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Paradiso Canto XI

PARADISO

CANTO XI

( Treviso, Fondazione Cassamarca

Palazzo dell’Umanesimo Latino

10 marzo 2004

 

 

Quidni? Nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? Nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub celo, ni prius inglorium ymo ignominiosum populo florentineque civitati me reddam?”[1] (“E dunque? Forse che non potrò osservare la luce del sole e degli astri in qualunque parte del mondo mi venga a trovare? E forse che in qualunque parte, sotto il cielo, non potrò indagare le dolcissime verità, senza dover prima restituire me stesso, senza più gloria e indegno del mio nome, all’abietto popolo e alla città di Firenze?”).

Trovo queste illuminanti parole in conclusione di uno straordinario testo dantesco, l’epistola (dodicesima e penultima nel tradizionale ordinamento delle lettere di Dante) che egli scrisse ad un non bene identificato amico fiorentino, quando, dopo quasi tre lustri di esilio, Firenze aveva proclamato il decreto che toglieva il bando ai fuoriusciti i quali fossero disposti a pagare un’ammenda. Si tratta del testo che di fatto sancisce la definitiva scelta di esulanza da parte del poeta fiorentino il quale mai potrà accettare l’implicita ammissione di colpa che comporta il pagamento di una somma di denaro (che del resto non possiede). Lui a Firenze non tornerà mai se non si troverà una strada “que fame Dantisque honori non deroget”. In quel caso, certo, tornerebbe di corsa (“non lentis passibus acceptabo”). E del resto, conclude, -ci pare quasi di vederlo scrollare le spalle- un boccone di pane non gli mancherà mai (“nec panis deficiet”).

Ho deciso di partire da qui perché in questa conversazione, più che percorrere in modo didascalico il canto, peraltro notissimo, in cui Tommaso, nel segno della sua formazione aristotelico-razionalista, esalta il mistico Francesco, vorrei esaminare il clima nuovo che Dante circoscrive e la profonda modificazione della sua proposta culturale.

Dunque dovrò ampiamente rifarmi al canto X e tenere in qualche modo in sottofondo il canto XII che dell’XI costituisce una continuazione perfettamente simmetrica e nel quale Bonaventura da Bagnoregio, pensatore di impronta mistico-agostiniana e di fatto molto vicina al platonismo, ci parla di san Domenico. Cercherò soprattutto di decodificare il complesso tessuto simbolico su cui questi canti sono strutturati.

Dunque ogni posto del mondo va bene per ammirare la luce del sole. E, con facile trapasso, Dante ne conclude che ogni posto del mondo va bene per indagare la verità. Dunque luce, metafora della verità, sole, immagine della fonte della verità, cioè di Dio stesso.

Il canto X è appunto quello in cui Dante sale dal cielo di Venere al cielo del Sole. Il cielo della Luna, il cielo di Mercurio e, terzo, il cielo di Venere. Sono i cieli attraversati, nella visione cosmologica tolemaico-aristotelica che Dante fa sua, dal cono d’ombra proiettato dalla Terra. Ombra che ha il suo vertice proprio tra Venere e Sole, quasi a dire che col Sole si sale in una sfera più pura, meno contaminata, più disponibile, se si può dire, a rivelare la verità. Insomma, le scorie terrestri sono alle spalle, l’occhio di Dante, confitto e proteso alla verità, si fa più acuto, più sicura diviene la sua indagine, più franco il suo colloquio con le anime che lo invitano ad attingere da loro, di maggior spessore culturale e di più vasto respiro i problemi che affronta.

Qualcuno ha voluto perfino vedere l’inizio, a questo punto, di una seconda parte della cantica (così come c’erano stati un AntiInferno e un AntiPurgatorio). Il canto X sarebbe il canto proemiale di questa seconda parte e il canto XI l’esordio vero e proprio. Ogni ipotesi è buona, ma da verificare. Quello che è certo è che Dante gioca sulle simmetrie e sulla contrapposizioni come vuole un po’ tutta l’estetica medievale, a partire dall’arte figurativa con le sue immagini a dittico, così usuali e radicate nel modo manicheo -tutto il bene da una parte, tutto il male dall’altra- di vedere la cose da parte dell’uomo medievale. Un esempio per tutti: le allegorie del Cattivo e del Buon Governo che Ambrogio Lorenzetti dipinge nella Sala dei Nove nel senese Palazzo Pubblico, ancora quindici anni dopo la morte di Dante.

