0
MARTELLINO RISCRITTO

A PROPOSITO DEL DECAMERON

RIFORMATO DAL CIECO D’ADRIA

 

La seconda giornata del Decameron, nella quale «sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine», si apre con il racconto di uno sgangherato tentativo di beffa messo in atto durante i funerali di quello che è ora il principale patrono della città di Treviso, il beato Enrico o Erico o Arrigo da Bolzano, un umile uomo di fatica, insigne per costumi e pietà, che morì appunto in Treviso il 10 giugno 1315[1].
Attorno al suo corpo fiorirono subito miracoli e la salma, rimasta incorrotta ed esposta per molti giorni, divenne la meta di un pellegrinaggio incessante. I pellegrini provenivano da tutto il Veneto e anche da più lontano. Nei primi giorni furono folla e, proprio per farsi largo nella ressa impenetrabile, Martellino, supportato da due suoi compari, si finge «attratto». Arriva davanti al corpo di Arrigo e simula, con grande teatralità, che le sue membra miracolosamente si sciolgano. Quali esiti abbia il finto prodigio, è a tutti noto.
La messa in scena di questa laica sacra rappresentazione (tale è la novella in questione, e l’ossimoro è voluto) delinea un evento sostanzialmente tragico. Quello che attua Martellino è senza dubbio un gioco, uno scherzo (che peraltro rischia di finire molto male), ma è soprattutto il prodotto non tanto di un temperamento burlone, quanto di una visione dell’esistenza basata sull’espediente, sulla pianificazione della migliore strategia possibile in vista di un obiettivo.
S’ispira alla rivoluzione ideologica e morale che già ai tempi di Dante trasforma il Mercato Vecchio dei mercatanti fiorentini nella, secondo una felice immagine di Vittore Branca, Wall Street del Medioevo; che origina il sistema bancario; che inventa la lettera di cambio e la partita doppia; che produce capolavori della memorialistica come i Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli; che trova la sua apoteosi nella discussione che Machiavelli, trasferendo il tutto dal piano economico al piano politico, compie attorno agli scopi da raggiungere e agli strumenti messi in atto per farlo.
Solo se entriamo in questa logica ci viene rivelato l’enorme valore documentario della novella.
Davvero c’era una folla straripante e soprattutto impenetrabile attorno al corpo di Arrigo, davvero era importante vederlo e toccarlo anche se non c’era alcuna malattia autentica da curare, davvero valeva la pena di testimoniare, davvero era importante poter dire: ‘io c’ero, ho visto, ho toccato’.
Martellino, anche se Boccaccio non lo dice, prima di intraprendere la sua ribalderia, si sarà informato: che miracoli fa Arrigo, che malattie guarisce?
Organizza il suo trucco di conseguenza.
Arrigo scioglie soprattutto corpi contratti, storpiature, paralisi.
Miracoli di dubbia identità, direbbe oggi qualcuno, però pur sempre miracoli, diligentemente annotati e certificati da un collegio di notai espressamente costituito. Centinaia, secondo la documentazione che ci è giunta praticamente integra.
Il duomo di Treviso aveva pareti ricoperte di ex voto, per lo più grucce divenute inutili per i miracolati. E Martellino si fa “attratto”, che è un po’ la parola chiave della novella.
Per capire dobbiamo ricordarci di quanto Boccaccio aveva detto del Cristo nel Filocolo (V, 54, 25): «Cominciò a predicare alle turbe e a sanare gl’infermi, a liberare gl’indemoniati, a mondare i leprosi, a dirizzare gli attratti e a guarire i paralitici».
Usa proprio il termine “attratto” che, avrebbe spiegato il lessico boccacciano redatto da Girolamo Ruscelli, vale «attrappito, ritratto in sé stesso, stroppiato, assiderato».
Dunque, quando sospinge sul palcoscenico Martellino, Boccaccio lo manda a guardare in faccia il corpo morto del Cristo. O quasi: è tragedia alta, e Boccaccio sa che quando parla di Arrigo, quel tedesco approdato a Trevigi, non parla di uno qualsiasi.
Anche se l’architettura della novella è in funzione di Martellino, non di Arrigo. Ma proprio questo è il punto: per arrivare davanti a quel corpo morto, già oggetto di un culto che sconfina nel fanatismo, servono intelligenza e astuzia. E coraggio, tanto coraggio, perfino incoscienza.
Dunque Boccaccio celebra, proprio sull’altare di Arrigo, uno dei grandi omaggi all’umano agire, e narra di un’impresa geniale, anche se, come in questo caso, triviale e sacrilega.
L’intero Decameron è così costruito e in tal chiave va letto. Ma da un punto di vista più rigoristico quello di Martellino è un sacrilegio puro e semplice e, in prospettiva post-tridentina (l’istituzione dell’Indice dei libri proibiti risale, com’è ben noto, al 1558), la novella diviene per elezione un elemento a carico nel processo di censura e di rassettatura che il Decameron ebbe a subire nella seconda metà del secolo XVI con lo scopo di scansare la proibizione assoluta di un’opera che, come riconoscevano i Deputati curatori della più nota rassettatura «secondo l’ordine del Sacro Conc. di Trento», compiuta nel 1573, non poteva essere tout court messa al bando della cultura e della lingua italiane:

E per la maestria dello scrivere, e per la vaghezza e purità delle voci, è in questa nostra lingua il più bello scrittore di prose che, in Toscana o altrove, si sia per alcun tempo trovato. Perché, oltre la sincerità del parlare di quel buon secolo nel quale egli scrisse, tale fu l’accortezza del giuditio suo in sapere sempre scerre l’ottimo del buono, e tale la leggiadria dello stile, che egli ha quasi, solo, dato norma e forma alla nostra favella: non ne avendo chi ne ha scritto le regole né più certa né più sicura guida di lui. Per le quali virtù, oltre la piacevolezza delle cose trattate, egli è sempre stato desiderato, amato et in grandissimo pregio tenuto[2].

Ma la fatica e i criteri dei Deputati sono troppo noti e studiati perché qui occorra dirne altro. Proponiamo, invece, alcune considerazioni sul Boccaccio riformato da Luigi Groto, il Cieco d’Adria[3], e pubblicato nel 1588, quasi tre lustri dopo il Decameron «ricorretto in Roma secondo l’ordine del Sacro Conc. di Trento» e, questa volta, senza alcun riferimento esplicito a quell’alta autorità, che verosimilmente non avrebbe affidato il delicato restauro a un poligrafo certo prestigioso, ma che in gioventù s’era accostato a cenacoli di non specchiata ortodossia e nel 1567 era stato inquisito per il possesso di libri proibiti, tra cui opere di Erasmo e i Dialoghi di Bernardino Ochino[4].
Il processo si era chiuso l’8 luglio 1567 con l’abiura, che risparmiò al Groto più gravi conseguenze ma gli interdisse per sempre l’insegnamento.
L’atteggiamento con cui il Cieco si accosta al Decameron mette forse radice proprio in quell’atto di abiura e nei confini in cui fu rinchiusa la sua attività di letterato, forse anche nelle difficoltà economiche che ne conseguirono, forse perfino nella volontà di mostrarsi pienamente rientrato nell’ortodossia, o magari nel proposito di schierare scrittore e stampatori veneti contro le agguerrite milizie filologiche fiorentine[5].
Tuttavia, concepita sin dal 1579, la revisione del Decameron, che di fatto riuscì una parziale ma talora geniale rielaborazione dell’opera boccacciana, fu turbata da incidenti in parte oscuri quale lo smarrimento o il trafugamento di una parte dei materiali già approntati; e procedette a rilento, e non fu data alle stampe se non nel 1588, tre anni dopo la morte dell’autore, presso la tipografia veneziana dei fratelli Fabio e Agostino Zoppini e di Onofrio Farri.

