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Per mercatini nel Veneto, sagre sagrette mercati e mercatini
UN VIAGGIO NEL CUORE DEL VENETO
per mercatini, nel Veneto
sagre sagrette mercati e mercatini

Dopo aver firmato i testi per i libri di fotografi come Cesare Gerolimetto, Elio e Stefano Ciol, Ruggero Piccoli, Antonio Piovesan, mi propongo per la prima volta come fotografo in proprio. Ecco il mio PER MERCATINI, NEL VENETO, edito da TINTORETTO EDIZIONI.

Questa volta ho deciso di testimoniare la civiltà veneta mettendomi dietro l’obiettivo e fotografando i mercatini dell’antiquariato della regione. Ho ricostruito, attraverso gli oggetti, un itinerario della memoria, della fantasia collettiva, della civiltà veneta. Ogni foto è accompagnata da un breve testo letterario: voglio ricordare che esiste anche una letteratura delle cose e degli oggetti. Un modo inedito e affascinante di visitare la storia di questa terra. Un viaggio nel cuore del Veneto. E un viaggio nel mondo del collezionismo.

Quello che si legge di seguito è un ELOGIO DELL’INUTILE, un RITRATTO IRRIVERENTE DEL COLLEZIONISTA, come lo definisco.

In abbinata esce SAGRE E SAGRETTE MERCATI E MERCATINI. Nulla sintetizza la cultura di un popolo meglio della sagra patronale, del mercato, della festa popolare.

Si tratta di un vademecum costruito grazie alle schede di segnalazione inviateci dai singoli comuni. Ne è scaturito un piccolo universo di dati. Il Veneto è una autentica esplosione di sagre, manifestazioni, mercatini. E’ una bella cosa: suggerisce identità, orgoglio della propria terra, senso della storia, imprenditorialità diffusa, voglia di fare, diffusione del volontariato.

E’ di facilissima consultazione.

Di ogni paese e di ogni città si fornisce l’elenco dei mercati settimanali, delle sagre, fiere e manifestazioni, dei mercatini vari e con un particolare riguardo ai mercatini dell’antiquariato.

Ogni tipologia di manifestazione è individuata da un colore particolare. Per cui basta far correre lo guardo sulla pagina per trovare ciò che interessa.

Per ogni comune si indica un numero telefonico utile e un indirizzo di posta elettronica.

ELOGIO DELL’INUTILE

(RITRATTO IRRIVERENTE DEL COLLEZIONISTA)

Il collezionista è uno che soffre.

Perchè gli è stata inflitta una ferita.

Io colleziono macinini da caffè, di ogni tipo e di ogni epoca. Quelli da tavolo e quelli da muro, quelli col tagliaere davanti che risalgono a duecento anni fa e quelli col manico. In legno, in plexiglass (si possiedo un macinino assolutamente trasparente), in bachelite, in ceramica, in metallo. Ho due mulini portatili della prima guerra mondiale, uno italiano e uno austriaco. Possiedo una serie ben fornita di settegrani, quei particolari macinacaffè orientali all’interno dei quali si può anche riporre il manico, in cui le popolazioni nomadi preparano la dose personale (sette grani appunto, sbriciolati fini e pronti per l’infusione).

Poi i miracolosi macinacaffè autocostruiti. A chi devo lo splendido macinino ricavato dentro ad un bossolo di proiettile? Chi mai avrà avuto la pazienza di ribattere, colpo di martello dietro colpo, un’unica lastra di ferro fino a dargli la forma di cbo, per poi inserirvi il meccanismo di macina?

Il collezionismo è una ferita aperta, ferita della memoria e dell’anima.

La mia ferita: quando avevo sette anni, forse otto, sono stato colpito a morte da una collezione di figurine dedicata alla storia d’Italia vista attraverso gli animali che in qualche modo ne hanno segnato la cultura.

C’era una figurina introvabile. Ritraeva attaccata al calesse su cui era stato ucciso il padre del poeta la cavalla di storna di Giovanni Pascoli. Un buco bianco inguaribile sul mio album. La ricordo perfettamente ,quella figurina perchè il mio compagno di banco l’aveva trovata e la esibiva trionfalmente a me e agli altri orfani della cavalla che frangea la biada con rumor di croste. Tanta invidia, di viscera profonda, perfino un po’ d’odio.

