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Purgatorio Canto XI

Canto XI

PURGATORIO

CANTO XI

 

(Treviso, Fondazione Cassamarca

Palazzo dell’Umanesimo Latino

17 febbraio 2003)

 

 

Il canto XI  del Purgatorio ci racconta, nella sua struttura semplicissima (una preghiera di apertura e l’esame di tre personaggi, due prendono la parola mentre il terzo rimane silenzioso) la pena e il dramma dei superbi. È preceduto, in strettissima simbiosi, dal canto in cui ci vengono presentati gli esempi di umiltà: Maria che accetta la maternità, re Davide che si fa ballerino gioioso all’incedere dell’Arca Santa, Traiano che rimanda di qualche ora la sua partenza per la guerra e rende giustizia alla vedova cui hanno ammazzato il figlio.

In realtà se guardiamo alla filigrana dell’intero poema notiamo che sono molti i canti e numerose le situazioni in cui si parla della superbia. Può essere l’arroganza estrema di Lucifero che vuole essere pari a Dio stesso, può essere l’eretico che pretende di usurpare la verità e la strada che ad essa conduce con una propria verità.

Dunque potremmo parlare di una superbia sottesa a qualsiasi forma peccaminosa. Se posso usare una immagine che mi viene suggerita dall’eterno movimento circolare che caratterizza la Commedia, penso ai cerchi concentrici che si allargano nell’acqua quando tiriamo un sasso.

In un certo senso quel sasso e l’allargarsi dei cerchi, siamo noi stessi, la nostra avventura esistenziale, il nostro rapporto con gli altri, il nostro cercare un centro o comunque un punto di riferimento, il nostro entrare a contatto (allargandoci appunto) con esperienze e umanità diverse. Se presumiamo troppo, se facciamo i prepotenti, gli arroganti, se cioè scegliamo una misura di ingiustizia per il nostro vivere, se, per restare in immagine, i nostri cerchi si allargano senza tener conto dell’allargarsi degli altri, inevitabilmente poniamo in stato di rischio un sistema, invadiamo proditoriamente il territorio altrui, in termini danteschi mettiamo in crisi il disegno divino, sconfinatamente più vasto della nostra intelligenza e delle nostre capacità e abilità.

Insomma creiamo rotte di collisione violenta, disarmonie, volontà di sopraffazione là dove servirebbe dialogo, mediazione, intelligenza, tolleranza, capacità di adattamento all’altro e al diverso. Quanto esemplare e unitaria è la lezione di Dante, veicolata da questo canto che sembra nascere da mille sorgenti diverse: il catechismo, la teologia, la cronaca nera, la politica, la sociologia, l’estetica, la letteratura e anche molto altro.

Allora direi che dobbiamo leggerci, parafrasarci e spiegarci questa lunga introduzione articolata su una personalissima riproposta che Dante fa del Pater noster.

Con quale atteggiamento leggere? Direi: con consapevolezza che il Pater noster è la preghiera che meglio suona in bocca ai superbi, che per il solo fatto di recitare si riconoscono fragili e accomunati figli di un unico padre. È, in qualche modo, la rinuncia all’individualismo.

Aggiungo un particolare che ha la sua importanza. Pregare costa fatica a tutti e ricordo che i superbi camminano con esasperante lentezza sotto il peso di enormi macigni. Articolare parole è per loro durissima fatica fisica. Stiamo per leggere qualcosa che ci dobbiamo immaginare rantolante, franto, interrotto da sospiri, da pause di fatica. Questi parlano con la schiena spezzata in due e con addosso l’orrore e lo strazio di una pena terribile, sorretti solo dalla certezza che questa, prima o poi, avrà fine.

Ancora un’avvertenza: queste parafrasi di preghiere note e quotidianamente recitate erano molto di moda nel Medio Evo e non si trattava solo di esercitazioni retoriche in cui dimostrare la propria abilità. Una tesi oggi generalmente sottoscritta è che proprio da queste parafrasi, per amplificazioni successive, nascesse il dramma sacro medievale. Quindi dobbiamo anche leggere pensando ad una dimensione teatrale dell’evento, per così dire ad una profondità scenografica.

Allora leggiamo:

 

“O Padre nostro, che ne’ cieli stai,

non circunscritto, ma per più amore

ch’ai primi effetti di là sú tu hai,

 

laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore

da ogne creatura, com’è degno

di rendere grazie al tuo dolce vapore.

 

Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,

ché noi ad essa non potem da noi,

s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.

