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Paradiso Canto VIII

Canto VIII

PARADISO

CANTO VIII

(Treviso, Casa dei Carraresi

7 febbraio 2001)

 

 

 

 

Dopo un iniziale disorientamento per essermi viste assegnare due date così ravvicinate, mi sono reso conto della positività della situazione. Nel senso che posso dare in qualche modo svolgimento unitario a questi due commenti, quello del canto VIII e quello del canto XVII.

Con una premessa valida per entrambi. Quando ho proposto due canti del Paradiso dantesco sapevo bene di proporre la cantica più difficile e, diciamolo con tutta franchezza, meno letta. Mi serve dunque qualche minuto per cercare di infliggere un colpo, sarebbe presuntuoso dire mortale ma almeno, nelle mie intenzioni, molto deciso, a questa inveterata e disastrosa opinione. Paradiso. Vittima di De Sanctis e della critica romantica che lo vedevano molto poco intriso di terrestrità. Ma vittima anche di Benedetto Croce che nella sua esasperata categorizzazione di ciò che sia poesia e ciò che non lo sia, ascriveva gran parte del Paradiso alla sfera della teologia e dunque della non poesia.

Oggi è in atto una autentica rivoluzione di questo modo di vedere. Merito di un grande studioso del Medio Evo e di Dante come Erich Auerbach, il quale analizzando l’uomo in cammino nella sua avventura esistenziale (l’uomo medievale, voglio dire) lo definisce umbra et figura.

Parziale realizzazione, dunque, e anche prefigurazione di quella entità che giungerà a compiutezza e perfezione dopo l’approdo in Dio. Se è vero questo, il Paradiso non potrà non essere, almeno nel progetto di Dante, la cantica più alta e, ovviamente, la più irta di difficoltà.

Ma sia chiaro, per lui poeta, teso nello sforzo di comunicare a noi lettori il suo indiarsi, coinvolgendoci anzi e facendoci partecipi, visto che il viaggio che compie è un viaggio di tutta l’umanità in cerca di salvezza e riscatto. Partendo dalle premesse e dalle riflessioni auerbachiane, un critico moderno come Giovanni Getto ridefinisce globalmente il Paradiso come poema epico della Grazia. Cioè come poema in cui in qualche modo rifulge il valore di un guerriero come Dante, protagonista di una avventura tutta intellettuale e sentimentale, protesa alla conoscenza ultima. Il Paradiso è la narrazione di questa vicenda epica, ed esige moduli interpretativi suoi peculiari.

Epos della Grazia, poema epico della conoscenza.

Getto parla, più tecnicamente, di una poetica dell’addizione, del di più, volendo alludere a questo sforzo continuo messo in atto da Dante di superare la sua condizione umana per attingere, ancor vivo, alla meta ultima. Ma non è solo un problema filosofico e, in particolare, un problema di conoscenza. Bisogna anche superare le strettoie e le angustie di uno strumento linguistico ed espressivo che, per quanto perfetto, è assolutamente inadeguato. Occorre, appunto, un di più in progress, perché, comunque si amplifichino le nostre umane capacità, sarà pur sempre impossibile diventare vasi sì grandi da contenere il tutto del mistero divino.

È questa tensione intellettuale, questo crescere del desiderio di Dio e della capacità di coglierne l’essenza ultima, che Dante riesce a comunicare al lettore e a fare del Paradiso una cantica affatto diversa dalle altre. E anche, nel pensiero di chi vi sta parlando in questo momento, incommensurabilmente, la più alta.

E dunque il canto VIII che non solo offre molta materia esemplificativa in questo senso, ma che appare centrale nella analisi che Dante compie sul tema dell’amore e, più in generale, sulle tendenze e sulle inclinazioni dell’uomo.

Un canto, intanto, profondamente innervato nella complessiva tensione teologica dell’intero poema, come dimostrano, ad esempio, i poderosi rimandi ad un altro canto in cui si parla molto dell’amore, il V dell’Inferno. Li ha sottolineati in un suo saggio famoso André Pézard [1]. Tra i versi 22 e 45 del canto VIII del Paradiso troviamo i venti tanto festini, che ci rimandano alla bufera infernal che mai non resta[2] e al paion sì al vento essere leggeri [3]. Ancora:

 

Noi ci volgiam coi principi celesti

d’un giro, d’un girare e d’una sete[4]

 

E siamo molto vicini alla descrizione della bufera infernale, in una comunanza di abbandono, ben dentro alla categoria del lasciarsi prendere e trasportare da una forza più grande e incontrollabile:

