0
Paradiso Canto VI

Canto VI

PARADISO

CANTO VI

(Treviso, Fondazione Cassamarca

Palazzo dell’Umanesimo Latino

19 febbraio 2004)

 

 

 

Il canto VI del Paradiso, canto politico come il VI delle due cantiche precedenti, è di una scoraggiante vastità. Per di più offre ferocemente il fianco a tutti coloro che ricercano accanto al Dante della cosiddetta grande poesia, il Dante impoetico, il Dante apologeta, il Dante ideologo, il Dante preoccupato prima che di ogni altra cosa di teorizzare e di far risaltare le perfette dimostrazioni dei suoi teoremi.

Quando mi sono occupato di altri canti del Paradiso dantesco, ho ricordato e sottolineato che, dopo le stagioni critiche che hanno condannato, dal punto di vista del valore poetico, praticamente senza appello, il Paradiso, oggi sia in atto una rivalutazione netta della cantica attorno al concetto elaborato dal Getto, di Paradiso come epos della grazia, come poema epico del Dante teso a superare se stesso, i suoi condizionamenti umani. Insomma l’epica del transumanar, la battaglia per infrangere le barriere ultime tra l’uomo e Dio, lo sforzo di ogni risorsa del corpo e della mente, come dice Getto, di essere sempre un po’ più in là dei limiti umani, in una perenne addizione di capacità umane e di aiuti che discendono dall’alto. E oggi noi “sappiamo” che in questo consiste la poesia altissima del Paradiso. Lo sappiamo così bene che solo ora noi possiamo spiegarci con qualche presunzione di compiutezza la culminazione del canto XXXIII, l’ultimo, quello in cui Dante arriva ad indiarsi.

Ma questo canto VI fa fatica ad essere recuperato, se non per grandi linee, a questa poetica dell’addizione, a questa poetica del “di più”.

Terreno minato, sia chiaro. Momigliano parla del canto VI come uno tra quelli che “hanno un più alto proemio e un più alto epilogo”. E Sapegno sostiene che quello che nel Convivio e nel Monarchia “era un concetto storiografico e un assunto teorico” qui si trasforma “in un motivo di grandiosa epopea, dove il protagonista è Dio stesso”.

Il fascino del canto è profondo ma, ripeto, per me rimane comunque un recupero piuttosto problematico. Credo lo si debba riconoscere e dobbiamo riconoscere che il canto VI nasce soprattutto dalla preoccupazione di Dante di dare una sistemazione definitiva al suo pensiero politico.

Preoccupazione umanissima e dolorante, se pensiamo anche solamente al travaglio che lo conduce alla sintesi di questo canto VI, alle faticose e tese elaborazioni del Convivio, del Monarchia, del De Vulgari Eloquentia. Per non dire delle lettere.

Qui, in un dire di assoluta densità, Dante tenta l’ultimo, significativo balzo che gli consente di prendere le distanze dalle partigianerie e faziosità dei contemporanei, di cui lui è stato di volta in volta artefice, protagonista, vittima, testimone. Dalle baruffe rionali alle contrapposizioni tra Neri e Bianchi, dalle lotte tra Guelfi e Ghibellini ai dissidi tra Papato e Impero. Il canto nasce qui, dal poeta maturo che ha ormai tesaurizzato un cumulo enorme di esperienze ed entra consapevolmente nella polemica ultima con chi non riesce ad alzare lo sguardo fuori del proprio orizzonte. Il suo avversario, in ultima analisi, è l’uomo tout court, di fronte al quale egli si erge come profeta che ordina di essere ascoltato.

Affiora, prepotente, la venatura di pessimismo che connota tutta l’ideologia di Dante.

Ormai lui sa bene quali guasti possano produrre cupidigia, prepotenza, partigianeria, difesa del proprio clan. Sa soprattutto che la storia è l’inverarsi e l’incarnarsi del progetto che la divinità persegue.

Tutti gli uomini incamminati, nella sua utopia (perché  faremmo bene a  ricordarci che pur sempre di utopia si tratta) dovrebbero essere sulla strada della verità, tutti gli uomini dovrebbero essere impegnati a fare del consorzio umano una immagine sempre più vicina all’immagine della società ideale e perfetta quale Dante sta incontrando e conoscendo in Paradiso.

Insomma, possiamo tranquillamente affermare, che questo canto VI, per i temi che affronta e per la sintesi risolutiva che propone, è una condensazione dell’intero poema, un suo riassunto, se vogliamo dire così, oppure il punto di arrivo di una analisi che è cominciata molto più in basso, nelle paludi dell’ignoranza, quando Dante comincia a tremare e a indietreggiare sotto la minaccia delle tre belve.

