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Purgatorio Canto VI

PURGATORIO

CANTO VI

 

(Treviso, Fondazione Cassamarca

Palazzo dell’Umanesimo Latino

27 maggio 2009)

 

LA NOSTALGIA E L’INVETTIVA

 

Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;

con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;

el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.

Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa. [1]

La zara era un gioco d’azzardo che si faceva con tre dadi nelle piazze, agli angoli delle strade, ovunque ci fosse passaggio di gente da coinvolgere. Insomma un po’ come oggi il gioco delle tre carte. Trae il suo nome da una radice araba, la stessa che troviamo nel francese hazard.
Al momento di tirare i dadi il giocatore doveva urlare la combinazione che sarebbe uscita.
La vincita poteva essere relativamente notevole, per le basse possibilità di indovinare l’esito del lancio. E così il vincitore era circondato dai presenti che sollecitavano un po’ di mancia da parte dell’amico il quale viveva la felicità di una minuscola, insperata abbondanza.
Allo stesso modo qui, nel secondo balzo dell’antipurgatorio, sotto la vigilanza dell’incombente Catone, Dante è attorniato da una piccola folla di anime purganti che chiedono al pellegrino di essere ricordate quando egli ritornerà tra i mortali. La richiesta, ovviamente, non riguarda il denaro ma la possibilità di ottenere suffragi e quindi uno sconto della pena.
Comincia così, in modo inatteso e, come dire, molto terreno, questo canto VI che è il canto politico. È già stato così nell’Inferno, avverrà anche durante l’ascesa nei cieli paradisiaci. Anzi il VI del Paradiso è qui in qualche modo anticipato nella esplicita citazione di Giustiniano, l’imperatore che parlerà tra gli spiriti attivi nel cielo di Mercurio.
La similitudine dei petulanti scrocconi che attorniano e pressano il fortunato vincitore della zara si pone in non casuale simmetria con la similitudine che chiude il canto.
È l’immagine della donna inferma che, pur giacendo su un letto di piume, non reca sollievo ai suoi dolori dai quali può difendersi solo rigirandosi di continuo e dunque mai trovando pace. Immagine a sua volta molto concreta, perfino triviale.
Tra le due similitudini, il ritratto impietoso di una Italia straziata dalle beghe interne, di una schiera infinita di tirannelli che non riescono ad avere un minimo di visuale politica oltre il loro piccolissimo orizzonte, di cittadini ipocriti che parlano di bene comune e pensano solo al loro particolare.
Dal gioco di azzardo ad uno stato patologico. Una malattia che coinvolge e devasta non solo tutto l’impero ma anche i presupposti ideologici su cui poggia. Dante sceglie le similitudini con molta cura e nel segno di una pungente critica.
Le lega anche con la trama segreta delle parole: a colui che perde si riman dolente dell’esordio, fa riscontro il finale ma con dar volta suo dolore scherma. Il dolore, ma anche il volgere e il volgersi a vuoto. Al ripetendo le volte (che è il gesto del giocatore che ha perso e si esercita a tirare in futuro con maggiore abilità) risponde il dar volta dell’inferma.
Cosicché questo canto ci pare una sorta di cattedrale gotica che ha le sue bassure tra il popolino che gioca a dadi e fa svettare la sua guglia alta, il suo picco diremmo noi, nell’apostrofe Ahi serva Italia, di dolore ostello.
Dante dunque assomiglia al giocatore che cerca di districarsi nella pressa dei postulanti. Non infastidito, ma imbarazzato.
Gira gli occhi attorno e guarda in faccia le anime purganti che lo circondano. Ne riconosce parecchie. Non ce n’è una che non gli suggerisca una immagine di morte, di violenza, di sopruso, di lotta intestina. È di fatto lo stesso panorama morale e politico del canto precedente, caratterizzato dagli incontri con Jacopo del Cassero e Buonconte di Montefeltro.
Ad allentare la tensione il bravo e consapevole poeta ha introdotto l’elegia struggente di Pia dei Tolomei. Ma ora l’orrore gli si affolla nuovamente attorno.
Diamo un’occhiata anche noi a questa galleria di personaggi dal passato tormentato e turbolento.

Quiv’era l’Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l’altro ch’annegò correndo in caccia.

Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.