 

di qua, di là, di giù, di su li mena[5]

 

E poi il paradisiaco

 

E sem sì pien d’amor, che, per piacerti,

non fia men dolce un poco di quïete[6]

 

riecheggia da vicino l’infernale

 

Di quel che udire e che parlar vi piace

noi udiremo e parleremo a voi,

mentre che il vento, come fa, ci tace.[7]

 

Citazioni chiare anche se un po’ implicite che debbono suggerire come il retroterra da cui partire per leggere questo canto, sia quel tratto del poema in cui si racconta il dramma di coloro che dall’amore sono stati condotti alla perdizione e alla dannazione eterna: Semiramide, Didone, Elena, Achille, Paride, Tristano, Paolo, Francesca.

E accanto alle citazioni implicite, una esplicita, la canzone Voi che intendendo il terzo ciel movete[8], la prima delle canzoni commentate da Dante nel Convivio, nell’ambito del secondo trattato. E anche qui una indicazione precisa che sta ad affermare un percorso chiaramente delineato nella mente del poeta. Nel canto V non eravamo ad un superamento della posizione stilnovista, ma semplicemente ad una presa di distanza, ad una ridiscussione dei presupposti stilnovisti. Nel Convivio siamo ad una esperienza prevalentemente ed anche freddamente intellettuale.

Qui, terza tappa del percorso, subentra una esperienza fatta di grazia e di contemplazione, di riconoscimento chiaro che in Dio è la sintesi unitaria di tutto, il punto di riferimento ultimo. È amore riscattato dalla fiamma della carità, in qualche modo sublimato e sottratto alla sua aggressività carnale. E non sarà un caso che accanto a chi parla, Carlo Martello, non vi sia la donna di cui lui era innamorato.

Con questo viatico possiamo iniziare il viaggio nel canto VIII del Paradiso. Il canto VII si è chiuso sulle parole con cui Beatrice spiega la corruttibilità degli elementi e l’immortalità dell’anima. Siamo nel cielo di Mercurio, dove Dante ha seguito la scintillante disamina di Giustiniano sul ruolo provvidenziale del Sacro Romano Impero. Questo può essere un buon punto di partenza perché c’è in qualche misura affinità ideologica ma soprattutto continuità poetica tra Giustiniano e Carlo Martello. Il primo è un modello solenne, consacrato dal tempo e dal valore che nei secoli ha assunto la sua opera politica, giuridica, militare. Il secondo in qualche modo completa: è il principe di oggi, partecipe, sia pure dal paradiso, del dramma dei suoi sudditi sottoposti ad un imperio crudele, oppressivo e fiscalista. A conferire un tono di affetto è anche l’esplicito riferimento alla calda amicizia che si era instaurata tra Dante e lui. E ben altro destino sarebbe toccato ai suoi sudditi se la morte non ne avesse troncato i progetti, se gli stati retti dagli Angioini non fossero capitati in mano al fratello Roberto, avaro e fanatico. Parla con malinconia, Carlo, ma anche con la consapevolezza di attingere ad un comune, intimo convincimento, di proporre un modello in positivo, riflessioni opportune, stimoli di cui Dante farà buon uso al suo ritorno sulla terra. Là dove Giustiniano era stato alto, sacerdotale, grandioso, ufficiale. Un racconto, dunque, con cui il lettore del Paradiso si deve confrontare con visione ampia.

 

Solea creder lo mondo in suo periclo

che la bella Ciprigna il folle amore

raggiasse volta nel terzo epiciclo

 

per che non pur a lei faceano onore

di sacrificio e di votivo grido

le genti antiche ne l’antico errore;

 

ma Dione onoravano e Cupido[9]

 

Esordio alto, solenne che serve parafrasare. Il mondo antico, l’umanità pagana era convinta che Venere infondesse con i suoi raggi l’amore sensuale, girando nell’epiciclo del terzo cielo. E dunque le genti antiche, avvolte nell’errore antico dell’idolatria, non onoravano e pregavano solo lei ma anche sua madre Dione e suo figlio Cupido. Di Cupido Dante afferma che sedette in grembo a Dido[10], con altro, esplicito rimando al canto V dell’Inferno. Dante aggiunge che da questa Venere, nel nome del quale avvia il suo canto, le genti antiche prendevano il nome della stella che il sole guarda ora avendola alle spalle, ora avendola di fronte.