Sto cercando di dire: qui in questo canto VI è come se Dante affermasse con la forza di un perentorio ultimatum che non solo davanti a quelle tre belve non si deve fuggire, ma è anche necessario e possibile fermarsi, combattere a piede fermo e sconfiggerle.

Il canto VI come condensazione dell’intero poema: sarà la chiave di lettura che proporrò in questa sede.

Segnali esterni di una indicazione in questo senso ce li dà lo stesso Dante: questo è il discorso più lungo tenuto da una delle anime che incontra in tutto il suo viaggio oltremondano ed è anche l’unico che occupi un canto dal primo all’ultimo verso.

E poi, l’inconfondibile spia dei momenti cui Dante annette particolare importanza: l’impennarsi dello stile, il suo indurirsi e brillare come una lama al sole.

Provo ad esemplificare, trascegliendo dal ricchissimo campionario del canto.

In primo luogo la stessa personificazione dell’Aquila, che crea un clima quasi da evento prodigioso. Leggo qualche verso  in questa prima parte del canto.

 

cento e cent’anni e più l’uccel di Dio

ne lo stremo d’Europa si ritenne,

vicino a’ monti de’ quai prima uscío.[1]

 

Poi:

 

Tu sai ch’el fece in Alba la sua dimora

per trecento anni e oltre, infino al fine

che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.[2]

 

Solo due esempi, ma quante terzine si potrebbero leggere in questa chiave. Cito anche qualche costruzione ardita (in realtà una semplice figura etimologica) come luce la luce[3]quando Giustinano mostra a dito Romeo. Cito l’uso continuo di parole non comuni, per lo più latinismi: labi, riferito al Po per descrivere il suo scendere dalle montagne; si cuba, per dire dove Ettore dorme, la Troade insomma; tuba, per indicare la buccina guerresca; baiulo, cioè portatore, facchino e in senso lato reggitore, parola cui sono connessi termini come bailo, balio; colubro, per indicare il serpente che morse Cleopatra; atra, per definirne la morte; rubro, per indicare il Mar Rosso.

Qui registriamo dunque una ricerca retorica che pare perfino eccessiva e che talora sconfina, bisogna proprio ammetterlo, nell’enfasi: figure di parola e di pensiero una dietro l’altra, latinismi, perorazioni ed esortazioni che nella finzione letteraria discendono evidentemente da Giustiniano a Dante, ma che il lettore avverte come una sorta di altoparlante divino che è indirizzato proprio a lui. Soprattutto lo sforzo (che magari non sarà del grande poeta ma almeno dell’abilissimo esercitatore di retorica) di condensare in pochi versi la storia universale, citando, collegando, richiamando fonti, radunando un sapere immenso.

Come è noto, siamo nel cielo di Mercurio che ospita gli spiriti attivi, dunque protesi al bene in senso religioso, ma anche al successo personale, all’onore, alla fama. La voce narrante è quella di Flavio Pietro Sabazio Giustiniano, un trace di lingua latina e nipote dell’imperatore Giustino I, militare di carriera e imperatore a sua volta tra il 527 e il 565. Lavorò molto per riorganizzare il territorio dell’impero, modificando l’ordinamento provinciale e abolendo molte diocesi; attuò una politica di risanamento finanziario dell’impero e soprattutto procedette ad un riordinamento del diritto romano classico di cui sono frutto il Codice giustinianeo e il Digesto. Non era uomo di grandissime capacità, ma amministratore oculato e buon giudice di uomini. Le persone di cui seppe circondarsi e disporre in modo spregiudicato, come i generali Belisario e Narsete, lo aiutarono molto. Fu, come diremmo oggi, un bravo politico, uno che di istinto sapeva correggere la rotta a seconda degli eventi. Il che significa che dovette essere anche molto crudele: quando, nel 532, dovette dirimere la controversie interne inserendosi nella lotta tra Azzurri e Verdi, non esitò a far intervenire Belisario con l’esercito. Si racconta che quella rivolta interna fosse annegata nel sangue di trentamila morti. Luci ed ombre, insomma.

Ma Dante, in queste situazioni, non ha bisogno di figure storiche, ha bisogno di miti. Camuffa, manipola, imposta dimostrazioni, arriva alla verifica del suo teorema.

