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LA CHIARA TENDA DI ANNA E CHECCO

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E se ricordo frescure
di larghe ombre sull’erba
o quel vibrare terso
del cielo sopra dei gelsi,
e se ricordo la corsa
d’acqua tremante di giunchi
presso le aperte campagne
è te che sento di avere
in questi miei occhi assorti
e il canto del bel mattino
sono le tue parole.
(Dopo le ore felici,
Francesco Piazza,
dalla silloge Se vivere è un camminare leggero)

 di Gian Domenico Mazzocato

Il 21 marzo 1981 nel giardino di casa Piazza fiorisce un gazebo.
Uno spazio destinato a diventare cuore vivo del piccolo parco. È il giorno di san Benedetto, della rondine sotto il tetto, del trionfale ingresso della stagione fiorita.
L’idea è venuta ai biscarenses durante uno dei viaggi vagabondi nell’Italia centrale. Uno spuntino in autostrada in un piccolo gazebo che sarebbe diventato il modello. Materiale di recupero, all’insegna della povertà e del riutilizzo assoluti.
Luogo di ciacole, di canti, di agapi fraterne, di bevute, di sodalità.
A suo modo sacro, dunque. Robusto, aperto su tutti i lati, comodo. Grazie al lavoro dei biscarenses. Così Francesco Piazza battezza la splendida umanità che gravita attorno alla strada dei Biscari e così incide su una lastra che viene inchiodata al palo centrale.
Tra serio e faceto, come era nel suo carattere perennemente assorto e in equilibrio tra battuta e riflessione.
Fa venire in mente l’immagine che crea Paul Celan, il grande intellettuale rumeno di origini ma tedesco di madrelingua. Deve definire, conferire fattezze fisiche alla sua idea di poesia.
La poesia è parola elevata a tenda, capace di riunire sotto di sé gli altri. La chiara tenda da rizzare / grazie al canto, dice.
Per sua natura la tenda è aperta a tutti. Ammette ritardatari, considera normale che qualcuno se ne vada prima del tempo. In cambio chiede capacità di ascolto, desiderio di mettersi in sintonia con gli altri. La tenda è i quattro punti cardinali, è la rosa dei venti. Non distingue, non seleziona tra le creature con le quali il buon Dio popola il pianeta. Spazio per ognuno, rispetto di ogni idea, franchezza del dire.
Certo è uno spazio ampio e generoso simile alla chiara tenda di Celan quello che occupa l’anima di Francesco Piazza la sera del 29 luglio 1989.
Anima dolente e spazi dilatati e sonori. Anna è mancata da poco più di due anni, il 17 febbraio 1987.
Rimbomba un’eco fragorosa, eloquente come una tempesta. Solleva onde di emozioni. Checco scrive una lirica sulla scia de Il nostro Pascoli (questo il titolo, versi che appartengono alla silloge Mendicavamo canti di usignoli).
La rileggiamo, ancora coinvolti nella marea di quel sentimento.
Quando la remota / a noi estranea calura / il prato opprimeva e sfiancava / i cani nel «gazebo» ansimanti, / io declamavo Romagna / all’ombra della mimosa / «co’ suoi pennacchi di color di rosa». / Tu sorridevi e, strette le mani, / raccolta come in preghiera, / «Al mio cantuccio, dove non sento / se non le reste brusir nel grano»… / recitavi con voce dolcissima / e ancora adesso mi brillano gli occhi / ed il cuore si allarga / come un mare nel prato, / «L’ora di Barga». / Anche per te mancò il tempo / per uno sguardo amoroso / alla siepe di pirus / al giovane ontano, / alle betulle, all’acero, / al nido sfatto nel funereo tasso.
L’immagine del nido, del nido sfatto, è pascoliana.
Ma Piazza la reinventa, la cala nella sua realtà di uomo dimidiato dalla partenza di Anna Maria. Il dire pascoliano è intimo, pervaso dalla fragilità di un tempo minimo e quotidiano, scandito, irreversibile. Così è il tempo di Francesco, spezzato dalla sofferenza umana e dalla morte di Anna.
Il gazebo davvero diventa parola elevata a tenda.
Parole leggere, parole avvolgenti, parole di accoglienza, parole di disponibilità. Parole che si fanno evento educativo, parole che diventano immagine incisa e pennellata. Parole, dunque, leggere e pesantissime.
Le vele della tenda sono edificio solido, di pietra.