Un po’ ferita e un po’ malattia. Un virus latente che si scatena all’improvviso e non c’è guarigione. Io vidi un giorno di tanti anni fa una vecchia signora che si accingeva a buttar via un macinino.

Glielo chiesi.

Il mio numero uno, bianco con una riga rossa, tornito dentro ad un cilindro di bosso. Bello, non eccezionale. Ma scatenante. E’ incredibile cosa l’uomo abbia costruito attorno a questo meccanismo semplicissimo un pezzo di ferro che sfrega contro un altro ferro, che fantasia abbia esplicato, quante forme diverse abbia nei secoli partorito.

Il macinacaffè allude ale cose semplici, agli odori del risveglio, al gesto quotidiano, al banale e al sublime che c’è nel giorno dopo giorno di ognuno.

*****

I frequentatori di mercatini cercano il mobile buono per la casa nuova, il marmo con cui fare solenne il loro focolare, perfino la banderuola per il camino. Ma in percentuale altissima sono collezionisti che cercano un pezzo in più per il loro personale rapporto con quel particolare oggetto. Un atto di amore, un’ansia da appuntamento che si rinnova, un’emozione. Sperano, anche, di trovare qualcosa che non sapevano nemmeno che esistesse.

La rivelazione. Il collezionista è disponibile all’inedito, al nuovo.

Ha sempre un serbatoio immenso di stupore da aprire, una meraviglia da riversare a fiotti.

Come tutti i collezionisti, io possiedo una, come dire?, sottoraccolta. Mi piacciono da matti gli allungamatite, quegli aggeggetti su cui si innestano i mozziconi di matita per sfruttarli fino all’ultimo millimetro di grafite e legno.

Solo che qualche volta baro: poiché, quando segno i libri che leggo e studio, amo sentirmi in mano quel pezzo di legno o metallo e, per dirla tutta, riesco a usare la matita solo in “quel” modo, io prendo una matita nuova, la faccio in tre pezzi e ho… tre mozziconi nuovi di zecca. Un paradosso, una stupidaggine.

Ma non esiste al mondo un collezionista che non sia disposto a qualsiasi stupidaggine per il suo graal, l’oggetto che lo tiene in perenne, inesausta, inappagata ricerca.

Egle, mia moglie, colleziona cartoline augurali.

Cartoline di auguri. Già questo è un paletto ben fisso, che lascia fuori mille altri soggetti possibili, che esclude un galassia di suggestioni, un intero universo iconografico.

E tuttavia sono anche ben altri i paletti che lei pone. Intanto: tassativamente auguri pasquali. Le cartoline devono essere vissute (cioè scritte e “viaggiate”, se qualcuno si è fregato il bollo lei torce il naso) e soprattutto devono essere firmate. L’elenco dei disegnatori è preciso e rigoroso: Bertaglia, Busi, Bassi, Collino e pochi altri. Lei riconosce il tratto, lo stile di ognuno.

Se deve scegliere tra due cartoline, perchè sta esaurendo il budget che si è prefisso per quel giorno, punta su quella che presenta la scrittura più intrigante, magari immaginando una storia dentro e dietro le parole affidate al labile tramite di una carta postale. Egle si sente un’eroina della memoria, brandisce il suo graal di carta e diventa l’ultima depositaria di una vicenda antica.

Mio genero Maurizio colleziona piccole radio (solo a transistor, fategli un dispetto e regalategliene una a valvole), mia figlia Miriam chicchere mignon, tutte decorate in un certo modo che sa lei.

In una famiglia così l’unico quasi normale è mio figlio Guido che ha una passione sbrigliata per Totò e ne cerca tutti i film.

Ho l’amica che colleziona piccole tartarughe, talismano apotropaico e portafortuna; l’amico che raccoglie cavaturaccioli e quello che ha la casa letteralmente occupata (a questo punto assediata, anzi) da ferri da stiro rigorosamente ante avvento dell’elettricità. Ha una casa grande. I ferri da stiro li mette lungo le pareti, uno dietro l’altro, in fila incredibile, in labirinto inestricabile.

