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Paradiso Canto XII

PARADISO

CANTO XII

(Treviso, Fondazione Cassamarca

Palazzo dell’Umanesimo Latino,

25 maggio 2006)

  

Vorrei proporvi, in apertura, questa densa, articolata, suggestiva similitudine relativa al canto XII del Paradiso che trovo nel commento di Tommaso di Salvo a questo passaggio del poema. Teniamo fin da ora presente che il canto va analizzato, per così dire, in coppia con quello che lo ha preceduto, l’XI, tutto imperniato sulla figura di san Francesco. Dopo la celebrazione del santo di Assisi recitata da san Tommaso, tocca a san Bonaventura cantare le lodi di san Domenico.

“Se si volesse trovare nel Duecento un corrispettivo figurativo a questi due canti (dedicati a due grandi santi che incisero profondamente nel tessuto teologico e morale della cristianità occidentale) si dovrebbe pensare ad un dittico (che potrebbe anche essere un trittico, se al centro si pone l’immagine della Chiesa per la cui salvezza i due santi si impegnarono): uno di quei dittici in cui oltre alle figure imponenti dei due santi, specialmente nella parte inferiore del quadro, nella predella, si svolgono e fissano gli episodi più rilevanti e significativi che contrassegnarono l’esistenza dei due protagonisti. Coerente con questa impostazione figurativa, Dante non solo creò due grandi ritratti dei due santi, non solo li definì attraverso alcuni episodi, non solo li vide uno accanto all’altro in una corrispondenza simmetrica, analogica, di azioni e di pensieri, ma li vide campeggiare come i santi delle pale d’altare, grandi, potenti, efficaci, incisivi”.

Facciamo tabula rasa nella nostra mente e dipingiamo assieme al nostro pittore del Ducento: sappiamo che ci aspetta una simmetria insistita, fin troppo forse. Identica la struttura e identico il procedimento: come per Francesco, anche per Domenico ci vengono proposti luogo e tempo della nascita. E poi Domenico sposa la Fede così come Francesco aveva sposato madonna Povertà. E, per correre alla conclusione, san Bonaventura biasima i suoi confratelli, corrotti e lontani dal solco tracciato da Francesco. Ma la simmetria è soprattutto ideologica. Francesco e Domenico sono i campioni di Dio attraverso i quali storicamente si fa la proposta di Dante contro la corruzione dei tempi di cui è segno visibile le decadenza dei due grandi ordini da essi fondati. Urge una lotta dura e serrata contro la corruzione: non saranno certo la curia romana e il papa a condurla, in un quadro di generale disfacimento dei valori che si completerà nel canto XXII in cui anche l’ordine benedettino riceve una dura, inappellabile reprimenda. I grandi ordini monastici non sanno più distinguere tra spirituale e temporale: nati con lo statuto di astenersi in ogni modo e con ogni mezzo dal perseguire fini temporali, hanno tradito origini, fede, saggezza, missione e sono di giorno in giorno sempre più impaniati nella dimensione del temporale.

Facciamo ancora uno sforzo di immaginazione per ricreare nella nostra mente il panorama paradisiaco, drammatico e insieme commovente e suggestivo, che si dispiega agli occhi di Dante e di Beatrice. Siamo nel quarto cielo, il cielo del Sole nel quale, per accogliere Dante ed esercitare la loro funzione didattica e magistrale, si sono stanziati in queste ore del viaggio dantesco gli spiriti sapienti. Ricostruiamo questa coreografia potente e straordinaria. Appena entrato nel cielo del Sole, Dante è circondato da una corona di dodici beati, simile all’alone che circonda la luna quando l’aria si satura di vapore. La colonna sonora è quella di un canto sublime, inaccessibile al linguaggio umano, la voce narrante è quella di Tommaso d’Aquino che presenta le pietre preziose di quella corona. Tra gli altri Salomone, Severino Boezio, Isidoro di Siviglia, Sigieri di Brabante. Il regista è invisibile e fa compiere, prima delle parole di Tommaso, tre giri di danza alla corona. La danza e il canto riprendono dopo le sue presentazioni.