 

Come del suo voler li angeli tuoi

fan sacrificio a te, cantando osanna,

così facciano li uomini de’ suoi.

 

Dà oggi a noi la quotidiana manna,

sanza la qual per questo aspro diserto

a retro va chi più di gir s’affanna.

 

E come noi lo mal ch’avem sofferto

perdoniamo a ciascuno, e tu perdona

benigno, e non guardar lo nostro merto.

 

Nostra virtù che di legger s’adona,

non spermentar  con l’antico avversaro,

ma libera da lui che sì la sprona.

 

Quest’ultima preghiera, segnor caro,

già non si fa per noi, chè non bisogna,

ma per coloro che dietro a noi restaro”.[1]

 

Posso iniziare da un piccolo rilievo statistico? In 25 versi, Dante usa 4 volte l’aggettivo “nostro” e ben 7 volte il pronome “noi”: Come se volesse presentare al Padre una umanità compattata dal desiderio di raggiungerlo, di arrivare a dargli del tu. Non sarà un caso che, negli stessi versi, i termini “tu”, “te”, “tuo” ritornino ben 7 volte.

Scelgo (visto che sono altre le cose di cui intendo parlare) di fornire la spiegazione di volta in volta più generalmente accettata, senza addentrami in distinzioni che dal campo filologico sconfinano inevitabilmente nel teologico. Mi limito, per fare un solo esempio e per dire comunque della difficoltà di lettura, ad una citazione che viene proprio da questi primi versi, in particolare dalla seconda terzina: i termini valore e vapore sono per alcuni attributi del Padre, per altri indicano le tre persone della Trinità.

Parafraso: O Padre nostro che stai nei cieli, non limitato da essi ma per il maggior amore che porti alle prime cose che hai creato (cioè gli angeli e i cieli stessi) il tuo nome e la tua potenza siano lodate da ogni creatura come è giusto che si renda grazie al tuo dolce amoroso spirito.

Con qualche difficoltà a comprendere che valore abbia qui soprattutto il termine vapore, ci rendiamo conto di quanto abbia agito sull’eloquio dantesco il Cantico delle Creature di san Francesco, come ci rivelano il laudato sia e il da ogne creatura.

Venga verso di noi la pace del tuo regno, perché noi non riusciamo a raggiungerla da soli, anche se ci applichiamo tutte le nostre capacità, se non ci viene aiuto dalla Grazia. Qui Dante integra il Vangelo che parla solo di regno (“venga il tuo regno”) e non di pace, ma pare a lui che questo sia il senso profondo dell’espressione della sacra scrittura.

Come gli angeli sacrificano a te la loro volontà e ti cantano osanna, così gli uomini facciano sacrificio a te della loro volontà: qui è significativo notare come “sia fatta la tua volontà così in cielo come in  terra” acquisti una eco particolarissima in bocca dei superbi che sono, per definizione, coloro cui maggiormente pesa sacrificare, castigare, limitare, umiliare la propria volontà.

Dacci il quotidiano pane dello spirito, senza il quale è impensabile poter progredire nel deserto di questa vita; anzi chi di questo pane si priva, molto spesso regredisce. Qualche difficoltà per intendere il significato di diserto: è la terra o è il Purgatorio? Io mi limito ad osservare che qui mi pare prevalente il valore dell’immagine che allude alla solitudine, alla fragilità del procedere. Il termine manna ci rimanda esattamente alla traversata di un deserto. E poi come non riandare con la mente ad un bellissimo passaggio proprio del canto precedente?

 

…restammo in su un piano

solingo più che strade per diserti.[2]

 

Poi la parte più terribile e impegnativa, ancor oggi, della preghiera. Perdonaci nella misura in cui noi perdoniamo chi ci fa del male, e non stare a considerare i nostri meriti. Non mettere alla prova con le tentazioni del demonio la nostra forza morale che si lascia abbattere con grande facilità, anzi liberaci dal demonio.

Ricordiamo: sono i superbi che parlano, in sofferenza atroce ma pur sempre sicuri della salvezza. In bocca a loro il “non ci indurre in tentazione” non ha senso. E Dante deve aggiungere: quest’ultima parte della preghiera, o Signore,  non la facciamo per noi, visto che non ne abbiamo bisogno, ma per coloro che sono rimasti sulla terra.

