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Purgatorio Canto X (prima parte)

Canto X (prima parte)

PURGATORIO

CANTO X

 

(Treviso, Casa dei Carraresi

2 dicembre 1999)

 
 
 
 

Poi fummo dentro al soglio della porta

Che il mal amor de l’anime disusa[1]

 

Dante, dopo aver attraversato il mondo del peccato punito per l’eternità, dopo aver conosciuto (o riconosciuto) nell’Antipurgatorio le tante anime che ancora attendono di essere ammesse alla espiazione della loro colpa, marca con questi due endecasillabi scanditi e sonori un passo decisivo del suo viaggio, quello che lo porta all’interno del Purgatorio propriamente detto.

Il poeta fissa la nostra attenzione sul momento del passaggio, del varco (non solo porta, ma soglio della porta), ci ricorda che l’amore può anche essere malo (cioè può indirizzarci sulla via torta invece che su quella dritta). Poi, con quel verbo (disusa), fa risuonare nelle nostre orecchie il cigolio di una serratura in cui la chiave gira a fatica e, soprattutto, troppo di rado.

Un attacco in chiave alta, dunque, per suggerire al lettore che sta per iniziare un tratto diverso del cammino, e in cui spicca quel richiamo all’amore che è, nella filosofia dantesca, movente di ogni azione, bene o mal indirizzata da parte dell’uomo. E come Dante avrà modo di spiegare nei canti XVII[2] e XVIII[3] del Purgatorio, proprio sulla concezione dell’amore è disegnata l’architettura complessiva della cantica.

In questa analisi si può partire da un dato abbastanza evidente. Nell’ottica delle simmetrie dantesche non sarà certo casuale che il Purgatorio vero e proprio inizi col canto X, dopo nove (numero perfettissimo) canti di introduzione così come nel Paradiso, proprio a partire dal canto X (in cui si racconta la salita alla sfera del sole) Dante prende a descrivere i cieli che, per così dire, sono più Paradiso, meno attraversati e zavorrati dalla memoria terrena. Il rilievo non è marginale: questo accenno ad una porta disusata ci ricorda che Dante ha scarsa fiducia nelle possibilità di salvezza individuale e davvero pochi, anzi, saranno coloro che potranno entrare nel regno della Grazia e della Luce.

Forse è proprio per questo che l’Antipurgatorio rappresenta un’unità narrativa -in qualche modo autonoma- così ampia e variegata, proponendo una lunga galleria di personaggi a diverso titolo abilitati a risiedere in sul lito diserto\che mai non vide navicar sue acque\omo che di tornar sia poscia esperto[4]: da Catone a Casella, da Manfredi a Belacqua, da Jacopo del Cassero a Bonconte e alla Pia, da Sordello a Nino Visconti e Corrado Malaspina.

Perché, insomma, sarà pur vero che, come Dante afferma nel canto XII di questa stessa cantica, A questo invito vengon molto radi[5], ma è anche accertato che la generosità divina è inesauribile, che la disponibilità di Dio a tener aperta la porta è sconfinata a fronte del disuso portato dal mal amor.

Siamo dunque ad un punto nodale della cantica e nasce proprio da tale riflessione l’atteggiamento mentale con cui dovremo leggere questa intera sezione del Purgatorio, fino all’approccio al paradiso terrestre, viaggiando lungo questa confessione che attraversa i sette peccati capitali.

Il primo dei quali è la superbia, forse il più clamoroso esempio di mal amor: amore verso se stessi, verso la propria immagine, verso il proprio successo, verso il proprio ruolo nel contesto culturale in cui si è chiamati ad agire. Sarà così, come vedremo, per Maria, per David, per Traiano.

Certamente ha proprio qui la sua sorgente, la grande simpatia che dimostrano i lettori della Divina Commedia per questo canto. Analizzato a mente fredda, i numeri e le motivazioni per questa notorietà sembrerebbero proprio non sussistere. Il canto non ruota attorno ad un grande personaggio che lo intrida di quella greve terrestrità che tanto piaceva a Francesco De Sanctis ed esibisce anzi, nel suo complesso, uno di quegli apparati dottrinari, talora perfino catechistici, che tanto urtavano Benedetto Croce.

Bisogna aggiungere che questo canto introduttivo appare schiacciato dal punto di vista ideologico e della profondità della riflessione dal canto seguente, là dove Dante riflette sulla forma più grave della superbia, quella intellettuale. Nel canto XI Dante esamina l’unico possibile rimedio proprio alla superbia intellettuale, riflettendo sulla fragilità della gloria umana e scrivendo versi tanto famosi da appartenere alla memoria collettiva. Come le malinconiche parole di Oderisi da Gubbio, ormai sopravanzato da un altro pittore nell’arte della miniatura e, soprattutto, da questi rimpiazzato sulla bocca della gente:

 

“Frate”, diss’elli, “più ridono le carte

che pennelleggia Franco Bolognese;

l’onore è tutto or suo, e mio in parte.[6]

 

E poco più avanti coinvolgendo Giotto e Cimabue, Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti:

 

Credette Cimabue ne la pittura

tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,

sì che la fama di colui  è scura.