Vidi conte Orso e l’anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com’e’ dicea, non per colpa commisa;

Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr’è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia.[2]

Il personaggio aretino è Benincasa da Laterina, giudice in Siena, che aveva fatto condannare alcuni parenti del bandito Ghino di Tacco il quale, forte della protezione di papa Bonifacio VIII aveva eletto Radicofani a sua roccaforte. Ghino si era vendicato di Benincasa uccidendolo.
Poi Guccio dei Tarlati, signore di Pietramala, nel territorio di Arezzo, morto in Arno, forse mentre fuggiva dalla battaglia di Campaldino.
Quindi Federigo Novello, figlio di Guido dei conti Guidi, ucciso attorno al 1290 da alcuni fuoriusciti aretini. Quel da Pisa è il figlio del pisano Marzucco degli Scornigiani. Il suo nome era forse Gano, forse Farinata. Fu ucciso nel 1287 nel corso delle lotte interne alla sua città. La fortezza del padre, cui qui si fa cenno, allude al fatto che Marzucco volle interrompere la linea di sangue della faida rinunciando alla vendetta.
Ecco poi il conte Orso degli Alberti, ucciso nel 1286 dal cugino Alberto che voleva vendicare il proprio padre. Apprendiamo qui che Dante lo ritiene innocente.
Chiude questa rassegna Pierre de la Brosse, personaggio di umili origini, medico e poi ciambellano di Filippo III l’Ardito, re di Francia. Si trovò al centro di oscure vicende di palazzo. È possibile che sia stato lui ad accusare Maria di Brabante, seconda moglie del re, di aver fatto uccidere Luigi, il primogenito di Filippo.
Per questo fu accusato di tradimento e impiccato per una trama ordita dalla stessa Maria. Maria, dice Dante, deve provvedere soprattutto a redimersi per non essere condannata all’inferno. Suo figlio è il futuro Luigi il Bello, salito al trono grazie alle manovre della madre. E Dante qui anticipa il quadro fosco della casa regnante di Francia di cui parlerà tra poco, nel canto XX.
Dalle anime che sperano da quella inattesa situazione di veder accorciato il proprio soggiorno in purgatorio, ad un dubbio di Dante. Il poeta rimescola con la consueta perizia gli ingredienti a sua disposizione. Si sta preparando quel clima alto, enfatico, solenne e sonoro in cui Sordello si proporrà come esempio positivo di politico. Nel suo ricordo il poeta si lascerà andare allo sfogo teso e ruvido in cui l’Italia viene descritta come la tenutaria di un bordello, anzi, per essere esatti, bordello lei stessa.
Il dubbio di Dante parte da un passo dell’Eneide [3] .
Nel VI libro leggiamo che Enea vorrebbe che al suo nocchiero Palinuro fosse concesso il passaggio dell’Acheronte, ma Sibilla afferma che le preghiere dei vivi non possono modificare i decreti degli dei. E allora come la mettiamo con le richieste dei suffragi? Virgilio spiega che il contesto in cui si collocano le parole del poema era quello della cultura pagana. Ora è venuto il Cristo a stipulare la nuova alleanza e a fondare un diverso rapporto tra mondo e ultramondo.
Noi dobbiamo ricordare che la questione non era così pacifica e si collocava anzi al centro di roventi dispute teologiche. In molte correnti eretiche si sosteneva che la salvezza e la purificazione appartenevano solo ai meriti personali. Era mera speculazione (con implicazioni anche finanziarie: pensiamo alle offerte e alle messe di suffragio) sostenere che le preghiere dei vivi potevano aiutare i morti. E in ambito protestante questo diverrà uno dei segni di separazione netta rispetto al mondo cattolico.

Come libero fui da tutte quante
quell’ombre che pregar pur ch’altri prieghi,
sì che s’avacci lor divenir sante,

io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;

e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?».

Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;

ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;

e là dov’io fermai cotesto punto,
non s’ammendava, per pregar, difetto,
perché ’l priego da Dio era disgiunto.

Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.[4]

Virgilio dunque taglia corto. Questa è una di quelle questioni che si risolvono solo sul piano di accettazione per fede.
La guida di Dante lega l’appello alle verità inspiegabili con il volto sorridente di Beatrice: in cima al monte del purgatorio, essa gli apparirà immersa nella luce della verità che promana direttamente da Dio. Poi qualche battuta interlocutoria. Quasi sferzato dalla prospettiva di incontrare Beatrice, Dante afferma di non avvertire la stanchezza e di voler andare avanti.
Già il monte proietta la sua ombra, siamo nelle prime ore del pomeriggio e il giorno è dunque al suo declinare. Ed ecco il buon senso di Virgilio: andiamo avanti finché la luce ce lo permette, ma guarda che prima di arrivare in cima tu il sole lo vedrai sorgere più volte, quel sole che ora non c’è quasi più e tu non ne interrompi i raggi, non proietti più ombra.
In questo clima, comunque rarefatto e impreziosito dalla confidente amicizia dei due viaggiatori che si guardano attorno, ecco Virgilio alzare gli occhi e scorgere qualcuno molto importante: Ma vedi là un’anima. Il ma rappresenta uno stacco forte, il segno che il prossimo incontro sarà diverso, in qualche modo in controtendenza.
Virgilio ancora non sa chi sia quell’anima, per il momento è solo un interlocutore lontano cui chiedere la strada. Ma c’è già maestà, decoro, grandezza e solennità nel presentarla sola e isolata. Un leone che posa, ci suggerirà tra qualche verso una fascinosa immagine. Il Farinata del purgatorio, ha detto qualcuno.

