzio opera una scelta non casuale per gli esordi narrativi della sua opera: la spoliazione del mantello (è questo il periodo in cui Martino riceve il battesimo), il drammatico congedo dal servizio militare. Il primo legato al soldato giovanissimo, quasi imberbe, il secondo legato al soldato maturo, probabilmente ormai saturo e nauseato dall’esperienza in armi.

Non vi è dubbio che il quindicennio trascorso nelle file degli eserciti imperiali fosse sentito da Martino come un esilio morale, come un esproprio violento rispetto alla sua vocazione autentica.

(Del resto le stesse modalità con cui Martino viene eletto vescovo di Tours -rapito con uno stratagemma e costretto ad accettare la candidatura episcopale[4]- dipingono una situazione di ulteriore esulanza psicologica rispetto alla vita ritirata della laura che rappresentava certo l’ideale esistenziale del santo).

Anche Radegonda era stata vittima di violenza fisica connessa a violenza morale. Ostaggio alla corte di chi aveva sconfitto la sua stirpe, riceve sì una buona educazione (nel parallelo: chi potrebbe dubitare che l’educazione ricevuta da Martino sotto le armi sia stata a suo modo una “buona educazione”?), ma è costretta a diventare la terza (forse la quarta, non è ben chiara la situazione matrimoniale di Clotario) moglie del re merovingio. Tenta la fuga, ma è ripresa e costretta alle nozze. E la sua vita diventa autenticamente esilio.

Si sentiva chiamata all’amore mistico, più che all’amore fisico. “Più parte di Cristo, che congiunta in matrimonio carnale” sottolinea Venanzio nella Vita sanctae Radegundis reginae. Sposa di un re di questa terra, ma mai separata dallo sposo celeste [5]. E, nello stesso contesto, Venanzio ci racconta la feroce determinazione con cui Radegonda sfuggiva al talamo nuziale. Quando Clotario le si avvicinava, lei si levava dal letto con un pretesto, usciva dalla camera, stringeva vieppiù il cilicio sulle carni, si immergeva nella preghiera, si faceva penetrare dal gelo.

Nulla le sembrava insopportabile tantum ne Christo vilesceret: quando ritornava sotto le coltri era così intirizzita che né il calore del letto né il fuoco del camino riuscivano a rianimarla.[6]

E, al pari di Martino, anche Radegonda si spoglia dei suoi abiti.

Era, per lei, una sorta di prassi, di abitudine mentale. Ogni volta che le fanciulle del seguito lodavano qualche suo splendido vestito, magari auro vel gemmis ornatum, lei se ne spogliava e, cercato il luogo sacro a lei più vicino, buttava il suo abito regale sull’altare.[7]

Si spoglia il giorno in cui, trovandosi vicino alla cella del santo Giumerio, fa un fagotto di tutta la ricchezza che ha indosso e lo mette nelle mani del sant’uomo. Identica cosa fa recandosi, in un’altra occasione, presso il beato Datdone. E naturalmente si spoglia il giorno in cui, ucciso suo fratello dal marito Clotario, essa decide definitivamente di darsi alla vita monastica.[8]

Certamente questo spogliarsi si configura come ripulsa, come rifiuto del potere e del privilegio che le venivano conferiti dal suo rango di donna andata sposa al re (che era anche l’uomo che aveva distrutto la sua famiglia). Ma è soprattutto il segno di una generosità assoluta, quasi una predisposizione sentimentale e mentale.

In questo sesto secolo, la nazione franca (Clodoveo muore nel 511) comincia la sua irresistibile ascesa, sorretta e sospinta dalla conversione al cristianesimo romano, là dove le altre stirpi germaniche avevano compiuto la scelta ariana. È il cristianesimo romano a favorire la fusione tra aristocrazia gallo-romana e aristocrazia germanica.

E tuttavia la scelta in campo religioso non era stata indolore.

La nazione franca ha conosciuto lunghe crisi di identità, dettate anche dalle incessanti lotte dinastiche combattute senza esclusione di colpi. E la produzione agiografica gioca in questo ambito un ruolo preciso. Il contesto storico-geografico in cui svolge la sua missione Martino, prefigura con nettezza di contorni la geografia fisica e morale entro la quale prenderà corpo la missione cui i Franchi sono chiamati. Parlare di Martino, e parlarne come fa Venanzio, significa andare in direzione opposta rispetto alla crisi di identità, medicare la malattia disgregatrice che da essa si origina.