 

Io non mi accorsi del salire in ella;

ma d’esservi dentro mi fé assai fede

la donna mia ch’i’vidi far più bella.[11]

 

Dante, ormai uscito dal cielo di Mercurio, si rende conto di essere salito nel cielo di Venere solo per il fatto che Beatrice ha aumentato il suo splendore: ecco, anche solo in piccolo indizio, la poetica dell’addizione. L’aumento di luce sta sempre ad indicare un aumento di verità e di perfezione, un passo ulteriore compiuto verso la divinità.

Naturalmente Dante era abilitato a questo tipo di visione da una serie innumere di citazioni dai testi biblici e dell’intera tradizione cristiana. Consentitemi di riferirne una soltanto che molto bene calza al commento di oggi e a quello di domani. La trovo nel libro del profeta Daniele: i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.[12]

L’immagine si amplifica nei versi successivi perché Dante ci riferisce come davanti a lui, nella luce uniforme e diffusa del nuovo cielo cui è approdato, appaiano altre entità luminose che girano in tondo con velocità maggiore o minore a seconda che (questa, dice Dante, è la sua congettura) più o meno intensa sia la loro visione di Dio. Con la sintesi e la icasticità del suo straordinario linguaggio Dante parla di lor visioni interne[13].

Sottolinea poi questo apparire di anime con due similitudini: la sensazione è simile a quella che ci fa vedere anche nella fiamma più intensa la maggior intensità luminosa delle faville. Ed è anche simile a quella di chi sa distinguere in un canto a due voci, l’una voce e l’altra quando la prima resta ferma ad una nota  e l’altra si innalza.

Il passaggio è di particolare tensione emotiva, quella, per intenderci che precede un incontro molto importante, atteso, sia pur inconsciamente. E infatti per dirci della velocità con cui queste anime si avvicinano e anzi gli corrono incontro, Dante ricorre ad una ulteriore similitudine.

 

Di fredda nube non disceser venti,

o visibili o no, tanto festini,

che non paressero impediti e lenti[14]

 

Dunque a lasciare il loro movimento circolare che trae origine addirittura nell’Empireo, là dove i Serafini occupano il posto più alto e a correre in direzione di Dante, sono più veloci dei lampi (cioè i venti visibili) e dei turbini (cioè i venti invisibili) che nascono dalle nubi investite dal freddo. Dalle anime più vicine si sente cantare Osanna in modo così toccante e soave che da allora in poi Dante non è più stato abbandonato dal desiderio di risentirlo. Che il momento sia solenne lo comprendiamo proprio da questo accavallarsi di immagini in cui Dante esibisce le sue perfette conoscenze del canto gregoriano e poi della fisica.

È tipico dei momenti alti movimentare e sfoggiare conoscenze disparate e diversificate. Prende la parola, evidentemente a nome di tutte, una di queste anime. Quello che dice ci appare connotato da una inflessione particolarmente affettuosa, da una calda corrente di simpatia. Capiremo tra poco quando l’anima rivelerà a Dante della loro consuetudine di un tempo, delle occasioni che consentirono la scoperta di particolarissime consonanze ideologiche e politiche.

 

“Tutti sem presti

a tuo piacer perché tu di noi ti gioi.

Noi ci volgiam coi principi celesti[15]

 

Come al solito Dante si rivolge a Beatrice per riceverne incoraggiamento e autorizzazione. Poi i suoi occhi tornano a incrociare

 

la luce che promessa

tanto s’avea, e “Deh chi siete?” fue

la voce mia di grande affetto impressa[16]

 

Il viaggiatore ha colto la grande promessa che risuona nelle parole del suo interlocutore e risponde con grande affetto. La sintonia è già scattata. È la poetica dell’addizione ci offre la categoria di analisi più giusta e adeguata.

 

E quanta e quale vid’io lei far piúe

per allegrezza nova che s’accrebbe,

quando parlai, a l’allegrezze sue.[17]

 

Aumenta ancora la luminosità dell’anima per l’accresciuta letizia che le deriva dall’essere stata scelta da Dante a parlare. È consueto nel Paradiso. Come afferma Tommaso Di Salvo: nelle anime beate si opera sempre un rapporto tra la dilatazione ed intensificazione della luce e la potenziata carità che ad esse è procurata dalle domande di Dante: rispondendo fanno del bene, questo bene si riflette sulla loro figura che si vivifica per la gioia.[18]

 

“Il mondo m’ebbe

giù poco tempo; e se più fosse stato

molto sarà di mal, che non sarebbe.[19]

 

A presentarsi con queste credenziali (“avrei dovuto vivere più a lungo per scongiurare il male seguito alla mia morte e da essa causato”) è l’angioino Carlo Martello, figlio di Carlo II lo Zoppo e di Maria di Ungheria, costei a sua volta figlia di Stefano V re di Ungheria. Nacque nel 1271 e la sua prematura morte avvenne nel 1295. Prima della morte era stato incoronato re di Ungheria. Nel 1294 si era trovato, abbastanza casualmente a Firenze, dove si era dato appuntamento con i genitori per un incontro.

