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LE MELE DI CRISTIANA

LE MELE DEI ROMANI

HANNO CONQUISTATO L’EUROPA

Intervista a Gian Domenico Mazzocato

sparvoli

A Roma e nelle terre da lei dominate ogni zona aveva la sua varietà di mela.
La mela annurca, che in Campania si mangia ancora oggi. È raffigurata in alcuni affreschi della Casa dei Cervi ad Ercolano. L’etimologia è incerta: per Plinio è da collegare con “Orco”, cioè il campano lago d’Averno. Poi le mele esotiche: l’epirotica (Epiro), la graecula (Grecia), la pelusiana (che veniva dal delta del Nilo); la siduntia (Corinto). L’elenco continua con la mela del paradiso (paradisi malum, perché il suo colore, giallo pallido tendente al verde, ha una sfumatura rosata sul lato che la rende simile alle guance di un angelo), probabilmente di origine armena, coltivata soprattutto in epoca tardo-imperiale e durante il Medioevo. E naturalmente quelle autoctone: l’amerina (Ameria, nel territorio sabino), la camerina (Camerino), la crustumina (Crustumium), la mordiana (Mordio), la orbiculata e la rotunda (per la loro forma sferica), la purpurea e la siria (per il loro colore quasi tendente al violaceo). Poi c’era la mela appia, da un Appio Claudio, così esperto di pratica agricolo che ottenne una varietà dalle caratteristiche incredibili perché, a quanto si dice, riusciva a maturare al gelo. La mela rosa è una varietà che viene forse dalla orbiculata romana. La buccia presenta una macchia rossa dalla parte di maggior maturazione perché rivolta al sole.
Ne parliamo con lo scrittore e drammaturgo Gian Domenico Mazzocato che è anche latinista di chiara fama. Ha tradotto la monumentale storiografia di Tacito e Livio ed è studioso dell’opera e della figura di Venanzio Fortunato.

Dunque mela protagonista assoluta della romanità?
Guardi che dall’elenco mancano ancora le regine della cucina e della tavola le mala cydonia, cioè le mele cotogne. E anche altre varietà di cui le dirò dopo. La mela faceva il suo ingresso nell’ultima parte del banchetto, la commissatio. Si diceva ab ovo usque ad malum (dall’uovo alla mela). Come ci ricorda Orazio (Satire, 1, 3, 6-7), infatti, il banchetto deve iniziare con le uova e finire con le mele. Per le loro proprietà digestive e per il loro gusto fresco e dolce. E siccome dopo aver ben mangiato si deve fare all’amore, serve ricordare che la mela (da sempre simbolo della femminilità e associata a Venere) era considerato il frutto afrodisiaco per eccellenza. Anche perché aveva radici profonde nell’immaginario erotico: è o non è il frutto del giudizio? Il frutto che ha proclamato la dea nata dalla spuma delle onde bella tra le belle? Inoltre la mela è simbolo di potere. Perché è una sfera (come il mondo, come il cosmo) e contiene in sé i semi della vita. Nella simbologia degli imperatori romani c’era una mela da recare con la mano sinistra (e la destra stringeva lo scettro!). Fascino irresistibile: Atalanta fu sconfitta nella corsa solo dal suo desiderio per le mele d’oro delle Esperidi. Non le viene in mente che New York è detta La grande mela? Con radici proprio in Roma, come le ho detto.

Ma come era presente nella gastronomia romana la mela?
Posso ampliare la sua domanda? Si può dire che la storia dell’impero romano è anche la storia della mela. Anzi. La mela ha fatto la storia di Roma. Fresca e leggera da trasportare, è il frutto prediletto dei legionari romani che ne conservano i semi e li piantano ovunque si insedino. Dalla Francia all’Inghilterra. Ce li immaginiamo durante le lunghe marce, tuffare una mano nello zaino e sbocconcellare una mela senza fermare il passo. Dissetante e nutriente. Orazio ci dice che era di gran lunga il frutto più diffuso in tutta Italia. L’Italia era anzi, un “unico, grande frutteto”.