A noi viene in mente subito (ci serve a chiarire) una coincidenza non casuale, nel contesto di questa identificazione luce del sole, luce pura, verità rivelata, in continua rivelazione, anzi. Il canto XI è il canto di Francesco il quale si era mosso, nelle sue lodi all’Altissimo, proprio da ”messor lo frate sole”

 

lo qual è jorno, et allumini noi per lui.

Et ellu è bellu et radiante cum grande splendore:

de te, Altissimo, porta significatione. [2]

 

Cogliamo, in questa coincidenza, un segnale. Dante aveva appreso dalla cultura del suo tempo e soprattutto dalle suggestioni francescane, a cercare nella scienza i segni di Dio e ad ammirarli, a venerarli. Ora si trova nel cielo del Sole e meglio riconosce i segni dell’ordine divino. Non solo ci ricorda due volte la circolarità dei cieli (il cerchio è simbolo della perfezione), ma circolari sono anche le corone dei beati, l’alone che talora circonda la luna, le orbite delle stelle vicine ai poli, le donne che danzano e ad un tratto si arrestano, ma non sciolgono la loro figura. Stanno solo attendendo le nove note.

 

donne mi parver, non da ballo sciolte,

ma che s’arrestin tacite, ascoltando

fin che le nove note hanno ricolte.[3]

 

Immagine dolcissima e intensa che non a caso ci riporta al clima aurorale della Vita Nuova. E non a caso il canto X si conclude con la perfettissima immagine dell’orologio tutta affidata ad un verso di qualità fonica così eccezionale da non avere uguali:

 

tin tin sonando con sì dolce nota,

che ‘l ben disposto spirto d’amor turge;[4]

 

Il tin tin dell’orologio ci evoca un mondo sonoro e visivo: riporta il canto mattutino, la “mattinata”, come si diceva, dell’amante sotto la finestra della sua bella, immagine lieve della Chiesa che recita il mattutino in gloria di Cristo. Ci riporta la preghiera dei monaci che si levano all’alba e pregano all’unisono. Più ampiamente l’accordo armonico che risulta dalle diverse voci dei dodici beati riuniti in corona è lo stesso sincronico, perfetto muoversi delle ruote dentate di un orologio in cui si riflette il modello culturale di sapienza che Dante culla nel suo animo.

Secondo questo modello, la cultura accetta grande diversità di voci ma le riscatta tutte in un ideale di superiore conciliazione. La misura del cerchio, così ripetuta in maniera quasi ossessiva, serve proprio a imprimere questa idea di perfezione che nasce dalla diversità e non dall’omologazione. Qui cantano  e si muovono dodici spiriti sapienti che conservano intatte, anche se lontane, superate, sublimate, le stimmate sofferenti della loro diversità.

Ma chi sono questi spiriti sapienti? Sono i filosofi che applicarono la loro ragione alla conoscenza della verità e sono i teologi che, per conoscere, cercarono e seguirono la via della fede. Qui si completano, si integrano, entrano uno nei meccanismi dell’altro come le ruote dentate di un orologio.

Come è stato detto, questa è la biblioteca di Dante, i suoi auctores, i primordi culturali da cui muove, gli scrittori e i pensatori che lo hanno formato. Dante fa sua la distinzione di sant’Agostino tra sapienza (che è la conoscenza rivolta al divino) e la scienza (che è conoscenza rivolta all’umano) e tuttavia la supera.