Qui il cerchio si chiude, perché in questa missione (una sorta di missione divina, la continuazione dell’impero di Roma) le donne giocano un ruolo importante. Chi meglio di Radegonda offriva un modello da esplorare?

Lei, regina, figlia di re, sposa di re, matrigna di re, fondatrice di una comunità monastica che era baricentro di infiniti interessi culturali, politici e dinastici. Lei che aveva avuto il coraggio di puntare su Poitiers, una delle zone politicamente più nevralgiche, perennemente al centro di lotte per il suo possesso. Lei, così autorevole da far trasmigrare, da Oriente a Occidente, reliquie della croce su cui era morto il Cristo[9]. Lei così umanamente disponibile, così intensamente passionale nel suo slancio di carità, lei così esclusiva e radicale nelle scelte verso gli ultimi e i diseredati. Lei così attenta all’insegnamento martiniano.

Annota Venanzio che mai presso di lei un povero faceva risuonare invano la sua voce (apud quam nec egeni vox inaniter sonuit). Credeva che sotto le vesti del mendicante si celassero le membra del Cristo. Ascriveva a sua perdita ciò che non le riusciva di dare ai poveri.[10]

E quando si reca a Tours, visita i luoghi martiniani (sancti Martini atria, templa, basilicam), non sa trattenere le lacrime (flens) ed anzi il pianto non riesce a saziarla (lacrimis insatiata): si toglie ogni veste preziosa, ogni gioiello e depone tutto sull’altare del santo.[11]

Dunque, nel racconto di Venanzio, Martino prefigurazione di Radegonda? E, inversamente, Radegonda che sceglie Martino come modello?

Se si può sommessamente chiedere: Radegonda, una sorta di vescovo al femminile? Martino e Radegonda immagine sostanzialmente unitaria di un episcopato che “esce dalle mura”, si confronta in continuazione col potere civile, esige in qualche modo di indirizzarlo? Immagine unitaria di due personalità che consapevolmente svolgono un ruolo politico?

Verrebbe da rispondere sì, per esempio pensando al momento in cui Radegonda si rivolge a Medardo per essere consacrata: il vescovo esita sulla base delle disposizioni di diritto canonico (una donna sposata e non vedova poteva essere al massimo consacrata diaconessa) e anche intimorito dalla presenza incombente di Clotario. Ma Radegonda lo soggioga con la forza della sua personalità, di fatto si autoconsacra, come è stato felicemente detto.

E naturalmente va ricordato come, alla morte di Clotario (561), la sua personalità sia sentita come autorevole e dominante dai figliastri Cariberto, Chilperico, Gontrando, Sigeberto.

Ma come delineare il parallelo Martino-Radegonda? E quali suggestioni offre tale parallelo? Possiamo partire dall’episodio del mantello.

È certo che il giovane soldato che divide in due il mantello alla porta di Amiens non distribuisce il superfluo, piuttosto spartisce e comunica un privilegio.

“Un po’ di freddo in più per lui, un po’ di calore per il povero. Un unico, povero mantello è sufficiente per due: freddo e calore vengono ripartiti tra due poveri, freddo e calore diventano inconsueta merce di baratto. Ma, avvolto in quell’indumento, si rivelò il Creatore in persona: il mantello di Martino aveva rivestito il Cristo. Mai, alcuna veste imperiale aveva meritato tanto onore, il mantello bianco di un soldato vale più di una porpora di re”[12], annota Venanzio: come sottrarsi alla suggestione che stesse scrivendo di Martino e pensasse a Radegonda? Troppo puntuali i riferimenti alla veste che ricopre il corpo del Cristo, alla porpora regale (purpura regis).

La suggestione si precisa nell’episodio del tutto analogo che accade a Martino quando questi è già vescovo.

Un malato bussa alla porta del vescovo e chiede di essere rivestito, ha freddo, batte i denti. Martino ordina ad un suo diacono di provvedere, ma questi non lo ascolta. Allora si avvicina all’uomo, si toglie la tunica e gliela mette addosso. Poi chiama di nuovo il diacono e gli ripete che c’è un uomo nudo. Ma la nudità è, ora, la sua, a malapena celata dalla cappa episcopale. Stizzito, il diacono butta sulla strada una tunica di lana grossolana, fastidiosa ad essere indossata. Con grande umiltà e in silenzio, Martino se ne riveste e si avvia a celebrare messa.[13]

Se rileggiamo il testo latino, troviamo quasi le stesse parole spese per Radegonda, esattamente gli stessi giri concettuali:

…dum clamat egenus.
Tegmine pro nudi cupiens procedere nudus
nec partiris opem sed totum cedis egenti
haec tua sola putans, petitus si nulla negasses,
ut magis esses inops, inopi dum cuncta dedisses.[14]

E quando incontra un lebbroso, Radegonda lo bacia.