*   *   *

La riscrittura riesce davvero peculiare, con qualche buona invenzione. Groto vuole togliere, scrive il prefatore e curatore Girolamo Ruscelli, le cose che «poteano offendere le pie orecchie dei cattolici». Già notevole è il confronto tra i due proemi. Identici, o quasi. Groto ha cassato dal Proemio di Boccaccio due righe in tutto: colpevoli soltanto di citare (e per perifrasi) il nome di Dio. «…non sia morto. Ma sì come a Colui piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore…», dice Boccaccio (Pr., 5). Groto tira via: «…non sia morto. Ma il mio amore…». Paradigma del lavoro di Groto è proprio la novella di Martellino: Arrigo, il mendicante dichiarato santo dalla religiosità popolare subito dopo la morte, scompare del tutto.
E la novella è completamente reinventata.
In buona sostanza, nella riscrittura grotiana Martellino indossa, per burla e sfruttando una qualche rassomiglianza, i panni di una cantante diventata famosa a Treviso qualche mese prima del suo arrivo in città e poi partita. Il trucco viene scoperto e per Martellino sono guai.
La seconda parte (le traversie giudiziarie del protagonista) è di fatto identica all’originale boccacciano.
Davvero curioso che, per non parlare di Arrigo e del suo funerale, ci si rifugi in una piccante e perfino imbarazzante storia di travestitismo. Certo lo stesso Boccaccio avrebbe sorriso. Ma siamo davanti al preciso indizio di una mentalità. E il Boccaccio, in questo senso, ne risulta sfregiato: la cronaca originaria del caso di Martellino e Arrigo viene interpretata da Groto come la volontà di commettere sacrilegio e di irridere il cattolicesimo: sappiamo bene che di ben altro si tratta. Al Certaldese importava soltanto celebrare l’umana intelligenza comunque essa si proponesse. Questo, invece, il testo dello pseudo-Martellino[6]:

Martellino, infingendosi d’essere femina, molte femine beffa; e conosciuto il suo inganno, è battuto; e poi preso, et in pericolo venuto di essere impiccato per la gola, ultimamente scampa. Spesse volte, carissime donne, avenne che chi altrui s’è di beffare ingegnato, e massimamente quelle cose, che sono da reverire, se con le beffe, e talvolta con danno solo s’è ritrovato. Nel che, accioché io il comandamento della Reina ubidisca, e principio dia con una mia novella alla proposta, intendo di raccontarvi quello che, prima sventuratamente e poi fuori di tutto suo pensiero assai felicemente ad un nostro cittadino avenisse. Era, non è ancora lungo tempo passato, una cantatrice senza sapersi di qual patria o di quale schiatta si fosse: la quale con una sua valigia da duo uomini accompagnata se n’andava per le più famose città della Italia e fuori, ora per le popolate piazze, su per li publichi panchi, quando nelle private case per le secrete camere, secondo che era da varie persone a nozze, a conviti, e ad altre recreationi invitata e prezzolata, varie canzoni all’improviso cantando, e diversi stormenti sonando. Non molto bella, ma di sì grata voce e di sì dolci maniere che niuno era, maschio o femina, donna, o donzella, che la vedesse o la udisse pur una volta, che di lei non innamorasse e non desiderasse la sua conversatione. E tra l’altre città, ella passò in Trivigi quasi un continuo verno, dove da quelle gentildonne fu in guisa amata, accarezzata, abbracciata e tenuta cara, che quando al sopravenir della primavera se ne partì, elle di increscimento e di desiderio piene rimasero. Avenne che in quella città il medesimo anno, il primo giorno di maggio si fece una publica festa, dove tutte le donne e le donzelle invitate concorsero e con esso loro vi traeva da ogni parte tutta la gente. In tanto tumulto e discorrimento di popolo avenne, che in Trivigi giunsero tre nostri cittadini, de’ quali l’uno era chiamato Stecchi, l’altro Martellino, et il terzo Marchese; uomini li quali le corti de’ signori visitavano et usavano di contrafarsi con nuovi atti. Li quali quivi non essendo stati già mai, veggendo correre ogni uomo, si maravigliarono; et udita la cagione perché ciò era, desiderosi divennero d’andare a vedere. e poste le loro cose ad uno albergo, l’oste a Martellino rivolto li disse: – Se voi foste così in abito di femina come di maschio siete, tutto mi sembrereste la cantatrice che fu questo verno tra noi e poco dianzi se ne andò altrove. Martellino, che era uomo di buon tempo, rispose: – Se debbo dirvi il vero, io pur troppo son dessa: ma sommi così travestita per non esser riconosciuta, tra per pigliarmi di voi piacere e per non esser qui trattenuta molto –. – Voi sete pur dessa anco alla voce – soggiunse l’oste, e parea così e chiamata la moglie e le figliuole, fece lor Martellino vedere, e tutte giuravano lui esser la cantatrice che già dicemmo. Allora Martellino voltatosi alle donne disse: – Orsù da che più non mi posso celare, arrecatemi pure un abito donnesco, ch’io da femina mi vesta –. E dalle donne fugli prestamente arrecato et egli vestitosi e somigliando sempre più per detto di chiunque il vedeva, colei che dicevano, udendo la festa che allora facevasi, tolto in mezzo da Marchese, e da Stecchi là s’aviò e nella sala comparso, tutte le donne, dal volto e dall’abito parimente ingannate, gli si levarono incontro a riceverlo, e chi li toccava la mano, chi l’abbracciava, chi il baciava, chi lo assideva in grembo. E così tra loro ricevendolo niuna donna e niuna donzella fu, che non li desse di dolce amistà chiarissimo segno. E Martellino poco parlando e a tutte volgendosi, godeva il suo inganno e questi troppo cortesi favori; mentre si facevano queste accoglienze, era per aventura un fiorentino vicino a questo luogo, il quale molto bene conosceva Martellino, il quale veggendolo et riconosciutolo subitamente, comincio a ridere et a dire: – Domine fallo tristo, chi non avrebbe creduto, veggendol venire, che egli non fosse stato una femina? –. Queste parole udirono alcuni Trivigiani li quali incontanente il domandarono: – Come? non è costei femina? –. A’ quali il fiorentino rispose: – Non piaccia a Dio. Egli è uomo come qualunque è l’un di noi; ma sa meglio che altro uomo, come voi avete potuto vedere, far queste ciance di contrafarsi in qualunque forma vuole –. Come costo ebbero udito questo, non bisognò più avanti; essi si fecero per forza innanzi e cominciarono a gridare: – Sia preso questo traditore, il quale per schernire le nostre gentildonne e noi, qui in abito di donna è venuto –. E così dicendo il pigliarono e giù