Al nuovo fermarsi del movimento circolare della corona, Tommaso d’Aquino tratteggia la storia e la parabola esistenziale di san Francesco, dipingendo a tinte fosche il quadro della corruzione e della decadenza che ora attraversano i grandi ordini monastici: il dire di Tommaso culmina nel paradigma in cui è scolpito e inciso il quadro di ogni gregge che si sparpaglia nei pascoli e trascura il buon nutrimento: u’ ben s’impingua, se non si vaneggia[1].

Di recente mi sono letto la vita di san Francesco scritta dal suo più autorevole biografo Tommaso da Celano e ne ricavo un episodio piccolo che però dice molto. Nel 1209 Ottone IV di Brunswick si reca a Roma per essere incoronato imperatore da Innocenzo III. Dietro ha un interminabile, ricchissimo, impressionante seguito: dignitari, servi, cortigiani, cavalieri, uomini in arme, intellettuali, vassalli, tributari. Passa attraverso Assisi e per le genti umbre è una sorta di ottava meraviglia del mondo, lo spettacolo più incredibile che possa capitare sotto gli occhi di un uomo durante una vita intera. Transita per Rivotorto dove vive Francesco con i suoi discepoli, in alcune casupole, a due passi dalla strada. Il santo ha 27 anni e sta elaborando la regola del suo ordine: non esce nemmeno a vedere il corteo e ordina ai suoi compagni di fare come lui. Un segno preciso del distacco da tutto ciò che è terreno. Quando scrive a Ugolino di Segni che nel 1227 salirà al soglio pontificio assumendo il nome di Gregorio IX, gli chiede espressamente di operare perché nessuno dei suoi frati ottenga prebende, cariche, benefici all’interno della Chiesa. E, prima ancora, quando la regola diventa parola scritta dice chiaramente che i frati non devono avere alcuna “potestà o dominio, soprattutto fra di loro”.

Quando Dante parla di principi traditi, sa quello che dice perché ha sotto agli occhi uno spettacolo degenerato. E quando ripropone in questi termini la figura di Francesco, sa bene che il santo di Assisi ha attraversato la storia della Chiesa e in essa rimane sostanzialmente come un eretico, come una spina impiantata nel fianco, come coscienza critica e dolorante.

E questo è il clima morale in cui abbiamo letto il canto XI del Paradiso e ci accingiamo ora a leggere il XII.

Dante, dunque, è il centro, in qualche modo il perno, di questa corona rotante. Appena san Tommaso smette di parlare, la santa corona (qui chiamata mola come una macina di mulino) riprende a ruotare, ma gli spiriti che la compongono non hanno ancora compiuto un giro che una nuova corona circonda la prima accordando i due movimenti e i due canti. La coreografia si amplifica ulteriormente, soverchia le capacità di comprensione umana, sembra quasi che tutto l’universo si sia radunato là e giri intorno a Dante, davanti ai suoi occhi. Il canto supera quello dei maggiori poeti e perfino quello mitico delle sirene quanto la luce del primo splendor, del sole cioè, supera in luminosità la luce che riflette.

 

Sì tosto come l’ultima parola

la benedetta fiamma per dir tolse

a rotar cominciò la santa mola;

 

e nel suo giro tutta non si volse

prima ch’un’altra di cerchio la chiuse

e moto a moto e canto a canto colse;

 

canto che tanto vince le nostre muse,

nostre serene in quelle dolci tube,

quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.[2]

 

È un panorama consueto per il lettore del Paradiso con queste immagini, similitudini, espressioni che nascono dalla luce e dal canto, indizi della beatitudine celeste. Il canto qui è privilegiato. Era già accaduto con san Francesco perché il canto vuole essere segno fisico della felicità, della condizione di distacco di queste anime beate ormai così superiori alla limitatezza delle loro e altrui esperienze terrene.

Ma subito dopo Dante riprende ed enfatizza l’elemento luministico. Le terzine che ci accingiamo a leggere sono un piccolo capolavoro di retorica e anche un piccolo gioiello culturale in cui si fondono in una unità che non è solo formale ma profonda e sostanziale, elementi che pertengono alla cultura pagana ed elementi della cultura giudaico-cristiana. Qualche parola di parafrasi. Come, nel momento in cui Giunone ordina alla sua ancella Iride di scendere sulla terra, attraverso una nube sottile formano un arco due arcobaleni paralleli e degli stessi colori; e come, tra i due arcobaleni quello esterno si forma da quello interno allo stesso modo in si forma la voce di Eco, la fanciulla costretta a vagare raminga per amore e dall’amore consumata come il sole scioglie i vapori; come questi arcobaleni annunciano all’uomo che il mondo non sarà più inondato in virtù del patto stretto tra Dio e Noè; insomma come due arcobaleni, le due corone, rose mai destinate ad appassire, ruotavano intorno, quella esterna accordandosi al canto di quella interna.