Esattamente come faceva Martino, che col suo bacio sapeva guarire. Venanzio ricorda una guarigione avvenuta a Parigi: “… trovandosi di fronte un lebbroso che procedeva verso di lui. Quell’uomo era così malato che era divenuto straniero a se stesso: tutto chiazzato di macchie, completamente glabro, coperto di ulcere e di piaghe purulente; il suo passo era malfermo e la sua vista debole, il vestito a brandelli e l’espressione inebetita; pieno di pustole era il viso, mutilati i piedi e spezzata la voce. Il pallore aveva avviluppato quel disgraziato in un involucro innaturale. Tutto d’un tratto il santo lo attira a sé per dargli un bacio: abbraccia l’uomo instillandogli un medicamento che lo libera dal male. Infatti non appena il lebbroso fu a contatto con la saliva benedetta delle sue labbra, il fardello della malattia fuggì a quel contatto che stillava balsamo medicinale. La fisionomia ormai scomparsa riemerge, nuova pelle ricopre il suo volto, sulla sua fronte deformata torna alla vista il suo aspetto naturale; i tratti del volto, a lungo cancellati, tornano a delinearsi”.[15]

Identico è l’atteggiamento di Radegonda. Anche lei agisce per restituire dignità e, se si può dire, “guardabilità” al lebbroso: porta acqua calda (ferens aquam calidam) e lava con cura ogni parte del corpo malato (facies lavabat, manus, ungues et ulcera et rursus administrabat, ipsa pascens per singula). E naturalmente lo bacia, anche lei lo ama con tutto il cuore (osculabatur et vultum, toto diligens animo).[16] Nella vicenda di Radegonda, Venanzio aggiunge una annotazione che ritaglia in modo crudo la figura della regina. Dopo il bacio al lebbroso, essa, in qualche modo, si isola dal consorzio umano. Ha fatto, si direbbe, la sua scelta di campo.

Venanzio si rivolge direttamente a lei ed esclama: “O signora santissima, chi bacerà ora te che così abbracci i lebbrosi?”[17]. Un capitolo si chiude, un altro se ne apre: la fuga dal talamo e dall’abbraccio con il suo sposo terreno è compiuta. Dopo il bacio al lebbroso non potrà più esserci altro bacio.

L’immagine è quella della regina che si fa ancilla: delinea, Venanzio, una immagine molto vicina a quella di Radegonda quando descrive l’omaggio che rende a Martino, durante un banchetto, la moglie dell’Augusto Massimo. È la figura evangelica di Maddalena, ma anche di Marta e Maria di Betania.

“…E intanto la regina bagna in continuazione i piedi del santo con le sue lacrime, distesa a terra e tutta tesa ad esaudire gioiosamente i suoi desideri. E gioiosamente gli chiede di poter lei stessa preparargli il cibo: la sua affabilità ottiene quello che l’autorità di Massimo non era riuscita ad ottenere. L’imperatrice gli porta personalmente la sedia, gli imbandisce la tavola, gli versa l’acqua sulle mani: lei, da regina divenuta umile serva, gli reca lietamente i cibi che ha cucinato con le sue stesse mani. Per tutto il tempo in cui il santo siede a tavola, lei rimane in piedi, immobile. Porta quindi via i piatti e gli porge personalmente la coppa: serva capace, da sola, di soddisfare ogni desiderio di un solo uomo”[18].

Di Radegonda, Venanzio, dice le stesse cose: lei, regina e signora del palazzo, era se stessa quando, fatta serva, serviva i poveri: devita femina nata, et nupta regina, palatii domina pauperibus serviebat ancilla.[19]

Che Radegonda sia Marta, del resto, Venanzio lo afferma esplicitamente: a chi è impedito, essa porge il cibo con il cucchiaio. E vuole essere lei di persona, nova Martha, a compiere l’atto di carità.[20]

Insomma Martino e Radegonda. Associati anche nei segni fisici: la cenere e il cilicio, ad esempio. Martino deve distruggere un tempio pagano e trova l’opposizione della gente del posto. Entra in penitenza per ottenere l’intervento di Dio: digiuna, si copre il capo di cenere, si veste di cilicio.[21]

Radegonda desidera soffrire anche durante il riposo: cenere e cilicio.[22] E i miracoli.