Esaurite le pareti, ne ha messo uno per ogni gradino delle scale infinite che traforano il luogo in cui abita con i suoi ferri. Ogni tanto lo trovo per mercatini e sul volto gli leggo il cruccio dello spazio utile che si va esaurendo. Ma l’ultima cosa a cui pensa è smettere, si è visto mai.

Il collezionista è uno che si macera, si tormenta.

Un mio amico, noto editore, colleziona acquasantiere, non le grandi pile da chiesa, ma quelle piccole da comodino. Non ho mai avuto il coraggio di chiedergli perchè quella enorme distanza tra il suo lavoro e il suo graal.

Perchè conosco perfettamente la risposta: “Perchè un editore colleziona acquasantiere? Ma esattamente per lo stesso motivo per il quale uno scrittore colleziona macinini”.

Inconfutabile, senza discussione.

Il collezionista è uno che rende normale la stranezza. Pianifica l’assurdo. Infatti è un semplice che ama complicarsi la vita.

*****

Naturalmente, anche le collezioni si possono collezionare.

Nel senso che nell’inventario mentale di chi pratica questo mondo si stratifica un catalogo di notizie destinato ad allungarsi all’infinito.

Chi avrebbe mai detto che esistono collezionisti di affettatrici per salumi? Non ne ho mai conosciuto uno, ma devono essere nutrito stuolo a giudicare dal fatto che in ogni mercatino che si rispetti c’è almeno una bancarella che esibisce questi ingombranti marchingegni. Visti così, in un contesto tanto diverso, non alludono nemmeno all’uso cui la loro tecnologia li ha consacrati.

E non molto tempo fa ho avuto di che stupirmi nello scoprire che esiste un mercato fiorente e frequentato di capsule per bottiglie di spumante.

Sì, proprio quel pezzetto di latta che la gabbietta in filo di fero schiaccia contro il fungo di sughero. Esistono capsule con quotazioni da capogiro, fior fiore di cataloghi, professionisti del settore. Al confronto i semplici collezionisti di tappi sbiadiscono, impallidiscono, scompaiono.

Ci sono poi i cochisti e i pepsisti, ferocemente opposti gli uni agli altri. Come Coppi e Bartali, come Milan e Juve. I primi collezionano oggetti col marchio della Coca Cola, i secondi della Pepsi. Una sottoraccolta pone mio genero Maurizio oltre e sopra gli amanti delle bollicine marrone. Lui colleziona oggetti con il marchio della birra Heineken.

*****

Una buona definizione può essere questa: il collezionista è archeologo di se stesso.

Dal passato di ognuno, penso, emergono collezioni. Monche, complete, iniziate e lasciate perdere, perfino dimenticate.

Uno può ricostruire la propria vita attraverso la storia degli oggetti che ha cercato di mettere insieme. I soldatini, le automobiline, i fiammiferi (rigorosamente con le scatole), figurine di calciatori e ciclisti, di attori e cantanti, i tappi a corona, posacenere, campanelli da bicicletta (o magari solo il loro coperchio), francobolli, monete, bicchieri, piatti editi in particolari occasioni, numeri speciali della Gazzetta dello Sport, dischi (anche copertine di dischi). Un balzo nell’infinito.

Da qualche parte, in uno scatolone o nel fondo di una libreria, dorme la mia collezione di miniassegni (quegli straccetti di carta diventati un cult in tempi di penuria di moneta) messa assieme con infinita pazienza.

E le cravatte, naturalmente. Ho indossato reggimenti di giacche e soprabiti, legioni di camice, eserciti di pantaloni: tutti gloriosamente vissuti e consumati. E poi smessi e buttati. Ma le cravatte no. Accumulate senza speranza di poter mai rivedere la luce in scatole appositamente predisposte, ognuna con un ricordo appiccicato sopra: comperata a, regalata da, target del club sportivo di, scambiata con.