 

Come si volgon per tenera nube

due archi paralleli e concolori,

quando Iunone a sua ancella iube,

 

nascendo di quel d’entro quel di fori,

a guisa del parlar di quella vaga

ch’amor consunse come sol vapori,

 

e fanno qui la gente esser presaga,

per lo patto che Dio con Noè puose,

del mondo che già mai più non s’allaga:

 

così di quelle sempiterne rose

volgiensi circa noi le due ghirlande

e sì l’estrema a l’intima rispuose.[3]

 

Rimaniamo perfino storditi. Due corone come due arcobaleni, ma anche come il generarsi dell’eco. E, a connettere, una perifrasi tratta dalla materia mitologica greca, con Giunone e Iride, e poi il richiamo del patto intervenuto tra Dio e Noè alla fine del diluvio. Si potrà rimproverare a Dante una elaborazione forse troppo fine di materiale sparso e perfino una qualche enfasi, non certo incapacità di fondere elementi diversi in un corpo unico e compatto.

Questo fluire di metafore e immagini si propaga alle terzine che seguono in cui vediamo ancora muoversi al ritmo di una danza celeste le due ghirlande e le sentiamo cantare. Ad un certo momento dalla corona più esterna si leva una voce e Dante è indotto a girarsi verso il punto da cui essa proviene con la subitaneità con cui l’ago della bussola si orienta verso la stella polare.

È la voce del francescano san Bonaventura da Bagnoregio, come sapremo tra poco, che esordisce con enfasi commossa e ci ricorda quello che già sappiamo dal canto precedente: dove si parla di Francesco, è giusto, doveroso, utile parlare anche di Domenico. Hanno combattuto per la stessa causa, ora debbono essere accomunati anche nella gloria.

 

…«L’amor che mi fa bella

mi tragge a ragionar de l’altro duca

per cui del mio sì ben ci si favella.

 

Degno è che, dov’è l’un, l’altro si induca:

sì che, come’elli ad una militaro,

così la gloria loro insieme luca.[4]

 

Abituiamoci a questa terminologia militare che d’ora in poi sarà dominante. Ecco infatti l’esercito di Cristo che richiese, per essere riarmato, il sacrificio grande del sangue di Cristo, muoversi a disagio, fiacco, attraversato da dubbi dietro la sua insegna, la croce.

 

L’essercito di Cristo, che sì caro

costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna

si movea tardo, sospeccioso e raro,

 

quando lo ’mperador che sempre regna

provide a la milizia, ch’era in forse,

per sola grazia, non per esser degna;

 

e, come è detto, a sua sposa soccorse

con due campioni, al cui fare, al cui dire

lo popol disvïato si raccorse.[5]

 

Serbiamo nella memoria le parole del domenicano san Tommaso quando celebra il luogo in cui è nato Francesco, con quella lunga, insistita, elaborata similitudine per la quale Assisi diventa l’Oriente da cui nasce il nuovo sole. Ed eccoci trasportare in un minuscolo paesino della Castiglia, Calaruega. La casa reale di Castiglia aveva, come ci ricorda Dante, uno stemma inquartato con due leoni e due torri. Dalla Spagna si leva il dolce Zeffiro che a primavera fa germogliare le piante in tutta Europa. I venti vivificatori sorgono vicino alle spiagge dell’oceano Atlantico dietro le quali va a tramontare durante il solstizio d’estate il sole, affaticato dal lungo percorso.

 

In quella parte ove surge ad aprire

Zefiro dolce le novelle fronde

di che si vede Europa rivestire,

 

non molto lungi al percuoter de l’onde

dietro a le quali, per la lunga foga,

lo sol talvolta ad ogni uom si nasconde,

 

siede la fortunata Calaroga

sotto la protezion del grande scudo

in che soggiace il leone e soggioga:

 

dentro vi nacque l’amoroso drudo

de la fede cristiana, il santo atleta

benigno a’ suoi e a’ nemici crudo

 

e come fu creata, fu repleta

sì la sua mente di viva vertute,

che, ne la madre, lei fece profeta.