del luogo dove era, il tirarono; e presolo per li capelli e stracciatigli tutti i panni in dosso, cominciarono a dargli delle pugna e de’ calci; né parea a colui esser uomo, che a questo fare non correa. Martellino gridava: – Mercé vi prego –, e quanto poteva, si aiutava. Ma ciò era niente. La calca gli multiplicava ognora addosso maggiore. La qual cosa veggendo Stecchi e Marchese, cominciarono fra sé a dire, che la cosa stava male e di se medesimi dubitando, non ardivano d’aiutarlo, anzi con gli altri insieme gridavano ch’ei fosse morto, avendo nondimeno pensier tuttavia come trarre il potessero delle mani del popolo il quale fermamente l’avrebbe ucciso, se uno argomento non fosse stato, il quale Marchese subitamente prese. Che essendo ivi di fuori tutta la famiglia della signoria, Marchese come più tosto poté, n’andò a colui che in luogo del podestà v’era, e disse: – Mercé Signor, egli è qua un malvagio uomo, che m’ha tagliata la borsa con ben cento fiorini d’oro. E per non esser riconosciuto ha preso habito di femina, io vi prego, che voi il pigliate sì, che io rihabbia il mio –. Subitamente udito questo, ben dodici de’ sergenti corsero là dove il misero Martellino era senza pettine carminato et alle maggior fatiche del mondo rotta la calca, tutto rotto e tutto pesto il trassero loro delle mani e menaronlo al palagio dove molti, seguitolo, che da lui si ritenevano scherniti, avendo udito che per tagliar borse era stato preso, non parendo loro aver alcun’altro più giusto titolo a fargli dar la mala ventura, similmente cominciarono a dire ciascuno, da lui essergli stata tagliata la borsa. Le quali cose vedendo il giudice del podestà, il quale era un ruvido uomo, prestamente da parte menatolo, sopra ciò lo’ncominciò a essaminare. Martellino rispondea motteggiando, quasi per niente avesse quella presura; di che il giudice turbato, fattolo legare alla colla, parecchie tratte delle buone li fece dare con animo di fargli confessar ciò che coloro dicevano, per farlo poi appiccare per la gola. Ma poi che egli fu in terra posto, domandatolo il giudice se ciò fosse vero, che coloro incontro a lui dicevano, non valendogli il dire no, disse: -Signor mio, io son presto a confessarvi il vero, ma fatevi a ciascun, che mi accusa, dire quando e dove io gli tagliai la borsa, et io vi dirò quello, che io avrò fatto e quello che no –. Disse il giudice: – Questo mi piace –. E fattine alquanti chiamare, l’un diceva che gliele avea tagliata otto dì eran passati, l’altro sei e l’altro quattro e alcuni dicevano quel dì stesso. Il che udendo Martellino, disse: – Signor mio, essi mentono tutti per la gola. E che io dica il vero, questa prova ve ne posso dare; che così non fussi io mai in questa terra entrato, come io mai non ci fui, se non da poco fa in qua. E che questo che io dico sia vero, ne può far chiaro l’ufficial del Signore, il quale sta alle presentagioni, et il suo libro et ancora l’oste mio. Perché, se così trovate come io vi dico, non mi vogliate ad instanza di questi malvagi uomini straziare et uccidere. Mentre le cose erano in questi termini, Marchese, e Stecchi, li quali aveano sentito che il giudice del podestà fieramente contro a lui procedeva e già l’aveva collato, temetter forte, seco dicendo: – Male abbiam procacciato, noi abbiamo costui tratto della padella et gittatolo nel fuoco –. Per che con ogni sollecitudine dandosi attorno et l’oste loro ritrovato, come il fatto era gli raccontarono. Di che esso ridendo, gli menò ad un Sandro Agolanti il quale in Trivigi abitava et appresso al signore avea grande stato et ogni cosa per ordine dettagli, con loro insieme il pregò, che de’ fatti di Martellino gl’increscesse. Sandro, dopo molte risa, andatosene al signore impetrò che per Martellino fusse mandato e così fu. Il quale coloro che per lui andarono, trovarono ancora in camicia dinanzi al giudice e tutto smarrito e pauroso forte. Perciocché il giudice niuna cosa in sua scusa voleva udire. Anzi, per aventura avendo alcuno odio ne’ Fiorentini, del tutto era disposto a volerlo fare impiccare per la gola et in niuna guisa rendere il voleva al Signore, infino a tanto che costretto non fu di renderlo al suo dispetto. Al quale poi che gli fu davanti et ogni cosa per ordine detta, gli porse prieghi che in luogo di somma gratia, via il lasciasse andare. Perciocché infino che in Firenze non fosse sempre gli parrebbe il capestro aver nella gola. Il Signore fece grandissime risa di così fatto accidente e fatta donare una roba per uomo, oltre alla speranza di tutti e tre di così gran pericolo usciti, sani e salvi se ne tornarono a casa loro.