Tanto per citare, da un passaggio fondamentale del canto, quello che ha, di fatto, la funzione introduttiva.

 

Cesare fui e son Iustinïano,

che, per voler del primo amor ch’i’ sento,

d’entro le leggi trassi il troppo e il vano.

 

E prima ch’io a l’ovra fossi attento,

una natura in Cristo esser, non piùe,

credea, e di tal fede era contento;

 

ma ‘l benedetto Agapito, che fue

sommo pastore, a la fede sincera

mi drizzò con le parole sue.

 

Io li credetti; e ciò che ‘n sua fede era,

vegg’io or chiaro sì, come tu vedi

ogni contradizione e falsa e vera.

 

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,

a Dio per grazia piacque di spirarmi

l’alto lavoro, e tutto a lui mi diedi;

 

e al mio Belisar commendai l’armi,

cui la destra del ciel fu sì congiunta

che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.[4]

 

Qui Giustiniano lega la sua avventura esistenziale e dunque il segno che la storia intesa come disegno provvidenziale ha voluto marcare in lui, al fatto che egli tolse dall’enorme, incoerente, ingestibile corpus delle leggi, tutto ciò che era troppo e vano, cioè ciò che esse avevano di contraddittorio e di inutile e superfluo.

Lo avrebbe fatto solo dopo essersi convertito all’ortodossia cattolica, abiurando l’eresia monofisita così come l’aveva predicata il monaco greco Eutiche, qualche decennio prima della nascita dello stesso Giustiniano. Secondo i monofisiti in Cristo vi sarebbe stata solo natura divina e non anche quella umana. E avrebbe compreso, dopo aver iniziato l’alto lavoro, che quello era il suo compito, per cui doveva affidare tutta la cura della politica estera e delle campagne militari al suo Belisario.

Dante qui è già al centro della sua opera di creazione di un mito. Giustiniano fu personaggio controverso e, per esempio, non fu un assertore particolarmente pugnace dell’unità dell’impero. Dante fa i conti soltanto con la sua missione. Che qui è polemica.

È lotta aperta contro la società del suo tempo, contro le istituzioni che dovevano essere (ma non erano) colonna della storia, papato e impero, contro i potenti che lasciavano il mondo nel disordine perché il disordine era in loro stessi, nel loro perseguire interessi particolari e non obiettivi di un generale bene comune.

Il Giustiniano della storia non è il Giustiniano di Dante. Non pare vero che egli abbia aderito alla dottrina monofisita, come invece fece sua moglie, la ballerina e attrice Teodora. Non è vero che i suoi rapporti con Belisario furono idilliaci: secondo una leggenda (leggenda sì, ma probabilmente significativa della verità stoica), Belisario si sarebbe visti confiscare i beni, sarebbe stato accecato dagli emissari di Giustiniano e fatto morire in miseria.

Non è vero che l’opera di risistemazione del diritto fu lavoro personale, quasi da demiurgo, di Giustiniano che ebbe peraltro il merito di individuare in Triboniano, insigne giurista bizantino, l’uomo cui affidare il lavoro e al quale far presiedere la commissione di esperti.

Soprattutto è falso che vi sia, come individua con precisione Dante, un rapporto di consequenzialità tra la sua conversione (che significa dunque ingresso nella verità) e il lavoro di riassestamento legislativo e giuridico.

Ma partiamo proprio da qui: lo facciamo con le parole di Tommaso Di Salvo.

“Giustiniano, figura esemplare di imperatore, animato solo da propositi di giustizia (l’Impero coincide con la giustizia) può dall’alto dei cieli, con tutta l’autorità che gli deriva dall’essere stato scelto a parlare dell’Impero, riasserire che le imprese dei guelfi e dei ghibellini sono alla base del disordine che percorre la società umana. L’ideale è quello dell’unità del mondo, che coincide con l’unità della divinità (non per nulla Giustiniano si appresta all’opera codificatrice solo dopo la conversione e il ripudio dell’eresia monofisita). Discendendo sugli uomini, la divinità indica un solo fine che, nelle sue due fasi, terrena ed ultraterrena, è affidata a due supreme ed universali autorità, l’Impero e la Chiesa.”[5]

Il teorema di Dante, cui non serve una figura storica ma un mito o quanto meno un personaggio ideale dotato di precise caratteristiche, prende corpo.