Il suo arrivo destò grandi entusiasmo e simpatia, come sappiamo da molte fonti. Al punto che vale la pena di registrare una (per noi) divertente curiosità. Il frate domenicano Remigio de’ Girolami, in un suo sermone di saluto pronunciato in Santa Maria Novella, trascinato dall’entusiasmo, impone ad ogni prete di dire tre messe, ad ogni religioso di recitare per tre volte sette salmi con la litania, a ogni converso di recitare trecento Pater noster.[20]

E qui abbiamo la testimonianza che Carlo si incontrò con Dante e che tra i due giovani di grandi speranze fiorì subito una bella amicizia:

 

Assai m’amasti, e avesti ben onde;

che se io fossi giù stato, io ti mostrava

di mio amor più oltre che le fronde.[21]

 

Dunque, se fosse vissuto più a lungo Carlo Martello, di questo suo amore, avrebbe fatto vedere non solo le fronde ma anche i frutti. E a questo punto inizia la storia di un progetto politico che non si è mai realizzato, del male che a questa mancata realizzazione è seguito, di una polemica che ancora non è sopita nella memoria del giovanissimo re. Alla corona di Ungheria, avrebbe aggiunto anche quella di Provenza e dell’Italia meridionale. E avrebbe governato anche sulla Sicilia se questa, nel 1282, non si fosse ribellata al cattivo governo. Comincia:

 

Quella sinistra riva che si lava

di Rodano poi ch’è misto con Sorga,

per suo segnore a tempo m’aspettava,[22]

 

È la Provenza, qui individuata da indicazioni geografiche (i fiumi che la bagnano) che è procedimento frequente in Dante e, tra l’altro, ben noto a noi Trevisani. Poi l’Italia meridionale individuata da un’ampia perifrasi:

 

e quel corno di Ausonia che s’imborga

di Bari e di Gaeta e di Catona

da ove Tronto e Verde in mare sgorga.[23]

 

Questa è la splendida rappresentazione dell’Italia meridionale che ruota attorno a quel fortissimo neologismo dantesco, s’imborga, cioè diviene città, si fortifica. Una sorta di mezzaluna, dunque, che ha i suoi punti di individuazione in Bari, Gaeta e Catona, l’importante fortezza angioina sullo stretto, vicino a Reggio. E sentite poi come Dante parla della Sicilia:

 

E la bella Trinacria che caliga

tra Pachino e Peloro, sopra il golfo

che riceve da Euro maggior briga,

 

non per Tifeo, ma per nascente solfo,[24]

 

La bella Sicilia, che si copre di caligine tra capo Passero e capo Faro, presso il golfo di Catania, che è battuto e dunque particolarmente molestato dallo scirocco. A coprirla di caligine, aggiunge Dante con scrupolo razionalistico e scientifico che di tanto in tanto affiora in lui, non è il gigante Tifeo abbattuto da Giove e sepolto sotto l’Etna, ma sono le emanazioni solforose che scaturiscono dai sotterranei dello stesso vulcano.

Una Sicilia presentata con forti chiaroscuri, in modo drammatico e utilissimo a riferire la rivolta palermitana passata alla storia col nome di Vespri siciliani, che costò agli Angioini la perdita dell’isola, passata subito dopo agli Aragonesi. Ecco muoversi Palermo a gridar: “Mora. mora!”[25]

È questo il momento di più esplicita polemica. I Vespri sono l’effetto del malgoverno e Carlo Martello porta il discorso sul fratello il quale, se potesse vedere bene le conseguenze di un atteggiamento vessatorio e fiscalista nei riguardi del popolo, certo allontanerebbe da sé i ministri e funzionari (qui se ne precisa anche l’origine, sono catalani) i quali con la loro rapacità stanno per appesantire di nuovi pesi la barca del suo regno già tanto gravato da tasse e balzelli.