I miracoli di Radegonda sembrano esemplati su quelli di Martino.

La regina guarisce una cieca di nome Bella[23], Martino guarisce Paolino il cui occhio è offuscato[24]. Radegonda opera in continuità nell’esorcismo e nella cacciata dei demoni[25], esattamente come Martino. E talora le descrizioni coincidono alla lettera, con modalità del tutto analoghe.

Una volta Martino ebbe a che fare con un diavolo molto recalcitrante il quale si era impossessato di un cuoco: “E, dentro al corpo del posseduto, la bestia demoniaca era lacerata da terribili sofferenze perché le dita le impedivano di uscire dalla bocca. Allora, lasciando dietro di sé ripugnanti tracce del suo ripugnante ministero, la bestia immonda, in una scarica di ventre, fuggì dall’orifizio da cui escono gli escrementi (qua sordibus est via fluxu)”.[26] Esattamente come agisce Radegonda che costringe il diavolo che ha invaso e posseduto una donna a scegliere la via più sconcia per uscire: fluxu ventris egressus est[27].

Praticamente identico il miracolo del nocchiero -Martino e Radegonda sono lontani, non fisicamente presenti, cioè, nel luogo della procella- che si trova in alto mare e viene assalito da una tempesta[28]. E identico il rimedio: l’urlo che invoca il santo protettore. Il nocchiero di Martino è un pagano e dunque sollecita, nella sua disperazione, l’attenzione di un dio che non gli appartiene, il dio di Martino: Martini deus, eripe nos! Il pescatore di Radegonda chiama direttamente la santa monaca: Sancta Radegonda, dum tibi obedimus, non subdidamus naufragio, sed obtine apud Deum ut liberemur de pelago![29].E quando operano miracoli, i due santi sembrano dover avere il vuoto attorno a loro: allontanano tutti gli astanti perché così meglio realizzano il contatto diretto col dio cui debbono chiedere la grazia della guarigione.

Radegonda, venuta a conoscenza della grave malattia di una monaca, se la fa portare in cella e allontana tutti: hinc iubet omnes removeri.[30] Martino, subito dopo aver fondato il monastero di Ligugé, viene informato della morte di un catecumeno. Accorre e, prima di operare il miracolo della resurrezione, vuole il vuoto attorno a sé: cella omnes iussit abire.[31]

Nello stesso periodo ridona la vita al servo di un magistrato romano, Lupicino. Anche qui: expulit hinc cunctos, solus solita arma requirens.[32]

Del resto il collegamento tra le due personalità è esplicitato dallo stesso Venanzio proprio nella pratica dell’operazione miracolosa. Nel momento in cui deve resuscitare dalla morte una bambina, Radegonda opera more beati Martini. Naturalmente, prima di avere il contatto fisico con il corpicino per ritrasmettergli la vita, Radegonda chiude dietro a sé la porta della cella iubens longe discedere, ne quis sentiret, quid ageret.[33]

In questa trasparente osmosi di situazioni, merita attenzione anche l’episodio finale della vita di Radegonda in cui sembrano assommarsi e mescolarsi molti elementi che pertengono alla storia personale e al culto di Martino.

Radegonda è alla fine dei suoi giorni. Un tribunus fisci di nome Domoleno (uno di quei funzionari abituati a spremere tasse e balzelli con ogni metodo) è gravemente debilitato in tutto il corpo. Gli riferiscono che la santa è lì vicino e lui accorre per essere guarito. Radegonda opera l’ultimo miracolo e però esige una contropartita, due anzi.

Domoleno dovrà dedicarsi alla costruzione di una basilica dedicata a Martino e dovrà rilasciare i prigionieri (se ne precisa anche il numero, sette: debitori insolventi, possiamo immaginare).[34]

Notiamo la riproposizione di situazioni già note per Martino: rapporti conflittuali con gli agenti del fisco[35]; volontà di liberare prigionieri ingiustamente detenuti come nell’episodio di Aviziano[36] e soprattutto, da parte di Radegonda, la voglia di legare la propria personale memoria all’erezione di un tempio che consacri definitivamente il culto di Martino.

Un rapporto ideologico fortissimo. Il monaco che è portato alla solitudine e al rigore ascetico e che deve invece essere vescovo controvoglia. Si trova a confrontarsi con problematiche civili e religiose: due realtà che Martino ha fatto coesistere nella sua esperienza quotidiana.