 

Così ha tolto l’uno all’altro Guido

la gloria de la lingua; e forse è nato

chi l’uno e l’altro caccerà dal nido.[7]

 

Oppure quando racconta con efficace sintesi la scelta di vita di Provenzan Salvani, un personaggio di cui Toscana sonò tutta[8]: un politico molto in vista che non esitò ad umiliarsi, elemosinando i soldi sufficienti a riscattare un amico.

 

“Quando vivea più glorioso”, disse,

“liberamente nel campo di Siena,

ogni vergogna deposta, s’affisse;

 

e lì, per trar l’amico suo di pena,

ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,

si condusse a tremar  per ogne vena.[9]

 

E ci risuona con un’eco poderosa nella mente, esemplificativo e sonoro, quel liberamente che ci ricorda quanto può valere un atto di generosa umiltà. Infatti il superbo Provenzano, proprio per quel suo gesto, si è visto risparmiare la lunga attesa dell’Antipurgatorio.

No, questo è un canto complessivamente di tono medio, ma non perciò meno suggestivo, forse proprio per questo stare in primo piano dei due poeti tra lo sbalordito e il dubbioso e per un continuo cambio di scena cui non sono estranee né la consuetudine dantesca di pausare sapientemente il racconto né la volontà di fornire affreschi complessivi della sua visione esistenziale.

E del resto il tema della superbia andava affrontato con una narrazione dal respiro largo. Si tratta infatti di una trattazione attesa dal lettore perché in nessuno dei gironi infernali abbiamo trovato dei superbi. La superbia, infatti, entra in ogni peccato, ne fornisce, in qualche modo, la premessa, perché in ogni situazione peccaminosa è implicito un atto di ribellione, di arroganza. Pensiamo alla figura di Ulisse che chiude emblematicamente la prima cantica: il navigatore proveniente da Itaca  paga con la vita un desiderio di conoscenza che lo pone al di là del confine del lecito, isolandolo nella sua folle presunzione.

Ma va ricordato anche che la più corrente delle interpretazioni individua in una delle tre fiere del primo canto infernale, il leone, proprio la superbia. E la superbia è la prima delle tre scintille che hanno acceso il cuore dei Fiorentini nei quali, come è stato osservato[10], questo vizio assume tutte le gradazioni: dall’orgoglio smisurato delle genti nuove[11], all’alterigia magnatizia delle grandi casate[12], dalla presunzione rabbiosa della fazione dominante, causa di sconfitte sanguinose[13], fino alla sacrilega ribellione della città all’autorità imperiale, condannata con accenti biblici nell’epistola a Enrico[14].

Premessa necessaria, questa, perché, come spero sarà evidente al termine di questa lectura, il tema della superbia è soprattutto un tema politico. La superbia infatti non è solo arroganza, sopravalutazione di sé, presunzione, vanità.

I superbi che qui incontriamo mentre espiano il loro peccato, sono soprattutto quei politici che hanno amministrato il potere, se è possibile dire così, a titolo personale, in chiave individualistica. Non hanno compreso di essere parte di una società che non può dimenticare il suo punto centrale di attrazione, che è l’imperatore. Hanno presunto di decidere da soli il destino di quella porzione di umanità a capo della quale si sono ritrovati.

 

* * * * *

 

Dante e Virgilio prendono ad inerpicarsi con molta fatica attraverso un sentiero scavato nella viva roccia. Il lettore viene trascinato in un clima di grande tensione emotiva: davvero i due pellegrini non sanno come districarsi dalla situazione: per dire delle difficoltà di seguire le rientranze e le sporgenze del sentiero, Dante ci parla della pietra fessa\ che si moveva e d’una e d’altra parte\sì come l’onda che fugge e s’appressa[15]. Virgilio, lo duca mio[16], consiglia al suo discepolo di destreggiarsi impiegando un poco d’arte[17], ma attenzione: la metafora della pietra che assomiglia all’onda che va e viene non è solo suggestiva nel momento in cui richiama l’immagine del mare, della sua provvisorietà e imprevedibilità.  Serve, la similitudine, ad introdurre in qualche modo il concetto di pietra vivente, proprio quella pietra su cui sono scolpiti gli esempi di umiltà.

Quando finalmente Dante e Virgilio si trovano fuor della cruna[18] vengono assaliti da scoramento e incertezza.

 

Io stancato e amendue incerti

di nostra via restammo in su un piano

solingo più che strade per diserti.[19]

 

Sono versi di notevole efficacia perché creano quel clima di desolato silenzio che stringe il cuore in una morsa e induce il pellegrino nell’oltretomba (ma anche il lettore) a contemplare la propria fragilità, la dismisura tra il progetto divino e le capacità di analisi dell’uomo, la fatica del procedere, l’inadeguatezza della dimensione umana.