Se posso dire molto sommessamente: qualche volta anche il buon Omero dormicchia. Qui un sonnellino sembra farselo Dante: pare a me che questa parte finale, con il distinguo tra chi è in Purgatorio e chi ancora combatte sulla terra, rovini il contesto psicologico, rude e verissimo ad un tempo, in cui la preghiera si giustifica.

Riprendo un concetto: il Pater si giustifica perché preghiera dei superbi che rinunciano al proprio progetto di allargarsi senza tener conto degli altri, nel momento in cui si riconducono all’unico, comune padre, alla sorgente da cui tutti indifferentemente veniamo. È questo il giusto diapason psicologico, il resto appare in più, fuori tono e fuori registro. Dante avrebbe semplicemente potuto tagliare al punto giusto il Pater noster, ottenendo anche un particolare effetto drammatico, di chiaroscuro, costringendo il lettore a interrogarsi sulla differenza tra chi si trova ad un certo punto del cammino della salvezza e chi, in vita, se la deve ancora guadagnare.

I versi successivi hanno una funzione di sutura, di collegamento a loro volta abbastanza faticosa perché Dante, anche qui, forse, con un eccesso di moralismo, esorta i buoni a recitare preghiere di suffragio per abbreviare la pena delle anime purganti.

E tuttavia sono versi di grande spessore, di grana volutamente grossa per restituire il lettore a quel clima di faticosa ascesa che caratterizza questo canto come tutta la cantica del Purgatorio. Queste anime procedono sotto un peso terribile, simile a quello che talvolta ci opprime in sogno. È annotazione che ci toglie letteralmente il fiato, perché tutti sappiamo quanto sia difficile liberarci da quel senso di oppressione che ci coglie talvolta mentre dormiamo. E augurano, queste anime, buona ramogna, parola di etimo e significato sconosciuti. Probabile che sia accostabile al francese ramoner, “ripulire” e che voglia dire: i superbi augurano buon cammino di purificazione, con accezione molto plausibile in questo contesto.

 

Così a sé e a noi buona ramogna

orando, andavan sotto ‘l pondo,

simile a quello che talvolta si sogna,

 

disparmente angosciate tutte a tondo

e lasse su per la prima cornice,

purgando la caligine del mondo.[3]

 

La narrazione, a sua volta, viene restituita a quel clima di rude e greve realismo che non ha mai smesso di caratterizzarla. Virgilio e Dante sono pur sempre due viandanti che non conoscono bene la strada da prendere e, anzi, vorrebbero che fosse loro indicato se ce n’è più di una e, dunque, quale sia la più agevole. È Virgilio che parla e questo è il momento in cui deve dare ai poveracci che trascinano un macigno sulle spalle una informazione, in tutti i sensi vitale, in quel momento. Uno dei viaggiatori in imbarazzo per la strada da prendere, è vivo e dunque deve fare i conti con un disagio non da poco.

 

ché questi che vien meco, per lo ‘ncarco

de la carne di Adamo onde si veste,

di montar su, contro sua voglia, è parco.[4]

 

Fornisce le indicazioni una delle anime e inizia la galleria dei tre personaggi che popolano questo canto. Eccoli in veloce successione.

Il primo è Umberto Aldobrandeschi, figlio di Guglielmo e feudatario potentissimo nel Grossetano. Come il padre spese la sua vita a combattere contro Siena. Sappiamo che morì nel 1259, quindi mezzo secolo prima della scrittura di Dante. Il secondo è Oderisi da Gubbio, miniatore di cui abbiamo pochissime notizie, anche perché è molto difficile, impossibile anzi, attribuire una miniatura ad un artista piuttosto che ad un altro. Incerte notizie lo vogliono a Bologna tra il 1268 e il 1271 e poi a Roma dove forse morì nel 1295.

Il terzo personaggio (che a differenza degli altri due non prende la parola) è Provenzano Salvani, uomo potentissimo in Siena e personaggio eminente del partito ghibellino toscano. Combatté nella battaglia di Montaperti nel 1260. Il 23 agosto 1268 era a Tagliacozzo, vicino all’Aquila, dove si combatté la battaglia che sancì la definitiva sconfitta di Corradino di Svevia e l’affermazione di Carlo I d’Angiò nel regno di Sicilia. In quella battaglia fu catturato da Carlo un suo amico (forse Mino dei Mini) e per il suo riscatto furono richiesti 10 mila fiorini. Provenzano non li aveva e per raccoglierli si mortificò a chiedere l’elemosina ai Senesi. È questo l’episodio per cui viene ricordato in questo canto XI perché quel suo mortificarsi gli evitò un lungo soggiorno nell’Antipurgatorio. Sarebbe morto, Provenzano, nel 1269 cioè l’anno successivo, sempre combattendo, durante la battaglia di Colle Val D’Elsa che vide la sconfitta dei Senesi ad opera dei Fiorentini.