Precisato che era proverbiale tacciare i commercianti catalani di avidità, fissiamo la nostra attenzione su Roberto d’Angiò, il fratello di Carlo. Egli successe al padre Carlo II sul trono di Napoli nel 1309: l’evento non può essere noto a Dante che compie il suo viaggio nell’oltretomba nel 1300, ma è ovviamente notissimo al Dante che redige il Paradiso molti anni dopo.

La prospettiva storica, dunque, si allarga al tono e al respiro della profezia. Esiste un principio da dimostrare: il malgoverno genera ingiustizia e si pone fuori del disegno provvidenziale. Dobbiamo capire che è questa l’urgenza che preme su Dante, perché la contrapposizione ad altissimo contrasto tra il giusto Carlo e l’oppressore Roberto è sostanzialmente un falso storico. A noi corre infatti l’obbligo di ricordare che Roberto ha tutt’altro che fama di taccagno e di gretto: Petrarca prima di recarsi a Roma per essere incoronato poeta volle essere esaminato da lui ed è proprio la corte di Roberto quella che Boccaccio descrive, esalta, vagheggia per tutta la vita come un ambiente ideale. E tra i personaggi addirittura storditi dalla grande ospitalità di Roberto e dal clima culturale aperto che egli ispirava, dobbiamo ricordare anche Cino da Pistoia. Ma Dante, nella foga della dimostrazione del suo teorema, non bada a mezze misure. Il governo di Roberto è paragonato ad una barca che sta per essere mandata a fondo dal suo stesso carico:

 

sì ch’a sua barca

carcata più d’incarco non si pogna.[26]

 

La figura etimologica carcata/incarco appare particolarmente dura anche nella sua sonorità sinistra e pesa come una condanna. E insiste Dante:

 

La sua natura, che di larga parca

discese, avria mestier di tal milizia

che non curasse di mettere in arca”.[27]

 

Roberto è un avido, pur essendo disceso da una stirpe generosa e liberale, e avrebbe bisogno di funzionari e collaboratori che non pensassero solo ad accumulare tesori nei loro forzieri.

Dante risponde esprimendo la sua felicità per aver ricevuto informazioni tanto preziose e utili. Con atteggiamento e procedimento consueti mescola la captatio benevolentiae al disagio e all’ansia per un nuovo dubbio che lo assale:

 

e così mi fa chiaro,

poi che, parlando, a dubitar mi hai mosso

com’esser può, di dolce seme, amaro”.[28]

 

Ecco il nuovo dubbio. Come è possibile, si chiede e chiede Dante, che inclinazioni, tendenze, comportamenti siano tanto differenti tra genitori e figli? Carlo e Roberto costituiscono un paradigma inquietante: il primo ha raccolto tutto il buono della sua discendenza, l’altro se ne è staccato in maniera radicale. Per capire bene quanto questo quesito interessasse a Dante dobbiamo ricordare che lui, uomo del Medio Evo, crede negli influssi dei cieli i quali sono, per loro stessa natura, positivi e positivizzanti. Infatti gli astri sono collegati alle Intelligenze Motrici e, in buona sostanza, sono esecutori della volontà di Dio.

Serve aggiungere ancora un elemento per capire a fondo il canto. Qualcuno forse ricorderà che nel canto VI Giustiniano afferma che all’interno dei complessi rapporti col suo generale Belisario, ad un certo punto gli fu chiaro che doveva lasciare a lui le competenze militari e limitare il proprio lavoro alla sfera più squisitamente politica:

 

al mio Belisar commendai l’armi,

cui la destra del ciel fu sì congiunta,

che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.[29]

 

Come qui. Il problema ha risvolti praticissimi. Come andrebbero meglio le cose del mondo se gli uomini rispettassero con maggior oculatezza il progetto specifico concepito da Dio su ognuno di loro. Diremmo noi oggi, se rispettassero il principio dell’uomo giusto al posto giusto. Ed ecco la risposta di Carlo, alta, solenne, di straordinario impegno filosofico ed etico:

 

Lo ben che tutto il regno che tu scandi

volge e contenta, fa esser virtute

sua provedenza in questi corpi grandi.[30]

 

Seguiamolo questo ragionamento che si sviluppa in modo serrato e intenso in una quindicina di versi perché esso è centrale non solo all’ideologia dantesca, non solo all’ideologia complessiva della cantica e del poema, ma anche a tutta la cultura medievale e alla visione delle cose tipica dell’uomo medievale. Naturalmente il punto di partenza è il Bene sommo, Dio.