È il grande tema della fatica, della stanchezza, della paura che attraversa tutto il poema e assume fattezze via via diverse. Il viaggiatore ultraterreno assume consapevolezza, come dice bene Erich Auerbach, di essere umbra et figura di una entità che potrà dirsi compiuta solo dopo la morte, nella pienezza del ricongiungimento a Dio. Come vedremo, questo tema dell’imperfezione che faticosamente sale alla perfezione avrà proprio in questo canto una originalissima riaffermazione nella similitudine bruco\ farfalla.

Io stancato e amendue incerti: si tratta di una conferma che dopo i nove canti dell’Antipurgatorio comincia una nuova unità narrativa che è dominata da un diverso clima e dunque esigerà strumenti di analisi specifici. Ci tornano infatti in mente i versi del canto primo che descrivono quasi con le stesse parole l’identico stato d’animo di solitudine e di smarrimento.

 

Noi andavam per lo solingo piano

com’om che torna a la perduta strada

che ‘nfino ad essa li pare ire in vano.[20]

 

Ma Dante sa che nulla avviene per caso in questo suo viaggio miracoloso voluto e guidato dalla Provvidenza per donare a lui la salvezza individuale ma anche per restituire ordine alle cose del mondo.

Siccome serve orizzontarsi alle svelte, Dante prende ad occhio le misure della cornice e conclude che essa è larga tre volte un corpo umano[21].

Poi volge lo sguardo verso il monte e la sua attenzione viene attratta da alcuni altorilievi scolpiti là dove il pendio è meno ripido.

 

Là su non eran mossi i piè nostri anco,

quand’io conobbi quella ripa intorno

che dritto di salita aveva manco,

esser di marmo candido e addorno

d’intagli [22]

 

Come apprenderemo tra qualche istante, sono gli esempi di umiltà destinati alle anime dei superbi che vedremo avanzare nell’ultima parte del canto, rannicchiati sotto enormi macigni i quali li costringono a camminare lentamente e con la testa bassa.

Per qualche momento, però, non sono i contenuti delle scene raffigurate ad occupare i pensieri di Dante, ma la loro perfezione assoluta, la loro verisimiglianza miracolosa.

Al punto che non pur Policleto\ ma la natura lì avrebbe scorno[23]. Insomma, mai occhio umano ha contemplato sculture tanto mirabili. Il grande scultore greco è noto a Dante attraverso le frequenti citazioni degli autori latini, ma qui siamo davanti a qualcosa che va oltre le possibilità umane.

Il ragionamento di Dante è complesso (ma ricordo che in Dante la complessità non è mai gratuita) e porta a concludere, in buona sostanza, che gli altorilievi non vanno giudicati con metri umani. Infatti nella sfera dell’umano l’arte imita la Natura che, a sua volta, è figlia di Dio e dunque imita l’idea divina delle cose. In altre parole qui non siamo davanti a alcuna imitazione, ad alcuna mediazione della volontà creatrice di Dio, ma ad un suo intervento diretto.

Il tema della divina verisimiglianza degli altorilievi viene ripreso più e più volte in questo canto, attraverso le annotazioni e le sottolineature che riguardano i dialoghi, per così dire, posti sulle labbra dei diversi personaggi. Si capisce che parlano e si capisce che dicono proprio quella certa cosa anche se gli orecchi non percepiscono nulla o anche se il naso non avverte l’odore dell’incenso i cui suffumigi sono così ben raffigurati nel corteo che accompagna l’Arca Santa assieme a David.

Queste espressioni dantesche relative al tema della verisimiglianza sono state enfatizzate da molti critici di diversa tendenza e sono state soprattutto correlate alla grande riflessione sulla fragile gloria umana che deriva dall’essere artisti anche sommi che Dante conduce nel canto seguente. Addirittura si è voluto vedere in nuce un trattato di critica estetica e perfino una sorta di anticipazione della grande arte scultorea rinascimentale.

Forse sarà il caso di abbassare il tiro e di cogliere soprattutto quel clima rarefatto di mistero che circonda il peccato e la sua redenzione, la volontà di peccare e il pentimento, il peccato nel suo accadere e il subentrare della voglia di espiazione. Come dire che Dante punta soprattutto sulla straordinaria efficacia degli altorilievi e, naturalmente, sul potente impatto emotivo che avranno sui suoi lettori. E la mente del lettore moderno corre a quelle bibbie pauperum che i predicatori medievali si trascinavano sulle spalle durante i loro vagabondaggi.