Perché, potremmo spiegare molto semplicemente assieme a lui, in un orologio ogni meccanismo, ogni ruota, ogni ingranaggio è necessario. Ecco Alberto Magno, il maestro presentato dal suo grande allievo (che è san Tommaso, appunto); ecco Graziano, il giurista; ecco Pietro Lombardo il teologo; ecco Salomone, saggio quanto nessun altro regnante; ecco Dionigi Aeropagita, studioso delle gerarchie celesti ed ecclesiastiche; ecco il filosofo Boezio, di cui Dante accoglie la notizia che fosse cristiano; ecco Isidoro e Beda. depositari di un immenso sapere enciclopedicamente sistemato ed esposto nelle loro opere; ecco Riccardo di san Vittore, il grande mistico.

Ed ecco Sigieri di Brabante, il filosofo averroista. Che appare per ultimo nel cerchio della corona e riassume l’atteggiamento culturale di Dante. Ne costituisce in qualche modo la verifica. Spendiamo qualche parola in questa direzione.

Sigieri era nato nel ducato di Brabante attorno al 1225 ed era stato maestro alla Facoltà delle Arti presso l’Università di Parigi. Dante lo conobbe quasi certamente per il tramite del suo grande sodale Guido Cavalcanti. Fu il maggior esponente dell’averroismo latino e professò un aristotelismo radicale che lo portò ben presto in rotta di collisione con l’ortodossia cristiana.

 

essa è la luce etterna di Sigieri,

che leggendo nel Vico de li Strami,

silogizzò invidïosi veri”.[5]

 

 

Cioè: Sigieri, col suo insegnamento in Via della Paglia (vale a dire in rue du Fouarre dove era la facoltà parigina di filosofia) dimostrò coi suoi sillogismi verità che gli procurarono odio.

Chi parla così, chi, con accenti tanto solenni lo definisce etterna luce, è proprio Tommaso che lo combattè aspramente nel suo De unitate intellectus. Battaglia che registrò tali clamori che l’inquisitore francese Simon du Val, dovette convocare Sigieri. Non sappiamo bene se sia andato sotto processo e se sia stato condannato. Certo è che la Curia gli concedette una sorta di libertà vigilata e che, nei primi anni Ottanta, mentre si trovava ad Orvieto, fu assassinato in modo misterioso. Si disse allora, da un chierico al suo servizio. E forse i mandanti erano da ricercare in qualche ordine mendicante proprio da Sigieri duramente avversato.

Solo adesso, solo in questo clima di battaglia composta ma non dimenticata, in questa temperie di pace superiore in cui è evidente che ognuno è portatore di un suo tassello di verità che va ad incastrarsi (l’immagine dei meccanismi dell’orologio ci sorregge più che mai) siamo in grado di capire cosa motiva la presenza di san Francesco, ma soprattutto perché Francesco venga presentato nei modi del canto XI.

Discende da qui, intanto, l’ampio (e famoso) esordio del canto.

 

O insensata cura de’ mortali,

quanto son difettivi silogismi

quei che ti fanno in basso batter l’ali!

 

Chi dietro a iura e chi ad amforismi

sen giva, e chi seguendo sacerdozio,

e chi regnar per forza o per sofismi,

 

e chi rubare e chi civil negozio,

chi nel diletto de la carne involto

s’affaticava e chi si dava a l’ozio,

 

quando, da tutte queste cose sciolto,

con Bëatrice m’era suso in cielo

cotanto glorïosamente accolto.[6]

 

Dove, in buona sostanza, Dante ci dice di aver superato la vanità delle cure terrene, così come Tommaso gli ha fatto apparire i singoli apporti culturali, sempre da recepire l’uno come complemento dell’altro. Insomma, sta ragionando in maniera nuova, sta lavorando con la mente sgombra e pronto ad affrontare un nuovo tema.

E affila, con l’apostrofe che abbiamo appena letta, la spada della polemica. Pronuncerà, nei versi che stiamo per leggere, ancora un durissimo giudizio sulla degradazione della Chiesa, in funzione di questo canto epico delle imprese di Francesco, epos sostenuto da un serrato dinamismo narrativo.