Io possiedo una infinità di cravatte rugbistiche e conosco gente che si svena nel nome di una raccolta infinita la quale mette assieme oscuri club della palla ovale sudafricana e neozelandese a gloriose squadre inglesi e francesi. Gazzelle, leoni, scoiattoli, volpi, ricci, aquile reali e via costruendo bestiari, formano il più incredibile giardino zoologico che sia dato immaginare. Da esibire sul petto.

Detto per inciso. Questi collezionisti appartengono ad una specie estremamente pericolosa. A loro non si può mai confidare di essere in partenza per un viaggio: ti chiederanno di procurargli quella certa cravatta.

Del resto questa è cosa nota, un malessere inestirpabile, un virus mutante che aggredisce ogni tipo di collezionista, che si adatta ad ogni situazione. Ogni volta che esco dall’Italia, mio figlio Guido (sì, quello dei film di Totò) mi dice che vuole quella certa maglia, di quella certa squadra, col nome di quel certo giocatore.

Una condanna senza appello. Ma gioiosamente affrontata, perchè un collezionista è soprattutto un collezionista. Una tautologia che spiega poco ma spiega tutto. Nel senso che con un collezionista non si può mai discutere.

Elenco da chiudere? Sì forse, ma bisogna spendere almeno una parola sulle collezioni, come dire?, stagionali. Egle ed io collezioniamo minipresepi. Natività grandi pochi centimetri quadrati. È una collezione grandiosa, senza fondo, senza confini alla fantasia.

Sì, io ho una mia collezione, lei ha una sua collezione, come coppia abbiamo la nostra collezione. In qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi mese dell’anno, noi siamo Re Magi. Cerchiamo il bambinello nella mangiatoia.

Il collezionista, infatti, non conosce stagioni. Per lui può essere Natale anche durante le vacanze di Pasqua. Ogni volta che acquisto un minipresepio mi viene in mente un mio amico che colleziona le palline di vetro soffiato che si appendono all’albero di Natale.

Un niente colorato e rutilante. Lui è un poeta e dice che le palline lo fanno riflettere sulla fragilità dell’esistenza umana.

Ho finito con le cose che colleziono?

Sì. O meglio, quasi.

Il “quasi” mette barbe e radici nel Far West della mia infanzia: si estendeva nelle campagne degli zii e dei nonni. Ogni oggetto aveva una dimensione mitica. La falce e la cote per farle il filo, la sgranatrice per le pannocchie, l’esercito ordinato e schierato dei badili sulla rastrelliera, lì nel sottoscala che portava al granaio, il marchingegno a manovella per sbattere il latte e farne burro, la palla di ferro dai lunghi manici per tostare il caffé. Chissà perchè, a me è rimasto impiantato nell’anima l’armadio dei succhielli.

Vicino alla stalla, spietatamente chiuso da un lucchettaccio, c’era l’armadio in cui stavano appesi gli strumenti per fare buchi di qualsiasi dimensione: trapani, succhielli, verrine, foratoi, menarole, trivelle. Di ogni forma, tipo e misura. Non ricordo che ce ne fosse necessità tale da giustificare un simile armamentario. Ma il fatto è che c’erano. E quando ne vedo uno su quelle bancarelle che ingrumano alla rinfusa pezzacci di ferro usato, lo prendo in mano, controllo che l’occhio sopra lo stelo sia ancora buono, mi immagino il manico che vi introdurrò, e lo acquisto.

Non so perchè, ma lo acquisto.

Il collezionista è uno che non sa mai fino in fondo perchè.

*****

Il collezionista è uno che, da qualsiasi parte vada, ha una domanda in bocca.

Where is a flea market? Ya-t-il un marché aux puces? Dove posso trovare un mercatino delle pulci? E nella sua mente si stratificano memorie, le più diverse. Associate agli oggetti più strani.

Il labirinto del mercato delle pulci di Parigi, dove c’è tutto, proprio tutto. Con alla fine la sensazione angosciosa di quello che non si è riuscito a vedere. La botteguccia in cui non si è entrati, il corridoio non percorso, il vicoletto non esplorato.