Tre superbi, tre esempi di mancanza di misura, di tracotanza, di volontà di imporre la propria misura delle cose, distruggendo una fortuna e innalzandone un’altra, creando un trono e scacciando il vecchio monarca, costringendo partiti, fazioni, città a scendere in battaglia. Ma quanti personaggi del genere avrebbe potuto proporci Dante?

Il fatto è che la scelta non è affatto casuale. Nel senso che il poeta vuole tracciare una sorta di diagramma, di itinerario tra personaggi che, pur appartenendo alla stessa epoca, ne caratterizzano tre momenti e tre situazioni diverse.

Umberto è il tipico prodotto di quella società feudale che conobbe il suo apogeo nei due secoli successivi al Mille, edificando l’apparato ideologico della straordinaria società cavalleresca e cortese.

Molto significative, per capire, le  parole con cui si presenta:

 

L’antico sangue e l’opere leggiadre

d’i miei maggior mi fer sì arrogante,

che, non pensando a la comune madre,

 

ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante,

ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,

e sallo in Campagnatico ogne fante.[5]

 

La comune madre potrebbe essere la terra, potrebbe essere Eva, potrebbe valere “il fatto che tutti nasciamo da una donna”, ma il significato complessivo è chiaro: tutti abbiamo una origine comune. Ma appuntiamo il nostro sguardo sulla parola chiave, quell’opere leggiadre che potremmo tradurre con opere virtuose. Per capire dobbiamo rifarci a quanto ci dice Dante in una sua canzone, Poscia ch’amor[6]. Lì il poeta ci dice come per leggiadria egli intenda “liberalità”, “amore per la compagnia degli uomini assennati”, “coraggio”: insomma l’atteggiamento che delinea il ritratto del perfetto cavaliere. “Leggiadria” come “cortesia”, da “corte”, come arte della libera e liberale convivenza tra uomini. Sottolineiamo che qui le opere leggiadre sono associate all’antico sangue.

Una congiunzione terribile, esplosiva se mal gestita, se non metabolizzata. Ecco il complesso messaggio che esce dalle parole dantesche: Umberto non ha saputo adeguare questo patrimonio di sangue e leggiadria al nuovo emergente, ai valori sociali, politici, umani creati dalla società borghese e comunale in espansione e in affermazione.

Umberto non ha capito: ha creduto di gestire il nuovo, aggredendolo, disprezzandolo, combattendolo, isolandosi, facendosi forza e scudo dell’antichità del suo sangue. Insomma, attenzione, perché qui Dante non parla agli uomini del suo tempo, ma a tutte le generazioni future. Dunque anche a noi. Con la forza di un ultimatum o, se preferite, di uno scossone. Superbia è presunzione, è mancata volontà di capire, di comprendere quanto emerge. È arroccarsi per comodità, è giocare in difesa.

Dante guarda con dolore e orrore al comportamento di Umberto, perché per lui quei valori che si riassumono nel concetto di leggiadria devono essere un patrimonio anche della società comunale, un modello di comportamento, addirittura una forma mentis. La fusione e la sintesi tra civiltà borghese e società cortese troverà la sua celebrazione nel capolavoro narrativo assoluto della civiltà occidentale, il Decameron di Giovanni Boccaccio. Sono gli ideali della cavalleria, l’istituto che rappresenta il confluire più alto della cultura classica, della cultura celtica e della cultura cristiana.

Umberto non ha capito, si è negato all’adeguamento, non ha operato per rivitalizzare l’antico sangue col nerbo dell’ideologia nascente. Non ha voluto capire: questa è la sua superbia.

Senza accorgercene abbiamo individuato il meccanismo di questo canto, di questa situazione. È la dialettica vecchio-nuovo.

Alla quale risponde anche il secondo personaggio, Oderisi, il miniatore. È la parte più alta della scrittura di questo canto, il farsi poesia e parola di un complesso ragionamento. Leggerezza di narrazione, ma nerbo sodo di materia trattata. Concetti squadrati come pietre. Con abilità straordinaria Dante ci fa apparire una coppia di miniatori, appunto Oderisi e Franco da Bologna, una coppia di pittori, Cimabue e Giotto, una coppia di scrittori, Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti.