San Francesco (come ha ben analizzato Erich Auerbach che alla figura del santo di Assisi e all’immagine che Dante  ne propone, ha dedicato pagine fondamentali) viene rappresentato in maniera radicalmente autonoma rispetto alla tradizione francescana. Se, come abbiamo ricordato, il Cantico di Frate Sole è ben presente a Dante, qui Francesco non è l’autore del testo sublime. E non è nemmeno il predicatore tribuno dotato di grande mimica, capace di una energia espressiva addirittura travolgente.

Qui Francesco è molto vicino alla visione che ce ne ha dato Iacopone, un mistico che fa del suo corpo l’alveo in cui scorre impetuoso il fiume dell’amore divino.

Un piccolo passo indietro per enunciare brevemente le coordinate del canto. Rivolgiamo lo sguardo di nuovo a Tommaso che riprende a parlare:

 

Tu dubbi, e hai voler che si ricerna

in sì aperta e ‘n sì distesa lingua

lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna,

 

ove dinanzi dissi: “U’ ben s’impingua”,

e là u’ dissi: “Non nacque il secondo”;

e qui è d’uopo che ben si distingua.[7]

 

Dante è rimasto incuriosito da due espressioni che ha usato Tommaso e chiede maggiori lumi. La spiegazione della prima espressione è l’argomento di questo canto, mentre la seconda riguarda il primato della saggezza di re Salomone e sarà spiegata dallo stesso Tommaso nel canto XIII.

U’ ben si impingua, se non si vaneggia[8]: con immagine mutuata da un gregge (“si nutrono bene le pecore che praticano buoni e segnalati pascoli”) Tommaso afferma che ci si arricchisce di grazia divina se non si va alla ricerca di beni terreni. Chi incarna in sé l’autenticità di questa ricerca è Francesco con la sua avventura esistenziale punteggiata da culminazioni folgoranti: soprattutto il matrimonio con la Povertà e la morte sulla nuda terra preceduta dalla impressione delle stimmate.

Francesco, al pari di Domenico nel canto seguente, è dunque la proposta fatta uomo, fatta carne che Dante avanza per contrastare la corruzione contemporanea, che è soprattutto corruzione della Chiesa e che è evidente proprio nella corruzione dei due ordini monastici, i Francescani e i Domenicani.

Dante ce lo ha già detto nell’apostrofe iniziale: la corruzione  nasce dalla ricerca dei beni terreni, soprattutto dal confine sempre più incerto e sempre meno marcato (sicuramente in malafede) tra spirituale e temporale.

Credo che al lettore moderno interessi soprattutto vedere come Dante avanza questa proposta. Cioè, traducendo: quale immagine accredita di Francesco? Come lavora su questo personaggio? Un cenno già è stato fatto. Per dirla con Erich Auerbach, Dante seleziona, Dante rappresenta “solo quello che è più importante per lo scopo e il destino finale, le grandi azioni e i propositi decisivi.”[9]

Insomma Francesco è un eroe, il protagonista di una vicenda epica.

Allora, consapevoli che Dante non sparge mai tracce inutili, andiamo a leggere qualcosa nella biblioteca di cui dicevamo prima. Cominciamo da Isidoro di Siviglia, dottore della Chiesa, vissuto a cavallo tra il sesto e il settimo secolo. Nella sua vastissima opera spiccano i venti Libri di etimologie, in cui raduna tutto lo scibile umano studiando le parole a partire, appunto, dal loro etimo. Quando deve definire il genere epico, Isidoro spiega così: “È chiamato carme eroico perché in esso vengono narrate le imprese degli uomini forti. Infatti sono chiamati eroi gli uomini che per così dire si levano alti nell’aria  e appaiono degni del cielo per la loro sapienza e forza.” Dice proprio così: aerii et coelo digni propter sapientiam et fortitudinem.