Con qualche luogo particolarmente deputato?
Sì, in questo grande frutteto i legionari sperimentarono che il Friuli possedeva le migliori condizioni climatiche e uno dei terreni più adatti alla coltivazione del melo. Noi conosciamo bene il malum matianum, che è da considerarsi la prima mela autoctona del Friuli. Deve il suo nome a Caio Mazio, molto attivo nel territorio di Aquileia. Della presenza non solo nella gastronomia friulana ma anche nella cultura di questa regione abbiamo testimonianza dal pavimento musivo di una domus aquileiana del I secolo a C: l’asaraton, cioè il pavimento “non spazzato”, un trompe l’oeil fantastico. …per non dover fare troppo spesso le pulizie, ci si faceva il pavimento che sembrava sporco nonostante ogni lavaggio e nonostante tutte le scope. Un vezzo.
Lo storico Suetonio ci ha poi tramandato la memoria di un Domiziano solitario e serotino. Alla sera la sua cena era costituita solo da una mela maziana accompagnata da un po’ d’acqua. E Apicio, quando fa la lista dei minutalia (il minutal è una specie di tartare o di fricassea di pesce o carne, con cui si possono confezionare anche salsicce) ci parla proprio del minutal matianum, a base di mele maziane. La sua ricetta: “Metti in tegame olio, salsa, brodo, taglia dei porri, del coriandolo e piccole salsicce. Taglia a dadi la spalla cotta di porco con la sua cotenna. Fai in modo che tutto cuocia. A mezza cottura, unisci mele maziane pulite e tagliate a dadi; trita il pepe, il cumino, il coriandolo verde, la menta, la radice di silfio. Bagna con aceto, miele, salsa, e poco mosto cotto e il suo stesso sugo; uniscivi poco aceto. Fai bollire. Cospargi di pepe e servi”.

Apicio, cioè il cuoco e gastronomo più famoso dell’antichità romana…
Certo. Marco Gavio Apicio che visse nei primi anni dell’impero, tra il 25 avanti Cristo e il 37 dopo Cristo. Su di lui fiorì una vasta aneddotica. Si dice che nutrisse le murene con la carne degli schiavi. Tra il terzo e quarto secolo furono raccolte, nel suo nome, alcune ricette (ovviamente non tutte sue, come accade), col titolo complessivo di De re coquinaria (L’arte culinaria), in dieci libri. Probabilmente rimaneggiamenti e rifacimenti di opere anteriori, non abbiamo molte testimonianze. Altrettanto probabilmente ad un primo nucleo di ricette se ne aggiunsero altre in più fasi successive.

Una sua ricetta a base di mele buona anche oggi?
In rete ho trovato la ricetta del maiale con le mele, che viene collegata a lui e al suo trattato, il maiale con le mele. Non so con quanto fondamento, comunque questa è la ricetta per la quale si può impiegare carne di maiale cruda o prosciutto di spalla, per ridurre i tempi di cottura. “Lessare la carne di maiale e tagliarla poi a cubetti come per uno spezzatino. Intanto preparate delle polpettine di carne tritata. Mettete a cuocere i cubetti di maiale e le polpette in una casseruola nella quale avete fatto soffriggere olio, garum, porri e coriandolo tritati. Fate insaporire poi bagnate con un po’ di brodo e fate cuocere. A metà cottura aggiungete mele tagliate a pezzi. Poco prima della fine della cottura aggiungete un condimento preparato con pepe, coriandolo, menta, olio, aceto e miele e ispessite con della farina”. Il garum è una salsa di cui non conosciamo i componenti (forse fatta con gli avanzi, che ovviamente sono di volta in volta differenti) ma sappiamo che sarebbe stata piuttosto dura per lo stomaco di noi moderni e probabilmente anche per il nostro olfatto. Un’altra ricetta è il ius in dentice asso, cioè una salsa per il dentice arrosto. Vi entrano con pepe, menta, ruta e altro, anche le mele cotogne. Bisogna andare a leggersi tutte le varianti dei minutalia. Il ricettario ne elenca ben otto tra le quali si segnala il Minutal ex iecineribus et pulmonibus leporis (cioè con fegato e polmoni di lepre, dovrebbe essere l’antenato del nostro lievaro coa pearada). La mela cotogna entra praticamente in tutte le ricette.