Dante riconosce con sorpresa ammirazione Oderisi. Che risponde.

 

“Frate, diss’elli, più ridono le carte

che pennelleggia Franco Bolognese;

l’onore è tutto or suo, e mio in parte.

 

Ben non sare’io stato sì cortese

mentre ch’io vissi, per lo gran disio

de l’eccellenza ove il mio core intese.

 

Di tal superbia qui si paga il fio;

e ancor non sarei qui, se non fosse

che, possendo peccar, mi volsi a Dio.

 

Oh vana gloria de l’umane posse!

com’poco verde in su la cima dura,

se non è giunta da l’etati grosse![7]

 

Un breve inciso per chiarire questa annotazione dantesca. Il verde, cioè la fama, dura poco, a meno che non sopraggiungano etati grosse. Insomma, se si vive in un’epoca di decadenza, in cui non fiorisce nessun nuovo genio, è possibile che la fama personale di una artista duri un poco di più, che nessuno la soppianti.

 

Credette Cimabue ne la pittura

tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,

sì che la fama di colui è scura.

 

Così ha tolto l’uno a l’altro Guido

la gloria de la lingua; e forse è nato

chi l’uno e l’altro caccerà dal nido.[8]

 

Chi caccerà l’uno e l’altro dal nido è evidentemente, lo stesso Dante. Non certo un peccato di superbia il suo, come ha voluto dire qualcuno sottolineando una contraddizione con la materia del canto che non c’è. Anzi, proprio il contrario, una asserzione di umiltà perché Dante non ha voluto tirarsi fuori dalla legge che proclama la precarietà della fama. Lui supererà i due Guidi, ma sarà, ineluttabilmente, a sua volta superato.

Il movimento è identico nelle tre coppie: Franco sta soppiantando Oderisi, il quale ha iniziato sì a staccare l’arte della miniatura dall’immobile universo dell’arte bizantina, ma deve accettare che Franco amplifichi ulteriormente le possibilità della loro arte. Il termine pennelleggia sta ad indicare che Franco sostituisce al disegno di Oderisi una tecnica più legata all’uso del pennello, quindi più ridente, più luminosa.

Così Dante dichiara la sua maggior ammirazione per Giotto rispetto a Cimabue, per Cavalcanti rispetto a Guinizzelli, in quello che è stato definito un piccolo trattato della storia della cultura in Firenze tra Duecento e Trecento. Ma il discorso morale ha ugualmente limpidezza, trasparenza.

La superbia dell’artista (splendido prodotto della cultura borghese comunale, sia chiaro, a differenza di Umberto) è quello di vedersi come una creatura autonoma, capace di darsi da solo le proprie leggi, autorizzato dalla propria genialità o dalla complessità del proprio mondo culturale.

Non è così: anche l’artista più bravo, anche quello che raggiunge le vette più alte dell’espressività e della poesia, deve aver presente di essere un prodotto della storia.

Che ha un unico autore, Dio. L’artista è sì chiamato a collaborare in forma altissima a questa creazione continua che è la storia, ma deve farlo nella consapevolezza di essere strumento di una volontà superiore. Se questo non avviene, potrebbe essere distrutto in vita dall’affievolirsi della sua stessa fama e, in morte, da una condanna pesantissima.

Inutile illudersi: il mondo è dominato da una condizione di fragilità, di assoluta labilità.

Lo proclama Dante con la forza di un proverbio che assume i toni di una verità ultimativa.

 

Non è il mondan romore altro ch’un fiato

di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, 

e muta nome perché muta lato.

 

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi

da te la carne, che se fossi morto

anzi che lasciassi il ‘pappo’ e il ‘dindi’

 

pria che passin mill’anni?[9]

 

Tra mille anni chi vuoi che si ricordi di te? E che differenza può fare il fatto che tu sia morto vecchio e non quando eri bambino dal linguaggio balbettante, impacciato, ridotto a pochissime sillabe?

Poco più in là, per ribadire:

 

La vostra nominanza è color d’erba

che viene e va e quei la discolora

per cui ella esce dalla terra acerba.[10]

 

Lo stesso sole che fa crescere uno stelo d’erba poi lo inaridisce e lo fa morire.