Sono esattamente i connotati del nostro Francesco. Ci viene in mente (e qui sicuramente è un modello di Dante) l’Enea virgiliano in cui sapientia e fortitudo si fondono. Dante innova rispetto alla tradizione medievale che teneva distinti i tipi dell’eroe e del santo perché trova in Francesco il personaggio che gli permette di superare questo dualismo. Gli consente anche proprio, per la grandezza e complessità del santo di Assisi, una libertà di manovra capace di superare schemi convenzionali e di proporre l’assoluta novità del personaggio. Si fondono in lui appunto sapientia e fortitudo.

Dante deve in qualche modo tenere ancora distinti i termini quando fa indicare a Tommaso i due principi, cioè i due grandi fondatori di ordini monastici voluti per essere colonna della Chiesa, Francesco, appunto, e Domenico.

 

L’un fu tutto serafico in ardore;

l’altro per sapïenza in terra fue

di cherubica luce uno splendore.[10]

 

Sul modello proposto proprio da Tommaso nella Summa Theologiae[11], Francesco viene assimilato ai Serafini, angeli dell’amore e della carità, mentre Domenico richiama i Cherubini, angeli della sapienza. Questa distinzione tuttavia rimanda alla simmetria della costruzione di questo canto e del canto seguente: il mistico da una parte, il teologo dall’altra.

Ma per il resto Dante lavora espressamente su questa identificazione dell’eroe e del santo. Quasi la pianifica, ci verrebbe da dire.

 

Non era ancor molto lontan da l’orto

ch’el cominciò a far sentire la terra

de la sua gran virtute alcun conforto;

 

ché per tal donna, giovinetto, in guerra

del padre corse, a cui, come a la morte,

la porta del piacer nessun disserra;

 

e dinanzi a la sua spirital corte

et coram patre le si fece unito;

poscia di dì in dì l’amò più forte.[12]

 

La donna per cui Francesco sfida il mondo è naturalmente la Povertà. Qui Dante fa ricorso ad un altro pezzo forte della sua biblioteca, quel Bonaventura da Bagnoregio che farà parte della seconda corona di beati, quella che circonderà Dante nel canto successivo. Bonaventura fu cattedratico di teologia all’università di Parigi e fu costretto a lasciare l’insegnamento quando divenne ministro generale dell’ordine francescano di cui dovette affrontare con energia la grave crisi istituzionale.

Bonaventura fu anche biografo ufficiale di Francesco, di cui raccontò la vita nella Legenda major e nella Legenda minor sancti Francisci: gli episodi qui rievocati sono attinti principalmente dagli scritti di Bonaventura e sono stati resi famosi dalle diverse trasposizioni cinematografiche della vita del santo. Francesco dapprima vende vestiti e oggetti personali per pagare i lavori di restauro della chiesa di san Damiano, poi subisce le ire del padre che lo cita davanti alla corte episcopale e infine si spoglia degli stessi panni di cui è vestito, per indicare il suo abbraccio definitivo alla Povertà. Non solo, ma per indicare che la sua donna è la povertà economica, non certo quella sociale o spirituale.

Rileggiamo le terzine appena citate e soffermiamoci su due espressioni: virtute e in guerra…corse: Francesco è il cavaliere valoroso che scende a torneo per conquistare il diritto a possedere e sposare la sua donna. E, aggiunge Dante, tutta la terra sentì ben presto il benefico apporto del suo valore. Il panorama della sua Umbria natale si allarga a tutto il mondo e Francesco diviene anche il cavaliere errante alla ricerca del suo Graal.

L’atmosfera è mossa e drammatica: la donna che Francesco cerca è disprezzata dagli altri, rifiutata, ripugnata. Francesco ribalta il mondo e corre in guerra per la donna che nessuno vuole e che tutti disprezzano

Il binomio santo/eroe, e dunque anche il binomio sapientia/fortitudo, è ripreso un po’ ovunque nel canto, ne costituisce, per così dire, il tono, la modulazione di fondo. Pensiamo a Francesco che per tutta la vita persegue il riconoscimento ufficiale della sua regola. Una guerra, una battaglia continua: alla fine il riconoscimento diventa una sorta di vittoria personale conseguita sul terreno dopo un estenuante duello.