Sintetizzo qui i termini di tale teorema, così come li ha delineati uno studioso attento nell’analizzare il trapasso fra Giustiniano personaggio storico e Giustiniano simbolo, come Paolo Brezzi[6]:

1)      Giustiniano è stato l’imperatore capace di riportare l’Italia sotto l’autorità imperiale a differenza degli imperatori contemporanei a Dante che l’Italia l’avevano proprio abbandonata;

2)      Giustiniano è l’imperatore ideale che agisce in accordo con la chiesa, antepone la fede alla ragione come è dimostrato dal fatto che la sua missione si esplicita storicamente dopo il ritorno all’ortodossia;

3)      Soprattutto Giustiniano ha assolto alla funzione chiave, al ruolo modello di chi detiene il potere formulando le buone leggi che sono alla base di tutto l’ordine civile.

E insomma è proprio Giustiniano il personaggio legittimato a raccontare il correre dell’Aquila, simbolo della dignità e del potere imperiali, dall’uno all’altro capo del mondo.

Sotto gli occhi del lettore scorrono rapidamente secoli di storia romana, secoli tutti obbedienti al grande disegno provvidenziale. Qui l’enfasi è notevole e l’enfasi, come sappiamo, è la tomba dell’autentica ispirazione poetica.

E tuttavia non riusciamo a sottrarci all’idea che in questa visone fideistica che ci ricorda come in fondo la storia, tutta la storia, non sia altro che storia sacra, risieda una grande emozione e dunque il respirare di un qualche afflato poetico. Anche questo, misterioso e insondabile, è il fascino dell’opera dantesca.

Ripercorriamo la folla di personaggi, luoghi e situazioni.

1)      Pallante, morto combattendo al fianco di Enea;

2)      I tre secoli durante i quali l’Aquila ha vissuto in Alba Longa fino al duello dei fratelli Orazi contrapposti ai fratelli Curiazi;

3)      I sette re, qui indicati da due episodi che si situano agli estremi cronologici del periodo monarchico: il ratto delle Sabine e lo stupro subito da Lucrezia;

4)      Romani e nemici dei Romani: Brenno, Pirro, Manlio Torquato, Cincinnato, gli eroi Deci e i 300 membri della famiglia Fabia morti sotto le mura di Veio;

5)      Annibale, Scipione, Pompeo, Giulio Cesare e le sue imprese da fulmine di guerra;

 

E quel che fé da Varo infino a Reno,

Isara vide ed Era e vide Senna

e ogne valle onde Rodano è pieno.

 

Quel che fè poi ch’elli uscì di Ravenna

e saltò Rubicon, fu di tal volo,

che nol seguiteria lingua nè penna.[7]

 

6)      Poi gli esordi del principato: Bruto, Cassio, Cleopatra, Ottaviano Augusto.

Ed eccoci finalmente alla culminazione di questo crescendo: il principato del secondo (“secondo” a stare agli usi di noi moderni, perché per Dante è il terzo) Cesare, Tiberio.

 

chè la viva giustizia che mi spira,

li concedette, in mano a quel ch’i’ dico,

gloria di far vendetta a la sua ira.

 

Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:

poscia con Tito a far vendetta corse

de la vendetta del peccato antico.[8]

 

La vendetta della vendetta (e il termine vendetta vale castigo). Qui Dante dice una cosa precisa. Un po’ di parafrasi intanto: perché Dio, in quanto viva giustizia e mio ispiratore, concesse al segno dell’Aquila, in mano a Tiberio la gloria di infliggere una giusta punizione per la sua ira verso l’uomo. Insomma Ponzio Pilato, uomo di Tiberio, è stato l’esecutore del sacrificio che ha posto fine all’ira di Dio verso l’uomo, dopo il peccato di Adamo. A questo punto, tu Dante, meravigliati per quanto sto per aggiungere: dopo, con Tito, il segno dell’Aquila corse a castigare chi aveva eseguito la giusta punizione del peccato originale. Insomma Gerusalemme prima aveva imposto il sacrificio al Cristo come era scritto nel disegno provvidenziale, poi era stata punita per quello che, in termini umani, era stato un atto di assoluta ingiustizia. Dante, al solito, se la cava molto bene quando deve esprimere un ragionamento complesso e magari contorto.

Ma ecco cosa suggerisce Dante nella sostanza del passaggio: il valore liberatorio per tutta l’umanità che ha la morte del Cristo è la più solenne legittimazione dell’Impero e del suo ruolo storico. L’Impero insomma è istituzione voluta da Dio e da Dio marcata col segno forte di questi esordi: l’inizio della nuova alleanza tra gli uomini e la divinità.