 

Poi che le sponsalizie fuor compiute

al sacro fonte intra lui e la Fede,

u’si dotar di mutüa salute,

 

la donna che per lui l’assenso diede,

vide nel sonno il mirabile frutto

che uscir dovea di lui e de le rede;

 

e perché fosse qual era in costrutto,

quinci si mosse spirito a nomarlo

del possessivo di cui era tutto.

 

Domenico fu detto; e io ne parlo

sì come de l’agricola che Cristo

elesse a l’orto suo per aiutarlo.[6]

 

Eccolo il contadino che Dio scelse per aiutarlo a dissodare il suo orto, il suo campo. Chiamato con vari appellativi, come abbiamo sentito: innamorato amante, santo atleta, amico dei credenti, nemico degli infedeli. Privilegiato anche: ancora nel grembo di sua madre ebbe un così straripante dono di sapienzialità che la donna ne fu, se si può dire, contagiata. Fu invasa da spirito profetico e, come sappiamo da Teodorico d’Apolda, il biografo di Domenico che Dante consulta, sognò che avrebbe partorito un cane bianco e nero (che sono i due colori del saio domenicano) con una fiaccola in bocca destinata ad incendiare il mondo intero. Ecco il battesimo, in realtà il matrimonio con la Fede ed ecco la madrina che, come ci racconta sempre Teodorico, sognò che sulla fronte del neonato era incisa una stella: la stella che guida, la stella polare. Forse quell’accenno all’ago della bussola di cui abbiamo letto, non è casuale.

E tuttavia è certo che questi sono passaggi piuttosto freddi, necessitati dall’obbligo di rispettare il parallelo con Francesco. Quanto più mosso, più drammatico e ad un tempo più gioioso, quanto più coinvolgente il matrimonio di questi con madonna Povertà. Comunque fu chiamato col possessivo, cioè con quel Domenico che sta a significare uomo del Signore. Infatti

 

Ben parve messo e famigliar di Cristo.

chè ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,

fu al primo consiglio che diè Cristo.

 

Spesse fïate fu tacito e desto

trovato in terra da la sua nutrice,

come dicesse: “Io son venuto a questo”.[7]

 

Quel primo consiglio dato da Cristo è senza dubbio la povertà, nel rispetto per la simmetria con Francesco. E del resto che fosse davvero così lo testimoniano i biografi. Domenico si privava di ogni cosa e, durante una carestia, non avendo denaro e scorte di cibo con cui provvedere ai poveri, vendette i suoi amati libri di studio per ricavare un po’ di denaro. E un altro biografo, Vincenzo di Beauvais, ci attesta l’episodio riferito da Dante: spesso, ancora tenerissimo infante, abbandonava il suo letto, ne aveva in odio morbidezza e comodità, si stendeva sulla nuda terra.

 

Oh padre suo veramente Felice!

oh madre sua veramente Giovanna

se, interpertata, val come si dice.[8]

 

Il Dante che conosce e condivide le Derivazioni di Uguccione di Pisa, trova e avalla le corrispondenze tra nomi e reali caratteri delle persone che tali nomi portavano. Felice il nome del padre, e di Giovanna sapeva che il significato, in ebraico, era (lo leggeva sempre in Teodorico d’Apolda) grazia del Signore.

Domenico diviene un acutissimo teologo: alla teologia si applicò con lo stesso fervore con cui altri uomini si applicano agli studi giuridici e alla medicina. Se ci ricordiamo, in apertura del canto di Francesco Dante aveva detto: Chi dietro a iura e chi ad amforismi[9]. Qui stesso concetto e, ovviamente, perifrasi diverse. Gli studi giuridici sono individuati attraverso la figura di Enrico di Susa (che Dante chiama Ostïense perchè fu vescovo di Ostia) e quelli medici attraverso Taddeo d’Alderotto fiorentino, fondatore della scuola medica di Bologna e autore di testi consultatissimi.