Ancora: la rievocazione del viaggio compiuto da Francesco in Oriente nel 1219 con il proposito di convertire gli infedeli. Non una crociata affidata alle punte delle spade (questi sono pur sempre i tempi di Innocenzo III e dello stesso Domenico di Guzmàn), ma la convinzione che la parola da sola bastasse a smuovere le montagne. Francesco partì da Ancona con una dozzina di confratelli ma fu ben presto fatto prigioniero dal sultano Malek-al-Kamil che lo trattò perfino con deferenza. La conversione però non avvenne e Francesco decise di tornare. Tuttavia, nel meccanismo teso ad esaltare il santo/eroe, Dante, come sempre quando gli è utile, cambia gli eventi e parla di sete di martiro e di superbia del sultano.

 

E poi che, per la sete del martiro,

ne la presenza del Soldan superba

predicò Cristo e li altri che ‘l seguiro

 

e per trovare a conversione acerba

troppo la gente e per non stare indarno,

redissi al frutto dell’italica erba,[13]

 

Francesco vuole convertire con la parola. Se noi andiamo a leggerci il canto seguente, quello di Domenico, troviamo una proluvie ben maggiore di termini tratti dal mondo militare.

Perché Domenico è il guerriero, colui che porta la verità sulla punta della spada, colui per il quale la causa della fede esige guerra autentica, di sangue.

Là dove, al contrario, Francesco è proprio il cavaliere errante della tradizione cortese, assomiglia a Parsifal o magari a Galgano che ha impiantato da pochi anni la sua spada nella roccia, a Chiusdino, sulle colline della vicina Toscana meridionale. San Galgano muore nel 1181, lo stesso anno in cui nasce Francesco. Forse non è solo una coincidenza, anche perché -per tante analogie- la vita dei due santi è stata accostata.

Quello che è certo è che, come ogni cavaliere errante, Francesco vede continuamente frustrata la sua ricerca. Si vive per cercare il Graal, sapendo che il Graal è irraggiungibile e non lo si troverà mai. È il grande motivo dell’inchiesta, certo il più vitale della tradizione cavalleresca e cortese come dimostreranno molti anni dopo perfino Ariosto e Tasso. Inchiesta, per sua stessa natura, vana e deludente.

Pensiamo a Francesco che si reca in continuazione dal papa per ottenere l’approvazione formale della sua regola. Innocenzo III gliela concede, ma solo orale. Deve tornare da Onorio III che approva con tanto di bolla: è la vittoria, il trionfo dopo un’epica lotta. Ma l’inchiesta non è ancora piena; manca sempre qualcosa, si capisce, non c’è compiutezza in questa richiesta di riconoscimento.

Prima di andare avanti, fermiamoci un momento per dare un’altra occhiata rivelatrice alla biblioteca di Dante. Partiamo dalle due terzine che ci rappresentano Francesco davanti ad Innocenzo III:

 

Né li gravò viltà di cuor le ciglia

per esser fi’ di Pietro Bernardone,

né per parer dispetto a meraviglia;

 

ma regalmente sua dura intenzione

ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe

primo sigillo a sua religïone.[14]

 

Si tratta della traduzione quasi letterale della rievocazione dell’episodio da parte del biografo Bonaventura: “Exposuit suum propositum, petens humiliter et instanter supradictam sibi vivendi regulam approbari”.

Salta agli occhi una cosa: Bonaventura ha detto umilmente, Dante stravolge e dice regalmente. Un commentatore antico di grande intelligenza, il Benvenuto, non ha dubbi e traduce quel regalmente con magnanimiter. Francesco si comporta con magnanimità, non è il santo umile della tradizione. È invece il santo che si consacra tutto alla ricerca di un ideale, che è quello della povertà. Eroe e cavaliere errante, portatore dell’ideale pauperistico in chiara polemica con la corrotta, opulenta e laicissima Chiesa avignonese. Francesco è il combattente venuto a sconfiggere la lupa antica, l’avarizia e l’ingordigia.