E le potenze, le grandi città, i regni sono ovviamente come gli uomini. Il cenno è preciso e lo troviamo proprio in questo contesto:

 

fu distrutta

la rabbia fiorentina, che superba

fu a quel tempo sì com’ora è putta.[11]

 

Stiamo attenti perché Dante, senza apparire troppo, ci offre un ulteriore indizio per suggerire l’idea di quanto la fama sia aleatoria. Di Oderisi e Franco ci ha detto, riferendoci qualcosa di esplicito rispetto alla loro arte, al loro mestiere verrebbe da dire, in che cosa l’uno abbia sopravanzato l’altro. Un salto di stile, una innovazione capace di catturare interesse, di aprire nuove prospettive.

Ma per i due pittori (Cimabue e Giotto) e per i due scrittori (Guinizzelli e il suo fraterno amico Cavalcanti) non ci dice cosa rappresenti il progresso dell’uno rispetto all’altro. Che sia un modo per suggerire, anche, che la cultura soggiace a sua volta ai capricci della moda, all’ondeggiare del gusto, al fluttuare delle inclinazioni e delle particolari disposizioni d’animo?

Passiamo al terzo personaggio, Provenzan Salvani. Che non parla, isolato in un silenzio che gli conferisce il distacco di un Farinata o di un Ugolino. Uno di quei personaggi che Dante sa scolpire a tutto tondo con pochissime parole. Lo presenta sempre Oderisi, ma le notizie che di lui da il miniatore non bastano a Dante, il quale incalza il suo interlocutore incuriosito dal fatto che un uomo tanto superbo non sia a scontare un surplus di pena nell’Antipurgatorio. La risposta ce la siamo già data qualche istante fa: Provenzano si è mortificato per liberare un amico.

Ma le parole di Dante sono di quelle che non si dimenticano:

 

si condusse a tremar per ogni vena[12]

 

Dante aggiunge che Provenzano lo fa liberamente[13] e che per farlo depone ogne vergogna[14].

Adesso la galleria è completa, l’itinerario tutto tracciato: un feudatario, un artista nato e realizzatosi nella libertà comunale, un esponente della emergente cultura borghese.

Proprio a Provenzano Dante affida l’immagine straziante di un uomo che sopporta la lacerazione interiore del porgere la mano in pubblico nel segno di chi chiede elemosina. Dante sa dove vuole arrivare: il clima è giusto per proiettare su questo scorcio di Purgatorio la propria immagine di esule, a sua volta straziato da una umiliazione infinita e senza sbocchi. Oderisi ormai ha capito bene chi ha davanti. “Persone molto vicine a te, dice a Dante, presto ti daranno modo di capire cosa significhi patire in esilio”. È una delle tante profezie del destino che attende Dante, qui espressa con una intonazione dolente e secca che lascia il segno:

 

Più non dirò, e scuro so che parlo;

ma poco tempo andrà, che i tuoi vicini

faranno sì che tu potrai chiosarlo.[15]

 

Ha commentato bene Tommaso Di Salvo: “Il tono è volutamente misterioso come si addice alle profezie. Ed invero ciò che dice Oderisi, cioè che Dante per malignità dei suoi concittadini, presto potrà capire il senso profondo del gesto nobile del Salvani, si snoda secondo la tecnica della profezia. In concreto si annuncia al poeta che presto sarà mandato in esilio dai suoi concittadini, conoscerà le vie della mortificazione e dell’emarginazione e della mendicità: e per quell’esperienza di dolore saprà interpretare nel suo giusto valore il gesto del Salvani. Dopo quella di Corrado Malaspina è questa la seconda profezia dell’esilio che si fa nel Purgatorio. Nelle anime dei superbi, le prime incontrate nel Purgatorio, Dante rileva alcune caratteristiche che dirà proprie di tutte le anime dei sette gironi e che si esprimono nella preghiera del Padre nostro”.[16]

Quella preghiera, nella sua reinvenzione dantesca, è davvero una sintesi dell’intera cantica. Chiudiamo il cerchio e torniamo a leggerla.

 

 

[1] Pg XI 1-24

[2] Pg X 20-21

[3] Pg XI 25-30

[4] Pg XI 43-45

[5] Pg XI 61-66

[6] Rime, LXXXIII

[7] Pg XI 82-93

[8] Pg XI 94-99

[9] Pg XI 100-106

[10] Pg XI 115-117

[11] Pg XI 112-114

[12] Pg XI 138

[13] Pg XI 134

[14] Pg XI 135

[15] Pg XI  139-141

[16] Tommaso Di Salvo, Commento alla Divina Commedia, Bologna, Zanichelli, 1985

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