Il mercatino di Berlino: solo la prima domenica del mese, in fondo alla Strasse des 17 Juni, il viale sconfinato (anche in larghezza) che ha visto le grandi parate militari di Hitler, lasciandosi alle spalle il verde del Tiergarten e le porte maestose di Brandeburgo. Esibisce una infinita, variegata raccolta di reperti dell’epoca sovietica. Archeologia dell’ieri.

Nella strada principale di Turku, l’antica capitale della Finlandia, un rigattiere ha mille cose incredibili nelle stanzucce-labirinto di una casa museo. Lì ho acquistato due macinini da muro in ceramica di stile liberty. Mai visti, da togliere il fiato.

Il mercatino di Amsterdam, sulla strada che conduce verso la piazza dedicata a Rembrandt, resta nella memoria per un oggetto replicato in migliaia di fogge diverse: le pipette per fumare ogni cosa più pesante del tabacco. Sorprendente scoprire quanti modi hanno una cannuccia e un fornello di stare insieme. Da un euro in su, all’infinito. Ma una bancarella d’angolo ha, in un saccone, decine e centinaia degli stampini che un tempo servivano a imprimere disegni su ogni tipo di tessuto. Da perdersi.

Il collezionista è uno che ama perdersi, talora smemorarsi.

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Perdersi: a Budapest si rischia davvero. Il mercatino delle pulci si trova a Hàtar Ut, un piccolo quartiere recintato come una roccaforte -la sensazione è che vi si facciano anche ben altri affari- nella periferia estrema della città, almeno tre autobus da prendere. Si ha la sensazione di trovarsi in un posto ai confini del mondo.

Immagini di un film infinito. Ogni mercatino si assomiglia ed è diverso. Si contratta sempre, in ogni parte del mondo, la lingua non importa. Gesti e mimica bastano e avanzano. E poi le situazioni cui uno non crederebbe mai.

Svolvær, Norvegia, la piccola capitale dell’arcipelago delle isole Lofoten. Nel fulgore del sole che dura tutto il giorno, le scogliere hanno riflessi d’oro e i gabbiani vengono a mangiare quasi tra le mani i resti del pesce appena cucinato sulla brace, in riva al mare. Qui vicino c’è un rigattiere che esibisce tutti gli oggetti della vita locale. Compreso un macinino di una foggia strana, a campanile, che ho visto solo da queste parti.

Rigattiere? Mai più. All’ingresso c’è una signora che parla un perfetto francese e ci invita a girare per i locali. Io adocchio il mio macinino, lo prendo in mano e lo porto alla cassa.

Per sentirmi dire con un sorriso divertito: “Mais celui-ci c’est un musée, monsieur.” Scopro di colpo di essere in un museo della civiltà isolana e soprattutto che non avrò il mio macinino a forma di campanile.

Posso lasciare la Norvegia con un simile rimpianto? Mai più, ma se non si trova…

Se non si trova, può succedere l’incredibile. Nell’ultimo giorno di Norvegia, dall’autostrada per Malmö dove ci attende il traghetto, Egle vede un negozietto distante e una vetrina. Individua il graal agognato con un colpo d’occhio oltre le possibilità umane. Entro, felice, e mi metto a girare tra espositori e vetrine, senza far capire cosa davvero cerco. Poi prendo in mano il macinino con fare annoiato (diavolo, proprio uguale a quello del rigattiere-museo di Svolvær) e ho la forza per protestare quando mi dicono il prezzo. Ottengo il little discount, il piccolo sconto, come da liturgia. Per il graal avrei dato l’anima, altro che sconto.

Perchè il collezionista è uno che ha il colpo d’occhio, ma finge sempre di cercare qualcosa d’altro.

*****

A proposito di musei. Due anni fa sono capitato a Sochaux, in Francia, vallata della Doubs. Non per caso, ma per preciso disegno.