La vicenda personale di Radegonda, con eventi tanto dolorosi e strazianti alle spalle, la sua posizione, le sue scelte costruirono per lei una condizione di grande solitudine. L’atteggiamento ostile e perfino sprezzante nei suoi riguardi del vescovo Maroveo (l’episodio della ostentata assenza il giorno dell’arrivo delle reliquie è documentato da Gregorio di Tours[37]) la spinsero a cercare una regola che le consentisse una sorta di affrancamento dal potere episcopale.

Serve ricordare che, proprio a partire dal quinto secolo, la figura del vescovo divenne di assoluta preminenza nella vita cittadina perché le sue competenze politiche e militari andarono via via incrementandosi. La politica di fondazione dei monasteri era dal vescovo rigidamente governata e sorvegliata perché lo stabilirsi delle comunità monastiche sul territorio non poteva sfuggire ad una logica di controllo, penetrazione e presenza sul territorio stesso.

L’ostilità di Maroveo si traduceva in opposizione certamente intollerabile per Radegonda che dunque, pur con il modello di san Martino, per così dire, tanto a portata di mano, guarda in altra direzione per il suo modello monastico. Lo trovò nella Regula di Cesario di Arles. La regola di Cesario le conferiva autonomia dal potere episcopale.

E nondimeno Venanzio propone san Martino a Radegonda come figura guida e nume tutelare. Perché anche quella di Martino era stata una personalità isolata e solitaria. Serve ricordare la sua situazione di forte conflittualità con gran parte dell’episcopato delle Gallie.

E soprattutto il suo essere dimidiato tra vocazione alla solitudine monastica e la sua chiamata (costrizione, verrebbe da dire, pensando ancora a come viene rapito e viene costretto ad accettare il soglio episcopale) all’episcopato, lo avvicinano prepotentemente a Radegonda.

Che lega la sua scelta monastica ad una regola rigidissima (quella di Cesario, appunto) ma deve, lei che pure aveva scelto di non essere badessa ma soltanto monaca tra le altre e come le altre, almeno apparentemente, difendere un regime di eccezioni dalla regola stessa per quanto personalmente la riguardava. Radegonda tiene, contro la regola, una cella tutta per sé e conserva rapporti intensissimi col mondo esterno. Che volesse una cella per sé soltanto è certamente connesso con la durezza delle pratiche penitenziali cui si sottoponeva.

Ma questa sua autonomia, nel convento e dalla regola, era fondamentale per la sopravvivenza della comunità, del monastero, ma soprattutto per la sua funzione equilibratrice del convulso panorama politico.

Il binomio vita monastica/ruolo pubblico (con tutte le difficoltà a far coesistere due realtà tanto diverse) caratterizzarono la vita di Martino e quella di Radegonda.

Sul modello di Martino, ecco la figlia di una stirpe sconfitta, costretta ad essere regina e moglie: una violenza, avvertita soprattutto nella condizione maritale. Preferisce l’ombra del chiostro e tuttavia non rinuncia ad essere nella storia del suo popolo.

Martino e Radegonda trovano nell’amore per gli umili questo tratto forte che rende sopportabili le contraddizioni dell’esistere.

Venanzio scrive di Radegonda e Martino, delinea un unico ideale umano.

Del resto Radegonda è la destinataria eletta e talora perfino esclusiva della scrittura di Venanzio. Fortunato dedicò moltissimi dei suoi Carmina a lei (e ad Agnese): affettuosi, simpatici, talora perfino scherzosi (Venanzio non manca certo di humour e di ironia). Questo mi autorizza a chiudere quasi con una battuta e a suggerire una chiave sorridente del fervido rapporto tra i due. Radegonda doveva avere qualche disturbo di stomaco ed ecco il consiglio che le dà il poeta: “Se la pietà e il santo amore rispondono ai voti di chi li prega, esaudisci i tuoi servi, tu così generosa dei tuoi doni. Il vostro segretario Fortunato e anche Agnese ti pregano in questi versi di bere del vino che ti ristorerà dalla tua grande fatica. Che il signore ti conceda tutto quello che tu gli avrai domandato… Ma senza offesa, noi, tutti e due, ti chiediamo pressantemente, o madre nobilissima, di rassicurare i tuoi due figli. Che sia un motivo serio, non il piacere della gola a spingervi oggi a bere del vino, perché una tale bevanda reca giovamento agli affaticati organi del corpo. È a questo modo che Paolo, irripetibile tromba dei popoli, invita Timoteo[38] a bere vino per far star bene il suo stomaco”.[39]

admin