Non so se ’ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».

E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,
ché già non m’affatico come dianzi,
e vedi omai che ’l poggio l’ombra getta».

«Noi anderem con questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai;
ma ’l fatto è d’altra forma che non stanzi.

Prima che sie là sù, tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che ‘ suoi raggi tu romper non fai.

Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne ’nsegnerà la via più tosta». [5]

Diciamo subito che, se la suggestione è forte, ben marcate sono le differenze. Sordello non è e non può essere Farinata anche se l’accostamento ha padri illustri come Benedetto Croce e Attilio Momigliano. Ricordate? Ne abbiamo parlato illustrando il canto X dell’Inferno. Dante e Farinata sono due uomini di parte, legati e anzi incatenati dalla cultura e dal sangue alla rispettiva fazione anche se il loro atteggiamento non ha alcunché di bassamente e trivialmente plebeo. Ha anzi decoro, solennità. I due possono sostenere che le lotte, per quanto aspre e sanguinose, dovrebbero obbedire ad un codice etico. Il rispetto dei vinti, ad esempio, e l’obbligo morale a non far continuare le lacerazioni, a non far ricadere conseguenze delle lotte sui discendenti, rendendoli responsabili di colpe commesse dai progenitori. Quando incontra Sordello, Dante ha approfondito la meditazione sulla storia e il pensiero è virato verso un pessimismo ampio e generale. Il suo sguardo si alza dal circoscritto panorama fiorentino e osserva la tragedia di una Italia divisa, lacerata, straziata, in balia dell’arroganza di tiranni grandi e piccoli, dominata da avventurieri di giornata, attraversata da una violenza endemica e inestirpabile. Violenza che non conosce limiti e regole. Qui non ci sono paletti a suggerire il rispetto dell’avversario sconfitto e soprattutto della sua prole. Qui esiste un disordine di fondo che va indagato nelle sue origini e perseguito nelle sue manifestazioni.
L’indagine esige forte impegno personale, totale coinvolgimento, profonda adesione morale. I politici per la loro parte; un ideologo come Dante, coscienza critica della propria epoca, per la sua. Serve riconoscere che il disordine nasce dalla disgregazione dell’unità dell’impero, avere consapevolezza di una sorta di suicidio politico che porta a lotte fratricide, a città divise e asservite, a conflittualità permanente. La soluzione è in un alto senso etico legato all’unico possibile atteggiamento positivo. L’amore per la propria patria.
Ci sovviene una straordinaria espressione dello stesso Dante, il quale inaugurando all’Inferno il canto di Capaneo, aveva parlato della carità del natio loco. [6]
No, Sordello non è Farinata.
E del resto le sue vicende personali descrivono una parabola esistenziale del tutto diversa. Nato attorno al 1200, ebbe vita vagabonda e avventurosa, girovago da una corte all’altra dell’Italia settentrionale. Fu a Treviso presso Ezzelino da Romano, coinvolto nelle torbide vicende di quel personaggio. Fu Ezzelino, pare, a fargli rapire a Verona una donna di cui era innamorato.
Dovette fuggire in Provenza dove trascorse quasi tutta la sua vita presso le corti di Raimondo Berengario IV e Carlo I d’Angiò. Fu al servizio di questi che rientrò in Italia infeudandosi in alcuni territori che gli furono concessi in Abruzzo dove morì attorno al 1270. Di una produzione che fu probabilmente abbastanza vasta e non solo in lingua d’oc, ci resta un canzoniere di 42 componimenti.
Di questi soprattutto uno girò nel medioevo conferendogli una aureola di valore e autorevolezza morale, Il compianto del sire Blacatz, il signore di Aupt morto nel 1237, sul cadavere del quale piange. E incita a cibarsi del suo cuore, per ereditarne il valore.

Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!

Ella non ci dicëa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,

ma di nostro paese e de la vita
ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava
«Mantüa…», e l’ombra, tutta in sé romita,

surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava. [7]

La carità del natio loco qui diventa carne ed evento.
Faccio mie le parole di Guido Favati[8] per dire come l’amor di patria in Dante non si rivolga tanto alla città, quanto, con assoluta pregnanza etica, ai cittadini. L’amore «il quale si limita alla città, l’amore tra quei ch’un muro ed una fossa serra è la misura minima, il nucleo minimo dell’amor patrio: il quale è dunque suscettibile d’abbracciare una sfera più vasta, e nel sentimento di Dante concretamente si estende non solo alla terra, la quale non è più soltanto la città cinta da mura e fossa, ma è qualcosa di più ampio e organico (non è soltanto Mantova, ma Mantova con Goito e con Andes), bensì all’intera Italia. Al giardin dello ’mperio, al bel paese… ch’Appennin parte e il mare circonda e l’Alpe. L’Italia, insomma, è per Dante una realtà del sentimento (è il bel paese, è il giardin dell’impero, ben percepibile e isolabile nella più vasta unità dell’impero, al di là delle regioni che possono opporre città a città e per cui si è fiorentini piuttosto che pisani o aretini».
Ed ecco l’apostrofe più famosa dell’intero poema, ruvida e scabra, sapientemente preparata dal momento della tenerezza elegiaca, dall’attimo dell’incontro che scavalca e annulla più di mille anni. I due non si conoscono ma, se si può giocare con le parole, si riconoscono.
Semplicemente sono figli della stessa terra.
Così possono leggere insieme il senso di una decadenza che è nelle cose, nell’evidenza dei fatti. Chiesa e Impero hanno tradito i loro scopi. Perché il papa invade il terreno dell’imperatore cercando di svuotarne il potere, e l’imperatore è sempre più tedesco, sempre meno universale.
Il linguaggio di Dante si fa alto, poderoso, profetico.
Come dire? Il tono è oratorio senza essere retorico, è enfatico senza cedere a facili effetti. A innervare il discorso c’è l’enunciazione di quella che per Dante è una verità profonda, assoluta.
Dio verrà presto ad imporre una svolta alla storia e la sua azione sarà particolarmente avvertita a Firenze che è il bubbone della malattia, il luogo di ogni male e di ogni scandalo, il centro dell’ostilità all’impero. Firenze è la città dell’ingiustizia, della sopraffazione, della divisione. È lei la malata che cerca sollievo al male rigirandosi nel letto. È lei il simbolo fisico della miopia politica.
Il punto di partenza non può che essere il tentativo, frustrato dallo svolgersi degli eventi, di porre un freno a questo cavallo senza sella. Giustiniano ha dettato leggi giuste, ma che fa l’imperatore per applicarle? Non ci fossero le leggi, non ci fosse stato un autorevole legislatore, la vergogna sarebbe minore.
Il bersaglio è Alberto d’Asburgo che trascura l’Italia al pari del padre Rodolfo: la punizione di Dio si è vista nella morte precoce del figlio. Un avvertimento per il successore Arrigo VII.
Alberto I (1248-1308) fu in realtà ottimo amministratore e le sue campagne militari furono tese al rafforzamento dell’istituto imperiale. Ma, agli occhi di Dante, ha una colpa gravissima: ha permesso a Bonifacio VIII di autonominarsi vicario imperiale e a Comuni e Signorie di perseguire una politica autonoma e indipendente dagli interessi generali dell’impero.
Come si è detto molte volte, in questa posizione di Dante è un anacronismo assoluto, un non riconoscere il mutamento dei tempi e le evoluzioni istituzionali. Sostanzialmente una incapacità di analisi del presente e del futuro.
Gli sfugge quanto il Comune sia fertile di nuovi atteggiamenti rispetto all’immobilismo del feudo. Gli sfugge il fatto che il Comune offra la concretezza di quella partecipazione di tutti i cittadini alla vita pubblica della cui mancanza egli incolpa l’assenza dell’imperatore. Ma ovviamente non è questo che interessa al lettore il quale si fa invece coinvolgere dalla visione politica e morale del poeta.

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!

Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.

Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.

Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’esso fora la vergogna meno.

Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,

guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.

O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,

giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!

Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto. [9]

Già, le grandi vicende familiari, le discendenze, le faide, le eredità contese.
Ed ecco il rapido excursus su alcune famiglie italiane che, per egoismi a loro interni, provocano la progressiva rovina del paese e la sua disgregazione. I Montecchi, ghibellini di Verona; i Cappelletti, guelfi di Cremona; i Monaldi e i Filippeschi rispettivamente guelfi e ghibellini di Orvieto; e gli Aldobrandeschi, conti di Santafiora, in territorio di Siena, prossimi alla rovina perché coinvolti nella più generale rovina dell’istituto feudale, sono introdotti ad indicare proprio questo soffocamento di una visione politica che in realtà sta tramontando per sempre.
Dante coinvolge e usa con estrema perizia ogni artifizio retorico: similitudini, metafore, citazioni a più sensi. Per esempio adopera con ironia il nome di Gaio Claudio Marcello, l’oppositore di Cesare, per dire che ogni villano che si dedica alla lotta politica diventa un nemico dell’imperatore. Ma Marcello era personaggio di alto e nobile sentire: questi contadini inurbati e arricchiti sono feccia senza cultura. Il terreno giusto per far crescere odio, faziosità, complicità. Lo sguardo di questa gente non oltrepassa l’orizzonte piccolo della propria consorteria. Si oppone all’imperatore, solo in nome del proprio interesse di parte.

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!

Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?».

Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.

E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?

Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene. [10]

I toni più accorati accostano il poeta al profeta. Come Geremia parla a Gerusalemme straziata dai suoi mali interni e dai nemici esterni, così Dante parla a Firenze. Leggo nel libro di Geremia:

Ogni città è abbandonata,
non c’è rimasto un sol uomo.

E tu, devastata, che farai? [11]
E ancora:
Cercate nelle sue piazze
se trovate un uomo
uno solo che agisca giustamente
e cerchi di mantenersi fedele…[12]

E alludendo al nemico che incombe:
Divorerà le tue messi e il tuo pane;
divorerà i tuoi figli e le tue figlie;
divorerà i greggi e gli armenti;
divorerà le tue vigne e i tuoi fichi…
[13]

E tuttavia se Geremia piange e s’accora, Dante usa l’arma dell’antifrasi, del sarcasmo corrosivo, dell’irrisione disperata e violenta.

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.

Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.[14]

La similitudine dell’arco. L’espressione dovrà intendersi riferita al momento in cui la cocca della freccia è poggiata sulla corda tesa e la punta arriva all’arco, un istante prima di essere scagliata verso il bersaglio. In altre parole i Fiorentini sono intrinsecamente ingiusti, ma anche grandi ipocriti: hanno la giustizia in bocca ma non nel cuore.
Il Comune, nella visione dantesca, ha fragile tenuta etica, è politicamente inconsistente, si deve arrangiare con uomini non preparati. Se da una parte c’è chi rifiuta gli uffici pubblici avvertendo la propria inadeguatezza, c’è sempre qualche popolano ignorante che scorge in questa assenza lo strumento per piegare la cosa pubblica al proprio interesse personale. E si fa avanti e si offre. Con quali esiti è facile intendere. Il sarcasmo scava un solco.
Firenze sa fare meglio di Sparta e Atene, le due città che seppero darsi le migliori leggi dell’antichità. Firenze che in pochi giorni cambia monete, uffici pubblici, costumi. E soprattutto leggi che Dante definisce con aggettivo acuminato: sottili. Volendo dire che sono finemente, furbescamente, subdolamente escogitate, ma anche (e proprio per questo) esili e fragili.
Dell’abbraccio dei due magnanimi riconosciutisi come originari della stessa terra non è rimasto più nulla. Affiora l’universo negativo di Dante, il suo pessimismo, il suo sguardo cupo gettato sul futuro.
Restano invece le orme di sangue dei personaggi che abitano in questa parte di antipurgatorio con il loro pesante fardello di ingiustizie subite ma spesso anche inferte. La via dell’ascesa al monte della purificazione è durissima. E noi non siamo, al momento, affatto sicuri che essa sarà coronata da successo.

Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno

verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.

Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!

E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,

ma con dar volta suo dolore scherma. [15]

 


 

[1]Pg VI 1-12
[2]Pg VI 13-24
[3]Eneide VI, 376
[4]Pg VI 25-45
[5]Pg VI 46-60
[6]If XIV 1
[7]Pg VI 61-75
[8]Guido Favati. Sordello, in Cultura e scuola nn. 13-14, 1965
[9]Pg VI 76-105
[10]Pg VI 106-126
[11]Ger. 4, 29
[12]Ger. 5, 1
[13]Ger. 5, 17
[14]Pg VI 127-138
[15]Pg VI 139-151

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