Per gli appassionati, questo piccolo borgo, una quarantina di chilometri da Besançon, vuol dire Peugeot con tanto di museo storico. Qui nel 1890 il giovane Armand Peugeot comprese che montando sopra il suo triciclo un motore a vapore non sarebbe andato lontano e si fece convincere da Emile Levassor e Gottlieb Daimler a provare il motore a scoppio. Qui si viene per toccare con mano modelli da archeologia automobilistica dagli ebani lucidissimi e dalle austere tappezzerie o le mitiche monoposto blu. Si viene magari attirati dalla fama dei fantastici ologrammi grazie ai quali ti pare proprio di stare assieme al tenente Colombo, cioè Peter Falk, testimonial della casa automobilistica francese.

Così è chiaro il motivo per cui, quando chiedo alla hostess all’ingresso se c’è, come ho letto nelle guide, una intera sezione dedicata al moulin à café, lei si mette a ridere. Poi mi dice di sì e mi mostra l’ala dedicata ai macinini da caffé. I Peugeot nel 1812, quasi un secolo prima di mettersi a fabbricare macchine, nacquero come fabbricanti di utensili per la cucina. E del resto ancor oggi assemblano quella sorta di icona della loro storia che è il moulin à poivre, il macinino da pepe, fratello minore di quello da caffé.

Sotto gli occhi divertiti della hostess, mi gusto l’intera serie dei macinini da muro in ceramica dedicata alle province francesi.

Perchè il collezionista è uno che ribalta le priorità e sfata i luoghi comuni.

Questa è un po’ la sua fragilità (tra desiderio e ciò che può permettersi) ma, per paradosso, anche la sua forza.

Per la cronaca. Io, di quella preziosa serie in ceramica sono riuscito con infinite peripezie (e svenandomi) a procurarmi la sola Provenza. Una filiforme damina che porge un fiore al suo uomo a cavallo, pronto ad accudire alla mandria. Opera d’arte assoluta.

Sogno, come tutti, di trovarne un altro esemplare a pochi euro. E provo la gioia, tra due oggetti, di sceglierne uno consacrando l’altro al dio della rinuncia. Sublimo al progetto della prossima volta.

Risulta evidente che il collezionista è, a suo modo, un asceta.

*****

Questo libro nasce dall’esperienza del curioso.

Giro sempre con la mia macchina fotografica e annoto per immagini.

A Piazzola sul Brenta, nello splendido teatro di villa Pisani, nella rotonda di Badoere, sotto la rocca di ssolo. Nello spiazzo di San Zenone degli Ezzelini, nelle vie di Este, Monselice, Thiene, sul viale che conduce al castello di Villafranca, nella piazza degli scacchi di Marostica. Vedo cose che mi piacciono, altre che non conosco. Mi fermo soprattutto da chi vende libri vecchi e trovo cose incredibili, utili ai miei studi e a i miei lavori.

Di recente ho trovato copia del libro su cui ho preparato l’esame universitario di archeologia. Troppo costoso all’epoca. Dovetti studiare sulla copia della biblioteca comunale, dividendolo con altri.

La signora che lo teneva sulla bancarella mi ha fatto un prezzaccio “perchè c’erano dei segni di matita”, qualcuno che ci aveva studiato. Esattamente come me. Odio i libri segnati a penna, un sacrilegio, ma i tratti di matita indicano che quel libro ha vissuto ed è stato rispettato. I segni di matita me lo avevano reso bellissimo, un tuffo nel mio passato.

Ho riscattato quello studiare in prestito e in comproprietà di tanti anni fa, me lo sono portato a casa. Mi piacciono le bancarelle con numeri vecchissimi della Domenica del Corriere e di altre riviste. Le tavole di Achille Beltrame, di Walter Molino, di Marcello Dudovich mi aiutano a dare volto ed anima alle vicende che racconto nei miei romanzi e nelle mie pièce teatrali: uno svolazzare di vestiti, un gesto, un oggetto, un evento, un colore. Il refolo di acqua di colonia mi è facile immaginarlo. L’intelligenza si illumina.

Tutto buono, tutto da incamerare e memorizzare. Non c’è nulla di più utile dell’inutile. E niente è più nuovo e moderno dell’antico.

Le foto (più che foto, annotazioni, ripeto) sono diventate archivio e ora si fanno libro. Per ricordare, suggerire, invitare.

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