Del resto il ricorso all’exemplum è profondamente connaturato non solo alla letteratura classica ma anche (e soprattutto) alla cultura medievale. Si usavano exempla nell’insegnamento, nella predicazione, nei discorsi che i padri facevano ai figli, in ogni occasione in cui bisognava tradurre un concetto astratto in immagini concrete. Molte opere medievali nascono come sillogi di exempla: così è per lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, per lo Specchio di vera penitenza di Iacopo Passavanti, per le Vite dei santi padri di Domenica Cavalca. È un vero e proprio genere letterario trasversale a tutte le culture neolatine in cui predomina l’aspetto religioso ma è anche ben rappresentata la didattica dei comportamenti sociali e del buon vivere, come nel Libro dei sette savi. E a questo genere appartengono i famosi Fioretti di San Francesco e, per certi aspetti, anche la prima grande raccolta di novelle in volgare, il Novellino. Proprio il Novellino dovremo fra poco citare.

In particolare qui Dante avrà presente, vivida nella sua memoria visiva, la grande scultura di Andrea e Giovanni Pisano. Soprattutto è difficile pensare che, a partire dal primo degli altorilievi esemplari proposti in questo canto, non abbia agito profondamente la visione dell’Annunciazione che il geniale Nicola Pisano scolpì sulla balaustra del pergamo che si trova nel battistero di Pisa. Non a caso è proprio con Nicola che si fa strada una nuova concezione della scultura, intesa come una vera e propria forma di narrativa.

Abbiamo detto che non bisogna tenere il tiro troppo alto. Nondimeno non possiamo trascurare il fatto che il testo dantesco che stiamo leggendo è un documento straordinario della temperie culturale all’interno della quale si muovevano gli intellettuali e gli artisti dell’età comunale alla fine del Duecento.

Siamo ormai ben oltre la visione immobile, ieratica, fuori del tempo e dello spazio dei grandi mosaici bizantini coi loro personaggi tutti uguali, adagiati su uno sfondo d’oro privo di dimensioni e di connessioni con la realtà. Siamo ad una visione dell’arte profondamente e consapevolmente rinnovata, tesa a sperimentare tutte le capacità e le possibilità del materiale che veniva adoperato: il colore, il marmo, il bronzo e, come in questo caso, la parola.

È la sfida culturale che troviamo alle origini dello stilnovismo in cui Dante si è formato come intellettuale, quando Guinizzelli proclama che la vera nobiltà non è quella della discendenza e della razza, ma quella del cuore, dell’iniziativa personale, della cultura. Cioè di quella dimensione morale che proprio Dante, nel canto X dell’Inferno, non a caso mettendola in bocca al padre di Guido Cavalcanti, definisce in modo complessivo come altezza d’ingegno[24]. Ecco allora, in questo canto, in un grandioso tentativo di adeguare la parola alla materia della narrazione, la parola stessa assumere un valore plastico, al fine di restituire al lettore in modo chiaro e semplice, la realtà sempre cangevole dell’uomo in cammino e in ricerca.

Così come guardiamo al poema dantesco dovremmo certo guardare, per esempio, anche alla articolata e poderosa ideologia che sottende al progetto di Santa Maria del Fiore a cui Arnolfo di Cambio lavora a partire dal 1296. Lavora proprio sotto gli occhi di Dante che sta compiendo, tra guelfismo bianco e guelfismo nero, una rapida carriera politica, che lo porterà nel 1300 alla massima carica fiorentina, il priorato. Arnolfo di Cambio, serve ricordare, si forma come artista proprio nella bottega di Nicola Pisano, diventando presto il principale dei suoi collaboratori.

È chiaro dunque che qui non è una urgenza estetica a premere su Dante. Con molto ordine egli attinge un esempio dal Nuovo Testamento (l’annunciazione a Maria), uno dall’Antico Testamento (David che celebra con gioia non propriamente regale l’incedere dell’Arca), uno infine dalla storia romana (Traiano che rimanda di qualche ora la partenza per una campagna militare al fine di rendere giustizia ad una vedovella) quasi a voler comprendere tutta la storia dell’uomo.

E allora ecco proiettarsi davanti ai nostri occhi il film dell’umiltà.

La prima immagine è quella dell’arcangelo Gabriele il quale reca a Maria l’annunzio che è venuto finalmente il momento della Redenzione, punto centrale della storia umana, che pone fine al lungo divieto[25], vale a dire riapre le porte del Paradiso, da sempre chiuse e in attesa della riconciliazione tra Dio e l’umanità.  L’attenzione dell’osservatore viene insomma catturata in prima istanza dal messaggero e non dalla destinataria del messaggio. La scelta di Dante è in qualche modo dovuta: l’atto solenne di recare il decreto divino di fatto stabilisce che la storia sta per cambiare e che finalmente è giunta la molt’anni lagrimata pace[26]. Dopo un’attesa secolare, dal peccato di Adamo in poi, Dio inaugura l’epoca della riconciliazione.

Gabriele saluta e Maria risponde.

 

Giurato si saria ch’el dicesse “ave”;

perché iv’era imaginata quella

ch’ad aprir l’alto amore volse la chiave;

 

e avea in atto impressa esta favella

“Ecce ancilla Dei” propriamente

come figura in cera si suggella.[27]

 

L’immagine della chiave, già anticipata in qualche modo dall’aperse il ciel[28] del verso 36 (oltre che dall’esordio stesso del canto), è alta, solenne, destinata ad imprimersi nella mente del lettore. Così come ci soccorre subito l’immagine dolente e ieratica di Pier delle Vigne che teneva in mano ambo le chiavi\del cor di Federigo[29].