Poi Domenico lavora indefessamente alla vigna del Signore, come dice Dante. Espressione vaga con cui forse si indica la militanza del santo spagnolo contro l’eresia albigese tra il 1205 e il 1214. Ed ecco infatti lo spirito indomito e combattente di Domenico. Alla sede pontificia (corrotta non come istituzione ma per colpa del malaffare dei papi) non chiede prebende, non chiede il godimento delle decime che in realtà spetterebbero ai poveri, non chiede benefici, ma solo di combattere per la fede.

 

…ma contro al mondo errante

licenza di combattere per lo seme

del qual ti fasciano ventiquattro piante.

 

Poi, con dottrina e con volere insieme,

con l’officio appostolico si mosse

quasi torrente ch’alta vena preme;

 

e ne li sterpi eretici percosse

l’impeto suo, più vivamente quivi

dove le resistenze eran più grosse.

 

Di lui si fecer poi diversi rivi

onde l’orto catolico si riga,

sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.[10]

 

È certo il passaggio più alto e convincente del canto. Qui il lessico militaresco, per così dire, si amplia, si apre e trova nuova espansione in insiemi linguistici che appartengono all’acqua, alla fecondità, alla crescita, al germinare. Qui il cavaliere armato delle armi che gli sono proprie (e che, verrebbe da sottolineare, si è costruito e forgiato in un lungo cammino di approccio alla sua missione), vale a dire lo zelo e la cultura, diventa fiume che si ingrossa e travolge la sterpaglia cresciuta sul letto del grande fiume che attraversa la storia, la Chiesa cioè. La sterpaglia è l’eresia stessa, pianta inaridita dalla mancanza di humus e alimento. Ed ecco i rivi che derivano da lui e gli arbuscelli diventare più vigorosi. Sono rispettivamente i suoi seguaci e i suoi fedeli.

Qui il canto esaurisce la sua prima macrosequenza, la storia e il ruolo di san Domenico. Adesso abbiamo alcuni versi di raccordo in cui prevale ancora la terminologia militaresca. Dante introduce, con qualche ambiguità di senso, l’immagine di una biga di cui Francesco e Domenico sono state le due ruote. La biga, che ha affrontato e continua ad affrontare in campo aperto i nemici della fede, potrebbe essere rappresentazione della forza congiunta dei due ordini oppure la Chiesa stessa. Ma è evidente, più in generale, che i versi servono a Dante per passare al secondo, grande nucleo tematico del canto. La polemica contro i francescani che hanno tradito l’originario statuto di povertà. Continuando l’immagine della biga, Dante ci dice che il solco segnato dalle ruote è stato abbandonato e, con ulteriore metafora, aggiunge che nella botte del vino francescano, la gromma, il sedimento che garantisce la bontà del vino stesso, è diventata muffa.

 

La sua famiglia, che si mosse dritta

coi piedi a le sue orme, è tanto volta,

che quel dinanzi a quel di retro gitta;

 

e tosto si vedrà de la ricolta

de la mala cultura, quando il loglio

si lagnerà che l’arca gli sia tolta.

 

Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio

nostro volume, ancor troveria carta

u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i soglio”;

 

ma non fia da Casal né d’Acquasparta,

là onde vegnon tali a la scrittura,

c’uno la fugge e altro la coarta.[11]

 

Dunque l’ordine francescano segue sì le orme del suo fondatore, ma alla rovescia, mettendo la punta del piede dove Francesco metteva il calcagno. Verso un po’ arzigogolato e di difficile interpretazione, anche se il senso generale è chiaro, e che preannuncia una terzina tormentatissima anche perché non si capisce se Dante faccia riferimento a fatti particolari o pronunci una generica profezia. Oltre a tutto è chiaro che il poeta non mette sotto accusa una sola ala dei francesani deviati che, come è noto, si erano divisi in spirituali (i radicali, quelli che applicavano in maniera estremistica la regola) e in permissivi. Tra poco apprenderemo che la condanna è per entrambe le ali. Possiamo intendere comunque che i frati corrotti (il loglio, cioè), per gli effetti della cattiva coltivazione, saranno esclusi dal granaio o, forse, dal regno dei cieli.