Dio che muove e allieta i cieli attraverso i quali tu stai salendo verso l’Empireo, realizza il suo disegno provvidenziale servendosi di questi corpi celesti e, per così dire, impregnandoli della sua positività. Caricandoli anche delle potenzialità utili a influenzare il mondo. Nella mente provvidenziale della divinità, perfettissima in sé, le varie nature, pur nella loro molteplicità e diversità, sono presenti in modo tale che si provvede al loro essere ma anche al loro benessere. Dunque tutto ciò che la virtù di questi cieli effonde sulla terra, coglie il bersaglio esattamente come una freccia ben indirizzata. La metafora dell’arco che scocca il suo dardo a raffigurare il realizzarsi preciso di una determinata volontà, è frequente nel Paradiso[31], ma è già in san Tommaso: sicut sagitta…directa in signum[32].

Serve ricordarlo perché ora il ragionamento di Carlo si sviluppa col rigore logico tipico delle schematizzazioni scolastiche. Ecco infatti una tipica dimostrazione per assurdo: se le influenze celesti non fossero preordinate e sovraordinate da Dio potrebbero rivelarsi addirittura rovinose per l’uomo, ma ciò non è possibile perché vorrebbe dire che le Intelligenze motrici sono imperfette e, in ultima analisi, ad essere imperfetto sarebbe lo stesso Dio.

Carlo è travolgente e coinvolgente. Dante deve apprendere, capire. Il giovane re lo incalza.

 

Vuo’tu che questo ver più ti s’imbianchi?[33]

 

Insomma: “devo essere ancora più chiaro?”, con quel s’imbianchi poderoso che allude al colore, alla luce, allo schiarirsi, all’addizione continua nella conoscenza del pellegrino che cerca la sua abilitazione alla rivelazione altissima.

Dante è travolto e coinvolto. No, no, capisce benissimo, ora, ma lo sapeva già per conto suo, che è impossibile che la natura possa venir meno al fine che le è stato preordinato da Dio.

Fino ad ora la teoria, i principi filosofici. Adesso la prassi, il confronto con la storia e con il quotidiano. Carlo affronta il tema delle diverse attitudini e del loro contemperarsi alla luce delle esigenze della convivenza sociale:

 

“Or dì: sarebbe peggio

per l’omo in terra, se non fosse cive?”[34]

 

Come andrebbero le cose se un uomo non fosse inserito in un consorzio civile? Dante non ha né dubbi né esitazioni:

 

“Sì”, rispuos’io; “e qui ragion non chieggo”.[35]

 

Carlo non molla la presa, ora che sta approdando alla sua vittoria intellettuale sull’ignoranza di Dante. È possibile che l’uomo sia cive, cittadino se ognuno, qui nel mondo, non vive predisposto ed ordinato ad esercitare funzioni diverse?

 

Non, se il maestro vostro ben vi scrive”.

 

Sì venne deducendo infino a quici;

poscia conchiuse: “Dunque essere diverse

convien di vostri effetti le radici:

 

per ch’un nasce Solone e altro Serse,

altro Melchisedech e altro quello

che, volando per l’aere, il figlio perse.[36]

 

Dunque anche Aristotile viene coinvolto in questa suprema affermazione di principio. Non può esserci ordine sociale, non può esserci organizzazione civile autenticamente rispettosa dell’ordine naturale e divino, se per ognuna delle attività che vengono svolte all’interno dello stesso contesto sociale non ci sono uffici diversi e uomini predisposti a tali diversità.

Così uno nasce per fare il legislatore (Solone), un altro per fare il generale (Serse), un altro con la vocazione sacerdotale (Melchisedech), un altro, infine, con attitudini tecniche (Dedalo).

Ed ecco il punto nodale:

 

La circular natura, ch’è suggello

a la cera mortal, fa ben sua arte,

ma non distingue l’un da l’altro ostello.[37]

 

I cieli, nel loro movimento circolare attorno alla terra, imprimono le loro influenze sugli uomini (e si capisce che distribuiscono attitudini diverse), ma non stanno a scegliere tra famiglia e famiglia. Come ha commentato il Benvenuto, la natura celeste a volte infonde grandezza d’animo nel figlio di un rozzo contadino e la viltà in figlio di re.

Appena il tempo di sottolineare il ritorno della metafora della cera, docile a ricevere l’impronta, così frequentata da Dante e poi una sottolineatura di fondo.