C’è diffusa e soffusa bellezza nella vita di Anna e Checco, c’è complementarità nel loro stare insieme. Incessante e continuamente rinnovato incontrarsi.
La vita come incontro, come proposta, come ricchezza morale. Opulenta e tracimante. In tanti abbiamo goduto di quello straordinario privilegio di essere a contatto con il percorso terreno di Anna e Checco. Tutti ne avvertiamo l’assenza. Tutti siamo consapevoli che la loro presenza sfida il tempo.
In ciò che resta.
Nel solco memoriale tracciato da Anna, nella effusione di parole che ha scritto, nell’intelligenza del suo dire. Nell’opera pittorica e poetica di Francesco Piazza. Nella fondazione che ne porta il nome e rende continuamente fresco e vivo il loro messaggio e la loro eredità morale.
Messaggio ed eredità sono fonte fresca e zampillante.
Per dirla con Checco, anche il nostro cuore si allarga come un mare nel prato. Quel mare ci obbliga a trasformare il ricordo in forza viva.
Una assenza / presenza fertilissima. Con le parole di Checco, ancora.
A notte ho appuntamento con le stelle, / infantile rifugio di ogni notte, / una pausa di intesa / raggiunta dopo tutta una giornata / di vita male spesa, / comunque consumata / nell’assenza di te, dolce compagna. (A notte, in Mendicavamo canti di usignoli, con data giugno 1987).
Appuntamento eterno con Anna e Checco sotto un cielo stellato.
Quel gazebo è icona e simbolo di uno stile di vita, di un programma morale. Può essere assunto come immagine complessiva della vita di Anna Maria Feder e Francesco Piazza. Anche come sintesi di quanto essi hanno saputo costruire, fisicamente e moralmente, in strada dei Biscari a nord di Treviso, nella zona di San Paè (o San Pelajo, se si preferisce).
Una casa aperta ad ogni ora, con la chiave nella porta e il cancello senza lucchetti: Checco, nei primi tempi, si rifugiava in bagno e fumava appoggiato alla finestra perché mal sopportava la confusione. Col passar del tempo e con l’opera di convincimento di Anna Maria, lo stile della casa divenne anche il suo stile. Si viveva in una sorta di comunità senza regole scritte. È una frase che riprendo dalla biografia di Anna Maria Feder.

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Nella mia vita professionale ho goduto della fortuna di affrontare la figura di Anna (e dunque anche di Francesco) perche la fondazione a loro intitolata mi ha affidato il compito di scriverne la biografia.
Ripeto, fondamentale per il mio lavoro di scrittore, per la mia crescita come persona. E voglio rivelare un episodio minimo ma, credo, molto suggestivo.
Il titolo di quella biografia è, come tutti sanno, Il vento e la roccia. Me lo aveva suggerito lo stesso Checco il quale, per giustificare le proprie paciosità e sedentarietà, aveva formulato la teoria che Anna, la donna, era il vento, sempre in movimento, capace di scompaginare tutto, mentre lui, il maschio, era roccia, la stabilità.
Ovviamente il titolo è l’ultima (peraltro importantissima, ovvio) cosa cui si pensa quando si scrive e si pubblica un libro. I redattori della Paoline Editoriale Libri mi dissero che era loro prassi mettersi in condizione di scegliere fra tre titoli. Io dovevo suggerirne altri due, si capisce, oltre Il vento e la roccia. Il mio imbarazzo fu grande. Lo risolsi dicendo loro che operassero pure le scelte editoriali e redazionali che parevano più adeguate, ma che, per quanto mi riguardava, il solo pensiero che non fosse quello il titolo mi faceva stare male.
Anche perché, annoto qui, entrambi erano vento e roccia, a dispetto del perentorio (ma sempre ironico) distinguo di Checco. Entrambi avevano saldezza di principi valoriali ed erano roccia. Entrambi possedevano estro, fantasia, inventiva ed erano impeto di vento.
Entrambi sapevano dove abitava il loro ubi consistam fisico e morale, entrambi avevano la leggerezza e l’intelligenza per trascorrere da un’idea all’altra e mettersi continuamente in gioco e in discussione.

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Anna Maria Feder Piazza nasce a Pesaro il 4 agosto 1933 da Antonio Feder e Matilde Coppitz, prima di tre fratelli. Seguiranno Maresa e Franco.
Si trasferisce a Roma fino al settembre del 1939. Poi, sempre seguendo il padre che è ufficiale dell’esercito, va ad abitare a Firenze dove frequenta le elementari.