Dante affronta il racconto di un san Francesco tanto estraneo alla tradizione francescana con un narrare ampio e drammatico. Se riflettiamo a quel correre prima da un papa e poi da un altro, avvertiamo come esistano di fatto due Chiese parallele, quella ufficiale, traditrice della sua missione, e quella autentica e vitale di Francesco. Per cui l’inchiesta inappagata non può realizzare il suo obiettivo se non viene un sigillo dall’alto, ben diverso dal sigillo papale.

 

nel crudo sasso intra Tevero ed Arno

da Cristo prese l’ultimo sigillo,

che le sue membra due anni portarno.[15]

 

Sono le stimmate, il segno fisico e doloroso di una approvazione superiore. L’imitazione di Cristo fu l’ideale esistenziale di tutte le correnti mistiche di questo periodo e naturalmente Francesco si prestava magnificamente ad essere letto in questa chiave.

Il perfetto imitatore del Cristo, portatore addirittura dei segni sanguinanti della crocifissione. Ma Dante ha innovato anche qui, prendendo la distanza dalla sensibilità del suo tempo. Le stimmate sono il segno di una diversità, non di una identificazione.

Francesco si porta dietro tutta la sua umanità, tutte le sue fatiche, tutte le sue delusioni, tutto il suo peregrinare. Tutta la sua fragilità. Le stimmate sono il segno estremo di tale fragilità.

L’eroe Francesco, il cavaliere Francesco, il santo Francesco ha cercato il suo Graal per tutta la vita e solo il Cristo ha potuto darglielo con pienezza.

Anche qui è molto interessante notare come Dante ha lavorato, usando il materiale biografico e tradizionale a sua disposizione, ma trattandolo con molta libertà, innovando, presentandoci il santo in una luce nuova e funzionale ad uno dei principali motivi della cantica e dell’intero poema, la polemica contro la decadenza della Chiesa. Nulla Dante inventa. Cita anzi in maniera letterale le sue fonti.

Qualche esempio. Le alte grida[16] con cui Cristo sposa la Chiesa nel segno del suo sangue richiamano la quasi identica espressione di Marco e Matteo. E lo stesso acquisto della Chiesa con il sangue versato in croce è esattamente negli stessi termini degli Atti degli Apostoli.[17] La citazione dei due principi (appunto Francesco e Domenico) del verso 35 ci riporta a Gioacchino da Fiore, presente nella seconda corona e dunque altro volume in questa biblioteca ideale di Dante.

L’immagine della Povertà che sale in croce col Cristo là dove la stessa Maria rimane ai piedi del supplizio

 

Sì che, dove Maria rimase giuso,

ella con Cristo pianse in sulla croce[18]

 

è ripresa pari pari dall’Arbor vitae crucifixae Iesu di Ubertino da Casale, il grande teologo e mistico francescano, contemporaneo di Dante che editò il suo Arbor proprio nel 1305, cioè nei primi, più crudi anni dell’esilio dantesco. Bernardino muore attorno al 1330 e dunque Dante non lo può inserire nelle due corone dei beati, ma è chiaro che lo ha presente e soprattutto lo ha vicino nella polemica contro la corruzione della Chiesa che della vita di Ubertino fu il motivo conduttore.

Delle ampie e dominanti citazioni da Bonaventura da Bagnoregio si è detto. Da Tommaso da Celano, oltre che dallo stesso Bonaventura, Dante trae la identificazione tra Francesco e il sole: “quasi sole fulgente questi rifulse”[19], dice Tommaso, il francescano che redasse ben tre versioni diverse della biografia di Francesco.[20]

Citazioni precise vengono anche dal Sacrum Commercium beati Francisci cum Domina Paupertate, singolare trattato cui nel Medioevo si annette grande valore teologico nel quale Francesco discute con la Povertà: un prologo e 31 serrati capitoli che lo stesso Tommaso da Celano ha ben presenti.

E Dante conosce bene anche la Legenda trium sociorum, una biografia in 18 capitoli giuntaci anonima.