Se le mele erano così importanti si sarà posto il problema della loro conservazione.
C’è tutta una letteratura sulla conservazione delle mele. In molto case c’era un locale dedicato proprio alla conservazione del frutto, il pomarium. Rischio di essere un po’ lungo ma vedrà che ricchezza di informazioni. Con cose che la scienza popolare ha conservato nei secoli. Per esempio certe operazioni si fanno solo in luna calante. Il primo a darci consigli è ancora Apicio. Me lo lasci dire con le sue belle, icastiche parole: in calidam ferventem merge, et statim leva et suspende. Dunque rapida, velocissima immersione in acqua bollente per poi lasciarle appese. Oppure si prende una mela perfetta con rametti e foglie. Poi la si fa riposare nel miele, in un recipiente di coccio. Problema che assilla anche altri. Lucio Giunio Moderato Columella, vissuto nel primo secolo dopo Cristo, ci ha lasciato un trattato sull’agricoltura che ci è giunto integralmente, De re rustica, in dodici libri. Il metodo più efficace consisteva nel porre il frutto in un contenitore (preferibilmente di faggio o di tiglio) ermeticamente chiuso e sotterrato nella sabbia. Ecco le sue parole: “Molti, come fanno con le melagrane, conservano le mele cotogne in fosse o in giare. Parecchi le avvolgono in foglie di fico, poi impastano creta da vasai con morchia e ne spalmano le melagrane; quando la creta è seccata le collocano su un tavolato in un luogo fresco ed asciutto. Molti le mettono in piatti nuovi e le ricoprono con gesso secco in modo che non si tocchino. Noi non abbiamo sperimentato altro metodo più sicuro di questo: si raccolgono le mele cotogne molto mature, sane, senza alcun difetto quando il cielo è sereno e la luna calante, dopo averle pulite della lanugine che c’è sul frutto si dispongono in un fiasco dall’imboccatura molto larga delicatamente e senza esercitare pressione in modo che non possano urtare fra loro. Poi quando si è raggiunto l’orlo del contenitore si bloccano mettendo di traverso ramoscelli di vimini in modo che le comprimano moderatamente e che esse non possano sollevarsi quando verrà aggiunto il liquido. A quel punto si riempie il contenitore fino alla sommità di miele quanto più possibile di qualità e liquido fino a che i frutti sono totalmente sommersi. Questa procedura non solo le conserva ma conferisce al liquido un sapore di vino cotto che senza alcuna controindicazione può essere somministrato ai febbricitanti e che si chiama miele di frutta. Bisogna guardarsi dal conservare col miele mele cotogne non mature, poiché induriscono a tal punto che sono inutilizzabili. È assolutamente inutile, poi, come molti fanno ritenendo che il frutto si guasti, spaccarle con un coltello di osso e togliere i semi; anzi, la procedura che poco prima ho illustrato è sicura a tal punto che, anche se c’è il verme, cessano di guastarsi quando si versa il liquido di cui ho parlato; infatti il miele ha la proprietà di frenare la corruzione e di non consentire che essa si propaghi; non a caso conserva intatto anche un cadavere per moltissimi anni”. Rutilio Tauro Emiliano Palladio, un ricco proprietario con possedimenti in Italia e in Sardegna vissuto nel quarto secolo, gli fa eco nella sua vasta opera sull’agricoltura (Opus agriculturae o De re rustica, in quindici libri). Raccomanda: “A febbraio si innestano i meli cotogni, meglio nel tronco che sulla corteccia … le mele cotogne vanno raccolte mature e conservate così: o poste tra due tegole se sono spalmate da ogni parte di fango o cotte nel mosto o nel vino passito. Altri conservano le più grosse avvolte in foglie di fico. Altri le mettono semplicemente in un luogo asciutto al riparo dal vento. Altri, dopo averle divise in quattro parti ed eliminato con una canna o con un attrezzo d’avorio la parte centrale, le mettono in un vaso di creta e le coprono di miele. Altri le mettono intere nel miele e per questa conservazione conviene sceglierle sufficientemente mature. Altri le coprono di miglio o le conservano separate da paglia. Altri le mettono in piccoli vasi pieni di ottimo vino oppure per conservarle preparano una mistura di vino o di mosto cotto. Altri le chiudono nei contenitori pieni di mosto, il che rende profumato anche il vino. Altri le chiudono in una padella di creta separate l’una dall’altra e la sigillano con gesso secco”.