Durante la guerra (1943) la famiglia, per non lasciare solo il nonno paterno rimasto vedovo, si trasferisce a Sant’Eraclio di Foligno. Lì Anna frequenta la scuola media inferiore e i due anni di ginnasio.
È il periodo in cui Anna conosce il mondo scautistico ed entra a far parte dell’Associazione Guide Italiane. Fa la sua promessa di guida il 12 ottobre 1947.
L’anno successivo, nel 1948, la famiglia si stabilisce a Treviso, nel quartiere di santa Bona. A Treviso Anna frequenta il liceo classico, in parte al Canova e in parte presso le Canossiane.
Nasce il suo impegno per trasferire la sua esperienza scout a Treviso.
In città fonda nel 1948 il primo riparto AGI, formato all’inizio da due squadriglie. Anna è dapprima caposquadriglia, poi, fino al 1964, caporiparto.
Contemporaneamente, nella casa dei genitori, porta avanti l’esperienza della stanzetta.
Diventa prima incaricata di zona (provincia) carica che mantiene fino al 1965, poi incaricata regionale della Branca Guide e in seguito commissaria centrale della Branca Guide dal 1968 al 1970.
Nel frattempo Anna, finito il liceo, si iscrive alla facoltà di lettere a Padova. Si laurea nel luglio del 1958 discutendo una tesi su Gli aspetti dell’architettura medioevale di Treviso (relatore è Sergio Bettini).
Dopo la laurea si dedica all’insegnamento nella scuola media inferiore. Il primo incarico è alle Canossiane di Treviso, poi alla scuola media di Oderzo, infine nelle trevisane scuole medie Serena e Coletti.
Nell’ambito del mondo scout, nel 1954, aveva conosciuto il pittore e incisore Francesco Piazza che il 7 agosto 1968 diventa suo marito.
Dopo il matrimonio vanno ad abitare in strada dei Biscari, civico 22.
Nell’inverno del 1981 si manifesta un tumore alla vescica. Viene operata nell’autunno del 1982.
Già nel 1972 aveva dovuto subire una isterectomia per un tumore, non maligno, all’utero.
In quel 1982 si ammala anche il fratello Franco (morbo di Hodgkin) che muore il 13 febbraio 1984.
Anna si ammala di nuovo nel 1986 (tumore ai polmoni) e muore il 17 febbraio 1987.

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Sono queste le scarne note biografiche di Anna Maria Feder. Una vita che ha i due capilinea nella natia Pesaro e in Treviso, città di approdo. Poco più di cinquant’anni. Verrebbe da dire che le anime grandi si consumano in fretta. E anima davvero grande Anna fu.
Nel suo lavoro, nella sfera degli affetti domestici, nell’accettazione della prova e del dolore. In una delle ultime uscite sul Montello, in compagnia di Lino Bianchin, amico e figlio spirituale, quando ormai era chiara la percezione del transito terreno, contemplando il panorama, si lasciò andare. Disse: “Quanta bellezza…”.
Il dolore, il rimpianto per una vita ancor giovane che fuggiva.
Straordinaria indagatrice dell’animo umano, capace di intuire il problema in un’altra persona, generosa nel cercare di aiutare. E discreta nell’attesa, mai a forzare i tempi e le scelte individuali. Come insegnante si fece carico di una infinità di pietre scartate dai costruttori e le seppe trasformare in testate d’angolo.
Accanita lettrice, inculcò nei suoi allievi la percezione di quale infinita ricchezza potesse venire dai mondi che si schiudevano nelle pagine dei libri. Riversava il suo amore per questo o quell’autore sugli altri. Un misto di istintività primigenia e di saggia ragionevolezza, i tratti cioè di una profondità morale assoluta.
Fragile, eppure dotata di una sensibilità forte, al confine con la profezia.
Ricordo quando leggevo le parole affidate ai suoi carnet de route, in preparazione della biografia.
Non avevo ancora la minima idea di come narrare il personaggio, quali tagli di luce dare al racconto per illuminare la sua personalità, quali priorità accogliere. Più semplicemente cosa mettere in primo o in secondo piano.
Confesso di aver provato paura e di essermi sentito inadeguato a seguirla negli abissi delle sue riflessioni. Ho avuto bisogno di fermarmi, di lasciare che le parole e le confidenze fatte alle carte decantassero e si stratificassero nella mia anima. Soprattutto mi pareva di violare (probabilmente sono stato il primo a leggere tutto quello che lei ci ha lasciato) e quasi profanare una vita segreta, una dimensione di sé che lei volutamente aveva lasciato in ombra.