Dante, lo possiamo immaginare, è sbalordito e desideroso di fermarsi davanti a quello stupefacente racconto per immagini. Virgilio, però lo incalza: “Non tener pur ad un loco la mente”[30] quasi a ricordargli che serve accumulare il massimo numero di conoscenze per tesaurizzare al meglio il viaggio.

Dante si trova sulla parte esterna della cornice; tra lui e il pendio c’è Virgilio e la nuova scena che gli si dispiega sotto gli occhi è, se possibile, ancor più coinvolgente della precedente tanto che l’alunno scavalca il maestro per avvicinarsi alle sculture. La visione è effettivamente grandiosa e ricchissima di particolari tutti molto significativi e profondamente collegati con il tema generale del canto: si tratta del corteo che accompagna la traslazione dell’Arca Santa dalla casa di Abinedab in Epata a Gerusalemme, stando al racconto che Dante legge nel secondo Libro dei Re e che, a dire il vero, è più complesso perché dalla fonte biblica si apprende che la traslazione stessa è avvenuta in due fasi diverse.

Dante, con sintesi potente, unifica il racconto e sottolinea ancora una volta l’estrema verisimiglianza di quello che vede. Qui ci parla di una sorta di guerra che nasce tra i suoi sensi perché fisicamente il suo orecchio non percepisce alcun canto ma i suoi occhi sarebbero proprio inclini a dire che, sì, dalle bocche dei coristi il canto esce.

 

Dinanzi parea gente; e tutta quanta

partita in sette cori, a’ due mie’ sensi

faceva dir l’un “No” , l’altro “Sì, canta”.

 

Similimente al fummo de li ‘ncensi

che v’era imaginato, li occhi e il naso

e al sì e al no discordi fensi.[31]

 

Protagonista è David, l’umile salmista[32] che avanza trescando alzato[33]: insomma il re d’Israele si è alzata la veste, magari fermandola alla cintura, e danza senza alcun ritegno in segno di giubilo. E Dante con facile ed efficace anacronismo aggiunge anche che balla il trescone, cioè proprio un ballo popolaresco.

Quella gioia appartiene al popolo intero. Tuttavia

 

Di contra, effigïata ad una vista

d’un gran palazzo, Micòl ammirava

sì come donna dispettosa e trista.[34]

 

Dunque la regina osserva in lontananza, da una finestra del palazzo reale: non capisce e avverte come mortificante quell’esibizione del consorte. Sappiamo, sempre dal secondo Libro dei Re, che Micòl sarà punita con la sterilità per questo suo atto di superbia.

Superbia che qui dunque viene analizzata sul versante molto particolare della mancata volontà di comprendere la vera essenza degli eventi che accadono, affidandosi senza riserve alla provvidenzialità, al disegno di Dio, come invece sa fare David. Della punizione cui fa cenno il testo biblico (la sterilità, appunto) non è traccia nel testo dantesco: ne risulta approfondito, attraverso l’isolamento della regina che guarda da sola, in disparte, il clima di desolazione e anche di mistero che circonda chi cade nel peccato, magari inconsapevolmente

Ma l’episodio propone anche un’altra sfaccettatura del peccato di superbia che qui si colora con le sfumature della presunzione e dell’ignoranza.

Inaugurando l’episodio Dante così aveva descritto il corteo:

 

Era intagliato lì nel marmo stesso

lo carro e’ buoi, traendo l’arca santa,

per che si  teme officio non commesso.[35]

Il riferimento è a Oza, uno dei preposti a trainare il carro, il quale, vedendo l’Arca vacillare allunga una mano per sostenerla ed è per questo colpito da un fulmine. Non era incarico suo e la lezione che se ne può trarre è che non ci si deve assumere un compito se questo non ci è stato espressamente affidato.

E siamo al terzo episodio, presentato con un andamento largo e, se possibile, ancor più solenne degli altri.

Quiv’era storïata l’alta gloria

del roman principato, il cui valore

mosse Gregorio a la sua gran vittoria;

 

i’ dico di Traiano imperadore.[36]

 

Traiano rappresenta la gran vittoria del papa Gregorio Magno perché questo grande pontefice, rimasto sul soglio di Pietro per più di sessant’anni nel corso del VI secolo, avrebbe, secondo una leggenda molto diffusa, pregato per la salvezza dell’anima di Marco Ulpio Traiano, imperatore tra il 98 e il 117 d. C., venendo esaudito. E infatti noi troveremo Traiano in Paradiso, tra gli spiriti giusti.[37]

La leggenda largamente diffusa nel Medio Evo, come sappiamo anche dal Novellino, era originata con tutta probabilità da qualche raffigurazione scolpita su monumenti romani a noi non noti e ritraente un imperatore a cavallo con accanto una donna inginocchiata, a simboleggiare certamente qualche territorio sottomesso.