In altri termini siamo alla giustificazione del canto, del poema, dell’intera testimonianza esistenziale e scritturale di Dante.

E subito un esempio di coerente azione, di reciproco supporto tra Chiesa e Impero.

 

E quando il dente longobardo morse

la Santa Chiesa, sotto le sue ali

Carlo Magno, vincendo, la soccorse.[9]

 

Il passaggio ci permette di sottolineare che Dante non vede pause nella storia, non vede interruzioni nella linea dell’Impero, istituzione eterna al pari della Chiesa. Non solo sta parlando il bizantino Giustiniano che qualcuno (ma non certo Dante) potrebbe vedere in contrapposizione a Roma, ma qui si stabilisce la continuità tra antico impero romano e il Sacro Romano Impero di Carlo Magno.

Cosa non da poco perché la tradizionale tesi guelfa vedeva nell’incoronazione imperiale avvenuta a Roma la prova storica che il potere imperiale (almeno da un certo momento in poi) è derivazione da quello pontificio, non emanazione diretta di Dio.

Dante rovescia questa tesi e torna a girare il ferro nella piaga. In fondo è pur sempre della lotta tra guelfi e ghibellini che sta parlando. Fonte di ogni male, sorgente di tutte le corruzioni. I guelfi contrappongono al simbolo del legittimo potere imperiale i gigli dorati degli Angioini, i ghibellini strumentalizzano l’Aquila per i propri comodi e il proprio interesse.

 

L’uno al pubblico segno i gigli gialli

oppone, e l’altro appropria quello a parte,

sì ch’è forte a veder chi più si falli.[10]

 

Dolore, rabbia, impotenza nelle parole del poeta, ma anche analisi, se non fredda certamente molto precisa, senza tentennamenti, zone grigie, spazi di dubbio.

Facciamo un passo indietro e ricordiamo che questo canto è strutturato su una serie di risposte che Giustiniano rende alle domande postegli da Dante, appena entrato nel cielo di Mercurio. Dante aveva chiesto all’anima luminosa che lo aveva accolto invitandolo esplicitamente a porre domande, chi fosse.

La risposta di Giustiniano l’abbiamo appena sentita. Imperatore sì, e anche capace di segnare la storia dell’istituzione che lo ha avuto al suo vertice. Ma soprattutto momento alto e consapevole del volo dell’Aquila, del suo ruolo, del suo destino.

Date aveva chiesto anche un’altra cosa.

 

…perché aggi,

anima degna, il grado de la spera

che si vela a’ mortai con altrui raggi.[11]

 

Domanda non di poco conto: come mai ti trovi in un cielo così vicino a quello del sole? Come mai ti trovi in un cielo la cui luce si eclissa, immersa com’è in quella dell’astro più luminoso dell’universo? L’interrogativo accompagna Dante in tutto il suo viaggio nel Paradiso, a partire dal colloquio con Piccarda: vuole sapere come funziona la giustizia divina oltre la dimensione terrena e, di converso, come fanno le anime ad adeguarvisi, ad accettare, a non desiderare una porzione più ampia di gloria, luce, vicinanza a Dio.

La risposta ci è in qualche misura già nota: Giustiniano dice che una parte della beatitudine delle anime celesti consiste proprio nel constatare come il premio di cui si gode sia esattamente commisurato ai meriti accumulati in terra. Solo che qui si destano echi diversi e più ampi.

Perché il tema di fondo è proprio quello della giustizia. Come già si è detto l’impero coincide con la giustizia, e qui Giustiniano recita una lezione non astratta, collocandosi proprio alla sorgente di quella che in questi versi chiama la viva giustizia[12], la giustizia che non si esaurisce, che scorre nella storia e asseta di sé gli uomini.

Giustiniano sottolinea tutto ciò con una terzina di grande impatto, che in qualche modo segna il trapasso ad una dimensione diversa del suo dire. Dall’enfasi della proclamazione alla malinconia di una rievocazione, la sua parte triste. Dalla misura epica alla misura lirica, intimistica: ci presenta l’immagine di un coro.

 

Diverse voci fanno dolci note;

così diversi scanni in nostra vita

rendon dolce armonia tra queste rote.[13]

 

Apro una parentesi per indicarvi una piccola curiosità. Questa terzina è stata tormentata dagli studiosi e soprattutto dagli storici della musica. In essa si è voluto vedere un cenno alla polifonia vocale che proprio in questi anni andava vincendo la sua battaglia, sostituendosi nel gusto e nella prassi all’omofonia  del canto gregoriano.