Qui a parlare, per bocca di Carlo, è il Dante cittadino e borghese, fieramente antifeudale e convinto che virtù, caratteri e disposizioni non sono ereditari, patrimonio esclusivo di una determinata famiglia che se li tramanda di generazione in generazione. Sono, al contrario, patrimonio individuale, frutto e sintesi di una particolare influenza celeste e soprattutto dell’impegno personale. Sono una conquista del singolo, non l’acquisizione di una discendenza.

Anche questo un tema centrale in Dante, come ci sarà modo di approfondire domani, nella lettura del canto XVII.

Gli esempi sono chiari. Il sincretismo culturale di Dante ce ne propone, unitariamente, uno tratto dalle vicende bibliche, uno tratto dalla storia romana:

 

Quinci addivien ch’Esaù si diparte

per seme da Iacob; e vien Quirino

da sì vil padre, che si rende a Marte.[38]

 

Esaù non è Giacobbe: per seme, cioè fin dal concepimento. E quanto a Romolo, suo padre era di condizione tanto bassa che si è avvertito il bisogno di nobilitarlo, facendolo figlio di un dio.

Carlo Martello continua e ribadisce: i genitori vorrebbero figli uguali a sé, dei propri cloni diremmo noi oggi, ma su questa volontà e su questo desiderio tipici degli uomini, prevale la varietà voluta da Dio.

 

Or quel che t’era dietro t’è davanti:

ma perché sappi che di te mi giova,

un corollario voglio che t’ammanti.[39]

 

Dante ora non volge più le spalle alla verità. Ma, aggiunge Carlo, perché tu sappia quanto mi sia caro questo tuo procedere nella conoscenza e nella percezione della verità, voglio che tu ti ammanti, ti rivesta di una ulteriore informazione.

Carlo si avvale di una potente e decisiva similitudine, che con tutta evidenza ha la sua matrice in una nota parabola evangelica: come il seme che non cade su un terreno a lui adatto dà cattivi frutti o magari non li dà proprio, così la disposizione naturale che caratterizza ogni uomo, se si trova in disaccordo o contrapposizione con le condizioni esterne in cui è collocata, produce effetti rovinosi:

 

Sempre natura, se fortuna trova

discorde a sé, com’ogne altra semente

fuor di sua regïon, fa mala prova.[40]

 

Ma gli uomini proprio ignorano questa realtà e ciò origina tanti disordini. Carlo alza il tono della voce e, in chiusura del canto, attinge al livello dell’apostrofe, dell’invettiva:

 

Ma voi torcete a la religïone

tal che fia nato a cignersi la spada

e fate re di tal ch’è da sermone;[41]

 

Già i commentatori antichi credettero di ravvisare in colui che era nato per fare il guerriero e che invece si trovò inserito a forza nella carriera ecclesiastica, un fratello di Carlo Martello, Ludovico, monaco e fatto vescovo di Tolosa nel 1296 da Bonifacio VIII. Se davvero questo era l’intento di Dante, dobbiamo dire che ci troviamo davanti se non proprio ad un altro falso storico, almeno ad una ulteriore semplificazione. Le notizie che abbiamo su Ludovico parlano infatti di una sua vocazione sincera e soprattutto non alludono a sue particolari abilità in campo guerriero e militare.

Inversamente il prete mancato sarebbe proprio l’altro fratello di Carlo, Roberto di cui Petrarca, Boccaccio e Villani ci attestano gli interessi teologici e l’abitudine a comporre e a leggere pubblicamente sermoni.

Il canto si era inaugurato nella memoria dell’amore come passione, si era aperto sul tema dell’amore come amicizia e si conclude ora con il forte auspicio di una legge d’amore e di concordia che si dovrebbe esplicitare nell’accettazione della propria vocazione come premessa ad una ordinata convivenza sociale.

Prima di chiudere mi sia consentita una ulteriore annotazione. Ho volutamente scelto un canto dottrinale, in apparenza arido, poco attraente se giudicato in superficie. Eppure spero di avervi convinto che non è così. Che una straordinaria tensione epica vibra in quest’uomo che sta viaggiando e vuole trarre profitto da ognuno degli interlocutori che incontra. Come la materia più arida riceva vita e soffio creatore quando si pone come spiegazione dei problemi ultimi dell’umanità.