Qui la rappresentazione richiama il gusto ben noto di Dante per le grandi coreografie.

E allora cerchiamo di immaginarcelo, questo scenario.

Traiano è sul punto di partire per una imprecisata campagna militare. A perdita d’occhio, attorno al comandante, si accalca l’esercito e le aquile dorate (che Dante –altro anacronismo- immagina ricamate sugli stendardi e non come oggetti di metallo infissi in cima a delle aste) si muovono al vento. Tutti, si capisce, hanno in cuore l’impresa che li aspetta e nessuno pensa certo alle beghe di casa. Ed ecco, nelle fattezze di una vedovella, farsi avanti la più miserabile e la più trascurabile delle vicende cittadine.

 

Intorno a lui parea calcato e pieno

di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro

sovr’essi in vista al vento si movieno.[38]

 

La donna ci appare isolata, quasi sommersa dal mare ondeggiante della macchina bellica che si sta mettendo in movimento. Tuttavia, per nulla impaurita dalle aquile d’oro imperiali che tanto contrastano con la sua povertà, si avvicina al condottiero e si para davanti al suo cavallo.

 

La miserella intra tutti costoro

pareva dir: “Segnor, fammi vendetta

di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro”;

 

ed elli a rispondere: “Or aspetta

tanto ch’i’ torni”; e quella: “Segnor mio”,

come persona in cui dolor s’affretta,

 

“se tu non torni?”; ed ei: “Chi fia dov’io

la ti farà”; ed ella: “L’altrui bene

a te che fia, se ‘l tuo metti in oblio?”

 

Ond’elli: “Or ti conforta; ch’ei convene

ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i mova:

giustizia vuole e pietà mi ritene”.[39]

Giustizia vuole e pietà mi ritene: con questa chiusura forte, quasi epigrammatica, Dante ci offre una chiave di lettura complessiva. Giustizia e pietà sono inscindibilmente le due qualità che devono caratterizzare l’azione e la vita del principe, se non vuole cadere nel peccato di superbia.

La giustizia sarebbe astratta se non tenesse conto dell’uomo nella sua complessità, con un atteggiamento, anche, di pietà. E dal canto suo la pietà potrebbe essere controproducente e addirittura peccaminosa se non sorretta, incanalata, validata, illuminata da un profondo senso di giustizia. Il problema è dunque, in termini danteschi, un problema politico: nel disordine dei poteri, in una situazione di forte carenza dell’autorità imperiale, dunque in assenza di quel legame forte di giustizia e pietà, il peccato (e la superbia è il peggiore) si manifesta con maggior virulenza e, peggio ancora, senza nessuna possibilità di essere arginato.

È dunque il momento di chiedersi cosa leghi in profonda unità tre episodi tanto diversi.

Maria, David, Traiano accettano, con umiltà appunto, di uscire dal proprio ruolo, di mettersi, come diremmo noi, in discussione. Di essere altro da sé. Maria, lei vergine, accetta la più impegnativa delle gravidanze; David, il re, accetta di mescolarsi al popolino facendosi coinvolgere e trasportare dall’ebbrezza e anche dagli eccessi di una grande festa religiosa; Traiano accetta di barattare l’impegno per una grande impresa bellica con l’impegno per un piccolissimo atto di giustizia.

I primi due fidano nel disegno provvidenziale che intuiscono in una volontà superiore; il terzo, che -secondo la teoria dei due soli- deriva il suo potere autonomamente da Dio senza la mediazione del papa (e anche questo rappresenta un significato non secondario del canto), poggia il suo agire sulle solide fondamenta di pietà e giustizia indissolubilmente cementate fra loro. In particolare Traiano comprende, lui alto sul suo cavallo e la donnetta che probabilmente non gli arriva alle ginocchia, che è chiamato a sancire con la sua autorità una inversione di ruoli. Lui deve processare gli assassini del figlio della vedovella, lui ha in mano tutte le leve della giustizia tanto che potrebbe spicciarsela mandando in prigione la sua interlocutrice. E invece è la piccola popolana indifesa a processare lui, a dirgli come deve comportarsi, a chiarirgli qual è la vera gerarchia dei valori: prima le opere di pace, poi quelle della guerra.

Sull’ultima battuta di Traiano, la tensione dopo essere arrivata alla sua acme nel serrato dialogo tra il grande condottiero e la povera popolana, non può che scemare e lasciare in Dante un gran desiderio di contemplare nel suo insieme quel miracolo scultoreo.

Lo sbigottimento lo assale ancora e ancora una volta tocca a Virgilio guardarsi attorno per scegliere la strada buona per salire. Nel racconto dantesco l’imbarazzo dei due, la ricerca di un interlocutore cui chiedere informazioni, il passaggio alla successiva sequenza narrativa si fondono in modo mirabile in una terzina dall’andamento lento e largo che fa intravvedere al lettore la schiera avanzante delle anime purganti.