Ad esempio i momenti in cui sentiva la solitudine e la responsabilità della sua posizione di comando. Entrava nella sede dove sarebbe stata raggiunta di lì a poco dalle altre guide. Nel silenzio come di eremo e nell’attesa, interrogava se stessa, lasciava affiorare e scorrere i suoi dubbi. Ma enfatica, mai melodrammatica, ma dura e fragile ad un tempo. Riflessioni anche doloranti sempre a ciglio asciutto. Codificava, inventariava, faceva bilanci. Mai certezze assolute, sempre rimettendosi in gioco.
Ebbene, mi sono sentito un intruso, profondamente in crisi (oltre che impari) davanti alle sue riflessioni. Ho tremato quando ho letto …Io ho imparato a guardare la vita senza falsi pudori e senza lenti. Spero che nessuno leggerà mai perché se qualcuno leggesse resterebbe inorridito che io abbia avuto il coraggio di pensare o di scrivere queste cose.
Anna spera che nessuno legga e io stavo leggendo. Per di più con la presunzione di capirla, di fare sintesi e di raccontarla agli altri.
Che fare? Ero perfino spaventato. Sennonché, ad un certo punto, proprio lei, proprio con le sue parole di intuizione profetica, di sacro presagio, mi è venuta un soccorso. E trovo una annotazione in cui afferma che se scrive, in fondo, è perché pensa che le sue parole prima o poi potranno essere utili a qualcuno.
Allora mi sono sentito accolto da Anna, nel cuore delle sue riflessioni più profonde, negli attimi di più intimo raccoglimento interiore.
Vocata all’educazione.
Pensa alle sue Guide e dice Vi dirò che vi amo con tutto l’amore del mondo, con il cuore della vostra mamma e la comprensione e l’entusiasmo della mia giovinezza. …Allora so che siete mie perché vi ho ricostruito pezzo per pezzo, come volevo io… siete mie perché ci completiamo, perché quando siamo insieme scorre quel fluido per cui voi accettate la Anna Feder così com’è… io non vi lascerò mai a costo di tutto perché, malgrado i bei discorsi degli altri, voi avete bisogno di me…
Perfino dura nella consapevolezza del proprio ruolo.
Tuttavia respiro largo e visione apertissima. La vita come avventura, la vita come gioco, come scoperta continua e come esplorazione del fuori di sé.
Nel rispetto totale delle capacità, delle scelte e dei carismi individuali.
Scrive su una rivista nei primi anni Settanta: Credo che la vita sia gioco e avventura diversi per ognuno di noi. Così mi è accaduto abbastanza spesso di dovermi tuffare in me stessa alla ricerca della mia verità e della mia essenza. All’esterno molte vite sembrano simili; si potrebbero determinare delle categorie e comodamente calarvi dentro le persone. Salvo alcuni casi sporadici, ognuno rientrerebbe in una categoria e scorrerebbe sui binari di essa assieme a migliaia di altre persone. Tutta qui la vita umana? Eh sì, senza la coscienza, sì. È la coscienza la fonte dell’avventura individuale, la mia unica possibilità di scoprire la verità e farne la mia verità, di intuire la bellezza e di andare verso di essa con amore, con il mio modo di amare che è così mio che ne posso parlare ma non lo posso comunicare.
Poi aggiunge: Ogni persona che educa ha questa responsabilità nei confronti dell’altro: aiutarlo in questa ricerca, in questa scoperta del proprio io interiore, perché educare vuol dire tirar fuori e contemporaneamente creare le condizioni adatte, perché oltre alla scoperta di sé, nasca nell’altro il desiderio di realizzare la propria avventura umana: ecco l’educazione all’autoeducazione.
Di grandioso e coinvolgente nell’educatrice Anna era la voglia di sfidare le difficoltà. E la capacità di scommettere sul futuro degli allievi a lei affidati. Meglio, la volontà di aiutarli a vincere la scommessa della vita. Anna entra nei loro problemi, se ne fa carico, ne cerca il riscatto.