Torte di mele?
Non possono mancare. I Romani non conoscevano zucchero o dolcificanti diversi dal miele. Tuttavia usavano per i loro dolci, frutti come la mela. Questa è la torta di mele, la patina de malis, sempre secondo Apicio: “Triterai le mele lessate ripulite al centro con pepe, cumino, miele, vino passito, garum e un po’ d’olio. Dopo avervi aggiunto uova, farai una torta, la cospargerai di pepe e la servirai”.

Un mondo di mele di cui non sospettavamo l’esistenza, professore. Curiosità?
Quante ne vuole. Ha presente quella mela piccola, asprigna e che sembra non giungere mai a maturazione? Noi Veneti li chiamiamo “pometi” o mele selvatiche. Beh, era una varietà ben nota ai Romani, il sorbus. Delle sorbe servite calde ci ha lasciato la ricetta Gaio Plinio Secondo, cioè Plinio il Vecchio, lo scienziato e scrittore che morì a Stabiae il 25 agosto 79, mentre stava osservando e descrivendo l’eruzione del Vesuvio. “Prendi delle sorbe, puliscile, pestale nel mortaio e passale alla staccio. Snerva quattro cervella scottate, mettile nel mortaio con una decina di grani di pepe, bagna di salsa e pesta. Aggiungi le sorbe e amalgama, rompi otto uova, aggiungi una tazza di salsa. Ungi una padella pulita e mettila sulla brace. Quando sarà cotta cospargi di pepe tritato fine e servi”.

Ma questo frutto così presente aveva anche altri usi, fuori della cucina?
Dalla mela i Romani ricavavano anche profumi e unguenti. In principio era un uso limitato all’area del sacro. Per fumum, come dicevano (questo è appunto l’etimo del nostro profumo), con riferimento al fumo che faceva salire le cose umane nelle sedi degli dei. Originariamente, infatti, l’uso del profumo era limitato alla funzione sacrale. Uno dei profumi più utilizzati era l’olio di mela cotogna come ci ricorda sempre Plinio il Vecchio, il melinum, che faceva da base a molti unguenti in associazione con altre essenze. Gli unguenti trovavano poi largo impiego nelle terme, per i massaggi.

E in medicina?
Medicina e cosmesi, dato che si parla perfino della formula per far ricrescere i capelli. Verrebbe voglia di tornare a sperimentare. Ce ne parla Plinio il Vecchio nella sua opera in 37 libri, la Naturalis historia. Con le sue parole: “Le varietà di mele hanno molti impieghi medicinali. Quelle che maturano in primavera sono aspre e nocive allo stomaco, agitando il ventre e la vescica, nuocciono ai tendini. Cotte sono più proficue. Le mele cotogne sono invece più benefiche se cotte; crude tuttavia, purché mature, giovano alla dissenteria, alle affezioni biliari e al morbo celiaco. Non hanno uguale efficacia quando sono cotte, poiché perdono il potere astringente del loro succo. Inoltre le si applica sul petto nel caso di febbre alta, mentre contro il mal di stomaco si applicano, crude o cotte, alla maniera di un cerotto. La loro lanugine guarisce le bolle nere. Cotte nel vino e in impacco con la cera fanno ricrescere i capelli. Alcuni le tritano in amalgama con un decotto di petali di rosa per le affezioni gastriche. Si dice che il loro fiore, sia fresco che secco, giovi per le infiammazioni degli occhi e per i dolori mestruali. Poi, pestandole con un vino dolce, si può trarre un liquore che fa bene al fegato. Molto benefiche sono anche le mele orbicolate che arrestano la diarrea e il vomito e sono diuretiche.”

Per chiudere?
Lo avrà capito. La mela è come il maiale, non si butta via niente. I semi si piantano, ovvio. Ma spesso servivano per fare delle collane. Venivano portate soprattutto dagli atleti.

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