 

“Ecco di qua ma fanno i passi molto radi”,

mormorava il poeta, “molte genti:

questi ne ‘nvieranno a li alti gradi”.[40]

 

Sono i superbi che avanzano a passi lentissimi, perché devono reggere sulle spalle macigni enormi. Il contrappasso è evidente. Questa era, sulla terra, gente abituata a non abbassare la fronte, a sbandierare la propria opinione e la propria faccia, a procedere con passo svelto, ad andare dritta allo scopo senza nessuna esitazione. Adesso deve arrancare, sotto un fardello che esaurisce ogni stilla di energia e tiene china la fronte. La galleria dei superbi inizierà nel canto seguente con Omberto Aldombrandesco, potente feudatario di Grosseto, Oderisi, rinomatissimo miniatore di Gubbio, Provenzan Salvani, il ghibellino senese che dopo la vittoria di Montaperti, al convegno di Empoli, sostenne che Firenze andava rasa al suolo.

Saremmo curiosi di sapere se il peso del macigno è proporzionato all’entità del peccato. Dante ci toglierà il dubbio soltanto in chiusura di canto: più e men eran contratti\secondo ch’avien più o meno a dosso.[41]

Per il momento, Dante rivolge un appello forte al suo lettore, perché non si smaghi[42], cioè non si scoraggi, non desista dai buoni propositi sentendo quanto è pesante la pena purgatoriale. E siccome noi sappiamo che le cornici superiori ospitano pene ben più dolorose, l’avvertimento sarà da riferirsi non solo alla penitenza che ha sotto gli occhi, ma anche a quelle che servono a espiare tutti i successivi peccati. Chiude la sua apostrofe: Non attendere la forma del martìre:\ pensa la succession[43], cioè pensa al trionfo finale.

Ma questa apostrofe ne prepara un’altra, ben più ruvida e generale. Virgilio spiega la pena dei superbi. È il loro peccato, afferma, che li rannicchia[44] a quel modo. E a far rima con rannicchia, per dire al suo discepolo che deve sforzarsi di distinguere con lo sguardo, usa un verbo crudo come disviticchia[45] che bene ci fa capire come macigno e uomo, peccato ed espiazione, siano un tutto unico, avvinti, appunto, come dei viticchi.

 

“La grave condizione

di lor tormento a terra li rannicchia,

sì che’miei occhi pria n’ebber tencione.

 

Ma guarda fiso là, e disviticchia

Col viso quel che vien sotto a quei sassi[46]

Quel verbo, disviticchia, prepara dunque l’apostrofe successiva rivolta ai cristiani superbi de la vista de la mente infermi:[47]

 

non v’accorgete voi che noi siam vermi

nati a formar l’angelica farfalla,

che vola a la giustizia sanza schermi?

 

Di che l’animo vostro in alto galla,

poi  siete quasi antomata in difetto,

sì come vermo in cui formazion falla?[48]

 

Possiamo tranquillamente considerare queste due terzine come un corpus unico, come un’immagine articolata ma sostanzialmente unitaria. Parafrasando e sintetizzando: l’uomo è un entità imperfetta, incompiuta, proiettata però verso la perfezione, destinata anzi ad essa. Esattamente come il bruco che diventerà farfalla, immagine del corpo che tiene l’uomo inchiodato alla terra e dell’anima che gli permette di spiccare il volo. L’invito di Dante è forte e rivolto, non dimentichiamolo mai, in prima istanza a se stesso: la gloria terrena è davvero poca cosa e all’ultimo giudizio volerà l’anima sola, sanza schermi appunto. Cioè senza la corazza di pregiudizi e presunzione, senza le false e illusorie protezioni che ognuno si costruisce con i propri atteggiamenti di arroganza.

La metamorfosi bruco\farfalla o, se si preferisce, la dialettica corpo\anima, esige un cammino faticoso, una consapevolezza estrema della propria verità terrena.

Ed allora ecco che lo sguardo torna al malagevole, impacciato, dolorante procedere dei superbi che in questo contesto attinge a livelli di estremo e sconvolgente realismo. Il poeta affida tutto ad una immagine che si genera spontaneamente da un canto il cui baricentro gravita attorno alle tre grandi sculture di cui abbiamo parlato.

Qui i superbi sono paragonati a delle cariatidi, vale a dire a quegli elementi architettonici così largamente impiegati in ambito romanico e gotico, soprattutto nei capitelli, a sostenere pergami e architravi. Spesso si tratta di figure che danno la sensazione del faticoso sorreggere, facendo toccare il petto dalle ginocchia.