E aggiunge, san Bonaventura: chi girasse per i nostri conventi ed esaminasse i frati ad uno ad uno, magari troverebbe qualcuno in grado di affermare in buonafede “io sono fedele alla regola” ma di sicuro costui non proviene né da Casale né da Acquasparta. Allusioni evidenti e chiarissime: la prima è per Ubertino da Casale, francescano cacciato dall’ordine e approdato a quello benedettino. Era diventato tanto intransigente da proclamare, in modo ben più radicale di Dante stesso, che Bonifacio VIII era l’Anticristo Mistico, il diavolo fatto papa per attuare un piano metodico di allontanamento dei cristiani dalla fede e la dissoluzione della Chiesa stessa.

L’altra allusione è per Matteo d’Acquasparta, che fu anche generale dell’ordine francescano e cardinale. Tra il 1300 e il 1301 fu in Firenze: ufficialmente come paciere tra Neri e Bianchi favorendo però nettamente i primi. Ma la sua colpa principale fu quella di spingere verso la ricchezza e la potenza del suo ordine, pur profferendo a voce ipocriti richiami alla povertà.

Siamo alla fine del dire di Bonaventura, il quale finalmente dice il proprio nome e presenta le altre undici anime che compongono la ghirlanda.

Ecco Illuminato da Rieti e Agostino di Assisi, due tra i primi che seguirono Dante. Non sappiamo quasi nulla di loro ma di Agostino ci è stato tramandato che ebbe il privilegio di morire assieme a Francesco. Ed ecco Ugo di San Vittore, fondatore della corrente mistica e autore di testi fondamentali per la cultura religiosa medievale; con lui sono Pietro Mangiadore, autore di un commento allegorico alla Bibbia e così chiamato perché divoratore di libri, e Pietro Ispano, nato a Lisbona, autore di testi di logica e papa per pochi mesi tra il 1276 e il 1277 col nome di Giovanni XXI..

Poi un profeta contemporaneo di David, Natan; san Giovanni Grisostomo, dalla splendida eloquenza come suggerisce il suo nome, metropolita di Costantinopoli, Anselmo d’Aosta, il teologo autore del celebre argomento ontologico dell’esistenza di Dio; e ancora il grammatico latino del IV secolo Elio Donato sui cui scritti secoli di uomini colti italiani (Dante compreso) hanno imparato il latino.

Quindi brillano le luci di Rabano di Magonza, il dotto enciclopedista vissuto tra l’VIII e il IX secolo, e del famosissimo Gioacchino da Fiore, il calabrese fondatore di un ordine monastico e autore di molte opere di commento biblico tra cui l’esegesi dell’Apocalisse interpretata in chiave profetica.

Gioacchino fu considerato eretico e i suoi seguaci perseguitati. Tuttavia non è casuale l’onore e la fama che qui, in questo quarto cielo, Dante gli attribuisce. Centrale alla meditazione di Gioacchino è infatti l’idea di una Chiesa da riformare, una riforma prossima a venire, grazie a personaggi di particolare carisma. È, il suo, lo stesso atteggiamento del poeta che apre il poema con l’immagine del veltro riformatore. Con il calavrese abate Giovacchino/ di spirito profetico dotato[12] e con il posto di rilievo, quasi una culminazione dell’elenco, che Dante gli assegna, si chiude la teoria delle dodici anime. Altri incontri attendono il poeta.

Conclude: a indurmi a esaltare san Domenico, paladino della Chiesa, e a spingere i beati che sono qui miei compagni ad associarsi nella lode, sono stati lo zelo ardente e l’eloquio chiaro di san Tommaso. E anche se Domenico ci appare un po’ sbiadito accanto al faro che è la personalità di Francesco, noi dobbiamo dire, magari prendendo a prestito le parole di Bonaventura che pochi santi si prestano ad essere così chiaramente rappresentativi dell’ideologia dantesca.

 

Ad invegghiar cotanto paladino

mi mosse l’infiammata cortesia

di fra Tommaso e ’l discreto latino

 

e mosse meco questa compagnia».[13]


 


[1] Pd, XI, 139

[2] Pd, XII 1-9

[3] Pd, XII 10-21

[4] Pd, XII 31-36

[5] Pd, XII 37-45

[6] Pd, XII 46-72

[7] Pd, XII 73-78

[8] Pd, XII 79-81

[9] Pd, XI 4

[10] Pd, XII 94-105

[11] Pd, XII 115-126

[12] Pd, XII 140-141

[13] Pd, XII 142-145

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