Qui Dante ha affrontato con piglio duro una difficile tematica etico-politica. Diversità di temperamenti, diversità di attitudini. Le svolte della storia appartengono anche a questa casualità. Ma la lezione è un’altra: il disordine nasce quando l’uomo, per pregiudizi di discendenza e di casta, non vuole leggere a fondo la propria vocazione e le proprie inclinazioni. Vuole piegare le sue capacità e attitudini ad attività che non gli sono particolarmente congeniali.

Certo, per noi è difficile riportare al nostro universo laico una visione dell’uomo intento a cogliere sul suo procedere i segni deposti dalla divinità. Ma resta l’attualità senza tempo di un rilievo di fondo: il disordine sociale è lo specchio e, ad un tempo, il frutto del disordine individuale.

Ancora una breve aggiunta: ho incentrato questa mia lettura, forzatamente limitata, alla problematica etico-politica assumendo il canto come esemplare dell’atteggiamento del Dante pellegrino, ansioso indagatore delle motivazioni che determinano il disordine universale e incrollabilmente certo che le ricette per uscirne esistano. Rimane fuori tutta la problematica più squisitamente politica: il significato che Dante attribuisce alla presenza dello stato angioino in Italia. Una presenza perniciosa, nell’analisi dantesca. Devo chiarire che l’esclusione di tale problematica è oggettivamente pesante perché ci priva del sottofondo ideologico dell’incontro tra il poeta e il re. E ci impedisce di capire perché tanta avversione verso Roberto.

Lo stato angioino è il più grande stato dello stivale e il suo ruolo fu al centro di un intenso dibattito che vide per protagonista lo stesso Roberto il quale andava ripetendo che l’Impero non era più il padrone del mondo e che il papa non doveva avallare nessuna nuova elezione imperiale. Il potere ormai apparteneva a re, duchi, conti, baroni, comunità cittadine.

Quanto poco questo potesse andare a genio a Dante è evidente. Roberto d’Angiò che nega attualità e proponibilità alla istituzione imperiale è la punta estrema di travaglio intellettuale che coinvolse i maggiori ingegni dell’epoca: Bartolomeo da Capua che era il consulente giuridico dello stesso Roberto, Francesco dei Mayronis che ebbe un aspro scontro con Dante e contestò le tesi del Monarchia, Agostino Trionfo, Alvaro Pelayo, Pietro Dubois, Oltrado da Ponte e l’ultimo epigono dello stilnovismo, Cino da Pistoia. Tutti nemici dell’ideologia dantesca per la quale l’eclisse dell’Impero era pericolosa al punto che non si poteva ipotizzare, fuori di tale istituto, un futuro per l’umanità.

Spero vi sia spazio in altra occasione.


 


[1] André Pézard, Il canto VIII del Paradiso, Bologna, Cappelli, 1953

[2] If. V, 31

[3] If. V, 75

[4] Pd. VIII, 34-35

[5] If V, 43

[6] Pd. VIII, 38-39

[7] If. V, 94-96

[8] Pd. III, 37

[9] Pd. VIII, 1-7

[10] Pd. VIII, 9

[11] Pd. VIII, 13-15

[12] Daniele, 12, 3

[13] Pd. VIII, 21

[14] Pd. VIII, 22-24

[15] Pd. VIII, 32-34

[16] Pd. VIII, 43-45

[17] Pd. VIII, 46-48

[18] Tommaso di Salvo, commento al Paradiso, Zanichelli, 1993, pag. 159

[19] Pd. VIII, 49-51

[20] G. Salvadori- V. Federici, Le prediche di fra’ Remigio de’ Girolami, in Scritti vari di filologia in onore di E. Monaci, Roma, 1901

[21] Pd. VIII, 55-57

[22] Pd. VIII, 58-60

[23] Pd. VIII, 61-63

[24] Pd. VIII, 67-70

[25] Pd. VIII, 75

[26] Pd. VIII, 80-81

[27] Pd. VIII, 82-84

[28] Pd. VIII, 91-93

[29] Pd. VI, 25-27

[30] Pd. VIII, 97-99

[31] cfr. Pd. I. 119 e II, 23- 24

[32] Summa theol. I, q. 103, a.1.

[33] Pd. VIII, 112

[34] Pd. VIII, 115-116

[35] Pd. VIII, 117

[36] Pd. VIII, 120-126

[37] Pd. VIII, 127-129

[38] Pd. VIII,  130-132

[39] Pd. VIII, 136-138

[40] Pd. VIII, 139-141

[41] Pd. VIII, 145-147

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