Ed ecco il trapasso. Giustiniano indica la figura di Romeo di Villeneuve, ministro del conte di Provenza, Berengario IV, e poi amministratore di sua figlia Beatrice, sposa di Carlo d’Angiò. Nel 1300, anno del viaggio ultraterreno di Dante, era morto da cinquant’anni, ma la sua figura era ancora viva.

E anzi, attorno ad essa, erano fiorite alcune leggende una delle quali fu fatta propria dal Villani e raccolta e qui amplificata da Dante, anche se non ne abbiamo testimonianze anteriori agli stessi Villani e Dante.

A farla nascere avrà contribuito lo stesso nome Romeo, cioè il pellegrino che si reca a Roma, il viandante, il mai-fermo, il vagabondo.

Diciamo per comodità “leggenda”, ma sono evidenti gli archetipi di fiaba e novella (per esempio in Sacchetti troviamo una figura simile nella novella che ha per protagonista Mastino della Scala). Romeo è un umile viandante che un giorno chiede ospitalità alle corte di Berengario e, grazie alle sue doti, riesce a diventare una sorta di ministro plenipotenziario del conte.

 

Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina.

Raimondo Beringhiere, e ciò li fece

Romeo persona umíle e peregrina.

 

E poi il mosser le parole biece

a dimandar ragione a questo giusto

che li assegnò sette e cinque per diece,

 

indi partissi povero e vetusto.[14]

 

Come ci racconta qui Dante, seppe combinare buoni matrimoni per tutte e quattro le figlie del suo signore e si mostrò amministratore attento e oculato tanto da incrementare (tale almeno la cifra che fa Dante in queste terzine) del venti per cento il patrimonio. Tuttavia, secondo uno schema che ben conosciamo da Pier delle Vigne in poi e che si riconduce in ultima analisi alla categoria letteraria provenzale e siciliana dei malparlieri, le calunnie fecero cambiare rapidamente la sua fortuna. Berengario gli chiese conto della sua amministrazione e lui, sdegnato per la sfiducia sottesa alla richiesta di rendiconto, tornò ad essere quello che era sempre stato, il mai-fermo, il pellegrino povero, il viandante solitario.

È evidente a chiunque il motivo per cui Dante sceglie Romeo, sceglie questa versione della leggenda, contribuisce a sua volta ad ingigantire e amplificare la leggenda stessa. Come hanno messo in evidenza un po’ tutti i commentatori antichi e moderni, Romeo è trasparente immagine di Dante stesso. Come Dante non ha accettato il compromesso, come Dante ha un carattere che non ammette censure o dubbi sul suo operare, come Dante ha disegnato la propria esistenza all’insegna della provvisorietà, dell’andare raminghi.

E tuttavia è certo più importante sottolineare non tanto questo scoperto autobiografismo dantesco, quanto il ruolo che gioca l’episodio nel contesto del canto e in fondo, come si è detto, nel contesto del poema e della complessiva ideologia dantesca. Questo è il canto della giustizia, garantita dalle due istituzioni universali, e Romeo è personaggio che ha ben agito e che ha avuto in cambio sfiducia e ingiusto trattamento.

È arrivato in un posto in cui nessuno lo conosceva, si è fatto strada con la sua virtù personale, al momento di coronare col giusto riconoscimento la sua attività, è stato rimesso su una strada. Eppure è lì, nel cielo dei beati, ammantato di luce straordinaria.

Qui il tema dell’esilio si arricchisce della speranza dei giusti: la giustizia degli uomini segue strade contorte, spesso si autodistrugge in una logica autolesionista che pare non avere spiegazioni. Esiste tuttavia una giustizia indefettibile, più profonda e lontana.

Se non avessero questa certezza, suggerisce Dante, gli uomini sarebbero perduti nel loro camminare terreno.


 


 

[1] Pd VI 4-6

[2] Pd VI 37-39

[3] Pd VI 128

[4] Pd VI 10-27

[5] La Divina Commedia, a cura di Tommaso Di Salvo, Zanichelli, Bologna 1987. Introduzione al canto VI del Paradiso

[6] Paolo Brezzi, Lectura Dantis Scaligera, III, Firenze, 1968

[7] Pd VI 58-63

[8] Pd VI 88-93

[9] Pd  VI 94-96

[10] Pd VI 100-102

[11]  Pd V 127-129

[12] Pd VI 121

[13] Pd VI 124-126

[14] Pd VI 133-139

admin