 

Come per sostentar solaio o tetto,

per mensola talvolta una figura

si vede giugnere le ginocchia al petto

 

la qual fa del non ver vera rancura

nascere ‘n chi la vede;[49]

 

È una fatica straziante e, appunto, disumana. Dalla bocca dei superbi esce un lamento e perfino coloro che affrontano con maggior pazienza il supplizio purgatoriale urlano che non ce la fanno più ad andare avanti:

 

e qual più pazïenza avea ne li atti,

piangendo parea dicer: “Più non posso”.[50]

In realtà le voci dei superbi schiacciati dal fardello del loro peccato si uniranno tra un istante nella recita della preghiera degli umili, di coloro che si riconoscono tutti figli di un unico padre. I superbi, li sentiremo, nell’esordio del canto XI, recitare la più straordinaria reinvenzione del Pater noster evangelico che un uomo abbia mai scritto.

 

 

Gian Domenico Mazzocato, che comincia oggi la sua collaborazione alla Dante Alighieri col commento  al canto X del Purgatorio, è docente di lettere presso il liceo scientifico Da Vinci di  Treviso.

Negli ultimi anni si è dedicato soprattutto alla traduzione di classici latini: ha tradotto per la Newton Compton Editori le Historiae di Tacito e la trilogia delle opere minori dello stesso autore.

Recentemente ha curato, sempre per la Newton Compton, la traduzione e il commento dei 35 libri che compongono la monumentale opera storiografica di Tito Livio.

Ma è ormai noto a livello nazionale anche come autore de IL DELITTO DELLA CONTESSA ONIGO, un romanzo che ha conosciuto uno straordinario successo di critica e di pubblico tanto da giungere in pochi mesi alla quarta edizione e da aggiudicarsi nel 1998 il prestigioso premio letterario Gambrinus Mazzotti-Finestra sulle Venezie.

Proprio in questi giorni è uscito il suo secondo romanzo IL BOSCO VENEZIANO, edito dalla Santi Quaranta, che è già entrato nelle classifiche dei libri più venduti.

IL BOSCO VENEZIANO continua la saga del mondo contadino veneto attraverso il racconto delle vicende di una famiglia montelliana, colta nello svolgersi di tre generazioni.

Attraverso la famiglia Barro di Giavera del Montello, le cui vicissitudini attraversano tutto l’Ottocento, è  visitata una pagina sconosciuta della storia veneta: quella dell’esilio secolare cui prima Venezia, poi i Francesi di Napoleone, poi gli Austriaci e infine trent’anni di governo italiano condannarono le genti del Montello perché sulla collina dovevano crescere i roveri destinati a far lavorare i cantieri navali.

Nel romanzo di Gian Domenico Mazzocato il Montello diventa immagine e metafora delle mille patrie perdute.

Come la foresta impenetrabile del brasiliano Rio Grande do Sul in cui i coloni veneti danno la caccia agli indigeni per far posto alle loro fattorie. Come la Sicilia in cui Garibaldi e Bixio fanno fucilare i contadini che reclamano la terra. Come il Cadore sconvolto dalla apocalittica alluvione del 1882.

Il romanzo si rivolge a tutti coloro che amano le grandi storie e la cultura veneta e trevigiana.

IL BOSCO VENEZIANO sarà presentato proprio domani a palazzo Giacomelli dallo scrittore e antropologo Ulderico Bernardi.

L’invito è esteso caldamente a tutti i presenti. Tuttavia, visto che è sempre difficile programmarsi da un giorno all’altro, il nostro autore sarà felice di incontrare gli amici della Dante Alighieri nel corso di un’altra presentazione che sarà tenuta presso la libreria Marton, venerdì 14 gennaio alle ore 18, 30.

 

Ma torniamo a Dante e al suo canto X del Purgatorio.

 


 

[1] Pg X 1-2

[2] Pg XVII 91-139

[3] Pg XVIII 19-39

[4] Pg I 130-132

[5] Pg XII 94

[6] Pg XI 82-84

[7] Pg XI 94-99

[8] Pg XI 110

[9] Pg XI 133-138

[10] Voce superbia, a cura di Fiorenzo Forti, in Enciclopedia dantesca, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1984

[11] If  XVI  73-74

[12] Pd XVI 109

[13] Pg XI 112

[14] Ep VII 15

[15] Pg X  7-9

[16] Pg X  10

[17] Pg X  9

[18] Pg X 16

[19] Pg X 19-21

[20] Pg I 118-120

[21] Pg X 23

[22]Pg X 28-32

[23] Pg X 32-33

[24] If X 59

[25] Pg X 36

[26] Pg X  34

[27] Pg X  40-45

[28] Pg X 36

[29] If XIII 59-60

[30] Pg X 46

[31] Pg X 58-62

[32] Pg X  65

[33] Pg X  65

[34] Pg X  67-69

[35] Pg X  55-57

[36] Pg X  73-76

[37] Pd XX  43-48; 106-107

[38] Pg X  79-81

[39] Pg X 82-93

[40] Pg X 103-105

[41] Pg  X 136-137

[42] Pg X 106

[43] Pg X  108-109

[44] Pg X 115

[45] Pg X 118

[46] Pg X 115-120

[47] Pg X  122

[48] Pg X  124-129

[49] Pg X 130-134

[50] Pg X  138-139

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