Come si vede una quantità enorme di materiale, che documenta sia la vastità delle conoscenze di Dante sia il fiorire praticamente senza limiti della letteratura francescana.

Ebbene, con questo repertorio sulle spalle, non un solo aneddoto della tradizionale iconografia del santo. Non c’è Francesco che ammansisce il lupo e non c’è il Francesco che parla agli uccelli. E se, per fare un solo esempio, andiamo all’episodio dell’impressione delle stimmate, nella sterminata bibliografia dantesca troviamo un racconto dolce, tranquillo, nella logica precisa della identificazione tra Cristo e Francesco. Tra le tante, l’appena citata Legenda trium sociorum ci dice che l’apparizione delle stimmate fu accompagnata dalla dolce visione di un luminoso serafino dalle sei ali che, molto didascalicamente e per buona, edificante aggiunta, reca anche un’immagine del Cristo crocifisso.[21]

Dante fa giustizia di tutto, e spazza via ogni tentazione agiografica. Qui non c’è alcun luogo paradisiaco, non c’è il paesaggio ideale della tradizione epica, alcun letterario locus amoenus.

Già eravamo preparati dalla lettura del paesaggio umbro che aveva visto la nascita di Francesco.

 

Intra Tupino e l’acqua che discende

dal colle eletto del beato Ubaldo,

fertile costa d’alto monte pende,

 

onde Perugia sente caldo e freddo[22]

 

 

Nessuna idealizzazione: un paesaggio storicamente e geograficamente ben identificato, drammaticamente mosso, per cui sarei quasi portato a interpretare la discussa espressione seconda la quale Perugia sente caldo e freddo, in chiave politica, con allusione alla dominazione tirannica esercitata da Perugia su Nocera Umbra e Gualdo Tadino. Poi il paesaggio si allarga al Gange, all’Oriente, al mondo intero.

E quando arriva il momento della morte, il paesaggio non è allietato da alberi, fonti limpide e canti di uccelli ad aiutare il raccoglimento del santo. Vuole, Francesco, morire sul duro sasso e muovere dal grembo stesso della Povertà

 

e del suo grembo l’anima preclara

mover si volle, tornando al suo regno,

e al suo corpo non volle altra bara.[23]

 

A morire non è solo il santo, ma anche l’eroe, il cavaliere. Muore esattamente nello stesso modo con cui Turoldo ci descrive il morire di Orlando a Roncisvalle. E il testamento del santo/cavaliere/eroe assomiglia molto a quello di certi re che partendo per un lungo viaggio affidavano la loro donna al più caro e fidato amico. Francesco fa così con la Povertà.


 


 

[1] Dante, Epistula XII [Amico Florentino], IV. Le tre citazioni che seguono provengono tutte da questo stesso contesto

[2] San Francesco D’Assisi, Cantico di Frate Sole, 7-9

[3] Pd, X, 79-80

[4] Pd, X, 143-144

[5] Pd, X, 136-138

[6] Pd, XI, 1-12

[7] Pd, XI, 22-27

[8] Pd X, 86 e XI 138

[9] E. Auerbach, Francesco d’Assisi nella Commedia, in Studi su Dante, Milano 1971

[10] Pd XI, 37-39

[11] Summa Theologiae, I q. LXIII, a. 7

[12] Pd XI, 55-63

[13] Pd, XI, 100-105

[14] Pd, XI, 88-93

[15] Pd, XI, 106-108

[16] Pd, XI, 32

[17] Matth. XXVII, 50; Marc. XV, 37; Act. Apost. XX, 28

[18] Pd, XI, 70-71

[19] Tommaso da Celano, Vita I, III, 1

[20] Legenda prima (nota anche come Legenda Gregorii, poiché l’incarico della scrittura gli fu affidato da papa Gregorio IX); Legenda ad usum chori; Legenda secunda

[21] Legenda trium sociorum, XVII, 69, 3

[22] Pd, XI, 43-46

[23] Pd, XI , 115-117

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