*   *   *

Il testo del Groto è, a suo modo, affascinante.
Come si è detto, non ci troviamo davanti ad uno scrittore scadente o privo di genio. Si potrebbe dire: un innamorato di Boccaccio che sente il bisogno di correggerlo. Che giudica la correzione un buon lavoro, un lavoro doveroso. Oggettivamente, oltre gli scrupoli antiriformistici.
Con quale criterio?
Basta dare un’occhiata agli argomenti delle cento novelle, per capire.
Groto cassa con meticolosa cura tutto ciò che possa offendere o soltanto in qualche modo coinvolgere preti, suore, monaci, monache, abati, vescovi, chierici, frati, chiunque indossi una tonaca, un saio, un velo. Su cento argomenti ben 25 sono stati alterati dal Nostro (ma nel complesso le novelle poco o tanto rivisitate sono quasi il doppio, 46), che ovviamente poi gestisce di conseguenza il racconto.
Nella prima giornata sono sei le vicende alterate; tre nella seconda; cinque nella terza; uno nella quarta, nessuno nella quinta, due nella sesta, settima e ottava, tre nella nona e una nella decima.
Qui non si entra nel merito delle singole rassettature grotiane, come non si entra nel merito delle differenze intercorrenti tra Deputati, Salviati e Groto. Ma è evidente che i sacri furori si sono raffreddati nel procedere del lavoro.
All’inizio novelle integralmente (o quasi) riscritte, come nel caso della vicenda di Martellino. Poi con l’affievolirsi della vena creativa (o con l’affiorare della stanchezza o per la pressione delle scadenze), soltanto ritocchi.
Tenendo in filigrana l’originale boccacciano, la lettura di Groto ha un discreto livello di seduzione. Documenta molto più di un gusto. Rappresenta una temperie spirituale, un orientamento etico e morale, una preoccupazione, uno scrupolo che è di tutta un’epoca.
Sarebbe ingeneroso fare del Cieco, che profuse talento e passione, lo specchio di un conformismo in cui ben altre personalità si rimirarono. Anche se certi suoi camouflages appaiono di maniera, grossolani. E magari strappano un sorriso al lettore moderno.
Da dove si comincia? E da dove, se non da ser Ciappelletto (I, 1) che «essendo stato un pessimo uomo in vita, senza avedersene anzi affrettandola lui medesimo fa quella morte che meritava». Boccaccio capovolto. Abraam Giudeo (I, 2), «conoscendo per prova che i tesori non adoperati non giovano, fassi Cristiano». Di Melchisedech (I, 3) non è traccia. Si parla piuttosto come «Polifilo giovane con una novella di tre anella, cessa una gran riprensione da tre Donne apparecchiatagli». Niente monaci peccatori nella novella successiva (I, 4) perché si racconta di «un figliuolo caduto in colpa, onestamente rimproverando al padre quella medesima colpa, si libera dalla riprensione». Cassata anche «la malvagia ipocresia de’ religiosi» (I, 6), sostituita dalla «malvagità dei giudici». Bergamino (I, 7) morde l’avarizia di Cangrande della Scala, grazie ad una novella che non viene più dall’«abate di Clignì» ma dal Conte di Anversa.
Di Martellino (II, 1) si è detto. L’abate di II, 2 diventa un cavaliere. Il Conte di Anversa (II, 8) torna non dall’Inghilterra ma «di Scotia».
Facile immaginare dove Groto indirizza Masetto di Lamporecchio (III, 1). Non più in «uno munistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui»; semplicemente, in modo più casto o meglio, meno compromettente, «diviene ortolano di alcune donne». Novella in cui (come in altre riscritture grotiane, ad esempio la novella di frate Puccio, III, 4) entrano elementi del tutto contrari alle indicazioni controriformistiche, come l’astrologia e la magia. Ed è un paradosso, a ben vedere. Il Groto, che vuole mostrarsi rigorosamente ortodosso, esplora territori proibiti. Imbarazzante per chi doveva autorizzare la pubblicazione. Niente frate né confessione né «purissima conscienza» in III, 3. Si racconta piuttosto che «sotto spetie di amistà e di purissima continenza, una donna innamorata di un giovane, induce la madre di lui…». Puccio e Felice (III, 4) perdono lo stato di ecclesiastici e vengono votati a tutto altro mestiere: «Felice insegna a Puccio come egli diverrà astrologo…». La moglie del falso morto Ferondo (III, 8) non se la fa con un abate ma con uno «scolare». Alibech (III, 10) non «diviene romita, a cui Rustico monaco insegna rimettere il diavolo in Inferno». Semplicemente «si smarrisce dal padre, a cui Rustico insegna incantare il tempo…». Come si vede, Rustico non è più monaco.
In IV, 2 Alberto non è più frate ma poeta. Coerentemente «l’Agnolo Gabriello» diventa «Dio d’Amore». Da notare che la monacazione che conclude la tormentata vicenda di IV, 6 non suscita alcuna reazione nel nostro correttore/censore.
Monna Nonna de’ Pulci (VI, 3) non mette a posto con un’appuntita battuta lo sconveniente «motteggiare del vescovo di Firenze», ma il podestà della stessa città. E ovviamente di tutta altra pasta è la vicenda di frate Cipolla (VI, 10). Ecco Groto: «Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro frutti de gli alberi del Sole, in luogo dei quali trovando carboni, questi dice di essere di quegli di Mongibello».
Frate Rinaldo (VII, 3) che si giace con la comare diviene «Rinaldo che si giace con la vicina». I «due sanesi» (VII, 10) di cui si dice che «amano una donna comare dell’uno; muore il compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli e raccontagli come di là si dimori”» fanno con Groto altra cosa: «amano una donna comare dell’uno. Muore il compare e l’altro si gode per ragione di eredità». La vicenda di VII, 5 («Un geloso in forma di prete confessa la moglie, al quale ella dà a vedere che ama un prete che viene a lei ogni notte; di che mentre che il geloso nascosamente prende guardia all’uscio, la donna per lo tetto si fa venire un suo amante, e con lui si dimora») non intercetta alcuna freccia di Groto. Certo perché non si parla di preti autentici.
Il Prete da Varlungo (VIII, 2) diventa «un giovane da Varlungo». Pari sorte per il proposto di Fiesole (VIII, 4) che si trasforma in cavaliere.
Ritocchi analoghi per badessa e monaca di IX, 2 che si trasformano in vedova e donzella. Fa sorridere il Salamone di IX, 9 che diventa un più laico e lontano Socrate. Donno Gianni di IX, 10 perde solo il donno davanti al nome. Chiude questa rassegna l’«abate di Clignì» (X, 2) catturato da Ghino di Tacco: tocca ancora una volta al Conte di Anversa rimpiazzare l’augusto prelato.
Un’ultima annotazione riguarda la conclusione apposta dal Boccaccio al Decameron («Nobilissime giovani, a consolazion delle quali…»). Leggero e ingenuo, Groto ritocca qua e là, secondo l’ormai consueto cliché. Dove Giovanni dice «…aiutantemi la divina grazia…», Luigi corregge «…aiutantemi con la nostra grazia…» ecc.
Ma quel che conta è la breve premessa che Groto fa, in persona propria (le sue parole sono nettamente differenziate dal punto di vista grafico) alle parole di Boccaccio. In buona sostanza, Groto prende le distanze dal Decameron:

Questa, io non so se me la dica per oratione, o conclusione, o Apologia, o che altro, è fatta tutta contro quelle Donne, che potessero non aggradir questo libro. e per certo le persone di giudicio ameriano che il Boc. non l’havesse mai fatta. Percioché nel vero è molto fredda di ragioni et offende le Donne senza bisogno, che tutto ciò egli potea dir verso gli huommi e non verso le Donne e quello che più importa è, che egli parla troppo fuor della debita onestà e gravità sua.

La domanda che sale alle labbra è: una presa di distanza solo dalla conclusione o dall’intero libro del Boccaccio?



[1] Per ampie notizie sulla vita, sulle circostanze della morte e sul culto del Beato rinvio agli Atti, in corso di stampa, del convegno Il beato Enrico da Bolzano nel suo tempo, Treviso 9 ottobre 2015; ma si veda frattanto G. BOCCACCIO, Decameron, a c. di V. Branca, Milano, Mondadori, 1976, p.1045-1046, nota 3.

[2] Il Decameron di messer Giovanni Boccacci cittadino fiorentino Ricorretto in Roma secondo l’ordine del Sacro Conc. di Trento Et riscontrato con Testi antichi et alla sua vera lezione ridotto da’ Deputati di loro Alt. Ser. Con privilegii del Sommo Pontefice, delle Maestadi del Re Christianissimo et Re Cattolico, delli Serenissimi Gran Duca et Principe di Toscana, dell’Ill. et Ecc. S. Duca di Ferrara et d’altri… In Fiorenza nella Stamperia dei Giunti, MDLXXIII. Sul lavoro dei Deputati si veda G. CHIECCHI, Le annotazioni e i discorsi sul ‘Decameron’ del 1573 dei Deputati fiorentini, Roma-Padova, Antenore, 2001.

[3]  Per una sintetica, ma puntuale informazione bio-bibliografica sul complesso personaggio basti il rinvio alla voce di V. GALLO, Groto, Luigi, in Dizionario biografico degli Italiani, 60, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2003. Pregevoli osservazioni sullo stile del Groto sono nel recente contributo di K. LAZAR, Stilemi manieristici in un capolavoro trecentesco: Il Decameron censurato di Luigi Groto (1541-1585), in Giovanni Boccaccio: tradizione, interpretazione e fortuna. In ricordo di Vittore Branca, a cura di A. Ferracin e M. Venier, Udine, Forum, 2014, pp. 393-404.

[4] Il Decamerone di messer Giovanni Boccaccio di nuovo riformato da M. LUIGI GROTO CIECO D’ADRIA con permissione dei Superiori et con le Dichiarationi Avertimenti, et con uno vocabolario fatto da M. GIROLAMO RUSCELLI, con privilegi. In Venetia MDLXXXIII appresso Fabio et Agostino Zoppini Fratelli et Onofrio Fari (sic) Compagni.

[5]  Groto usa l’impegno assunto per ribaltare ad esempio la polemica antiveneziana nella novella di frate Alberto (IV, 2).

[6]  Lo trascrivo dall’edizione citata, con i ritocchi usuali nella grafia (et = e dinanzi a consonante, soppressione dell’h etimologica, ecc.) e nella punteggiatura.

admin