Dice: Nessuno sente la tragedia di questi poveri ragazzi… La famiglia li veste e li nutre, la scuola li imbottisce e li standardizza, i cosiddetti educatori tentano di incasellarli e soffocarli, lo stato se ne lava le mani e invece bisogna amarli i ragazzi, senza stupidi preconcetti, bisogna credere in loro… sono la vita della nazione, sono la fede in un mondo migliore.
Soffre per gli educatori che compiono un delitto ogni volta che avvicinano un ragazzo. Contempla con dolore la condizione di solitudine degli adolescenti alle prese col caos del mondo.
Personalità affascinante, eletta senza essere aristocratica. Sensibilità acuta e generosità. Anna era diversa, unica. Sapeva essere elastica ed accomodante, non giudicava mai. Accettava ognuno, accettava ogni idea.
Sapeva che ogni persona è portatrice di una valore proprio e irripetibile. E lei aveva affinato una particolarissima sensibilità che la portava a far affiorare quel valore, a portarlo alla superficie. Come si dice, era maieutica. Aiutava a dipanare le interiorità.
Prefigurò le sue scelte e la sua vita in quel miracolo umano prima che pedagogico che fu la stanzetta.
Una iniziativa nata dopo la morte di don Ugo De Lucchi, nel 1959, e sulla sua scia. Don Ugo era assistente ecclesiastico di Checco, ma Anna, a quel tempo già fidanzata di Checco, aveva avuto con lui solo una breve conversazione. Avvertì tuttavia l’esigenza di raccogliere tanti ragazzi che si trovarono di colpo senza luogo di aggregazione. Creare subito un luogo deputato alla donazione. Ecco il posto giusto.
Una stanza grande come un soggiorno, nella parte disabitata della grande casa dei Feder, proprio davanti alle carceri trevisane di santa Bona. Un vecchio tavolo di famiglia, tondo, al centro. Un altro tavolo, fratino, tra le due finestre. Una stufa smaltata di ceramica blu. Sulla parete opposta alle finestre una libreria nera di ferro e assi.
Adolescenti, ragazzi, uomini già fatti e adulti. Anna dava a suo padre un contributo per le spese di luce e riscaldamento. Vai e vieni continuo, libero. Orario aperto: dal primo pomeriggio fino a sera tarda, ora di cena. Al piano superiore un vecchio granaio che ospitava talora feste danzanti e magari in maschera. Nel granaio, durante l’inverno, stava il tavolo da ping pong, molto praticato, come del resto il gioco delle bocce davanti a casa.
I dubbi attraversano Anna.
Non può non porsi il problema di come questa cosa appaia agli altri, in primis ai padroni di casa, i suoi genitori cioè. Più che ai pettegolezzi che possono nascere e alle interpretazioni equivoche di quella realtà, teme che i primi a fraintendere siano proprio i fruitori del luogo. Ha paura che diventi un posto per perdigiorno, che l’opportunità che intende offrire diventi piuttosto l’occasione per impigrire, per perdersi in chiacchiere.
Anna seguiva con particolare impegno qualcuno che doveva sostenere esami universitari o preparare la tesi. Ci sono gli amori che fioriscono e durano una breve stagione. Nascono grandi amicizie e colleganze, crogiolo e fucina di rapporti che hanno resistito al logorio degli anni.
Anna era il centro.
Aveva una capacità unica di saldare vincoli, di riappacificare, chiarire, mediare. Talora sembrava perfino dimenticare se stessa. Qui è la forza del suo impegno, la potenza della sua visionarietà. Quando nasce la stanzetta, Anna ha 26 anni, sente il peso delle sue scelte.
Oggi tanti dicono di aver trovato la loro strada in quella stanzetta. Di aver messo a fuoco la propria scelta esistenziale.
Sì, fu un miracolo, una vicenda irripetibile.
E Anna? Anna, anche, si sentiva sola, insicura, inadeguata.
Molte volte afferma che vorrebbe fare di più. Scrive: Nessuno è più solo di me per colpa del mio cuore che mi lega a tutti e non si accontenta e vuole ancora toccare gli abissi più inesplorati e vuole sentirsi sempre vivo, sempre, ed è una continua corsa tra vertici e abissi. Vivo per impulso, mi sono cacciata nelle situazioni più difficili, più paurose, sempre per irrefrenabile impulso ed ora, giunta a questo punto, non sono più capace di soffrire per gli altri, non so cosa significhi vivere preservando se stessi, non so più cosa voglio.
È la solitudine dell’aquila che vola alto e tutto vede. È lo smarrimento delle anime scelte e profondamente vocate ad una missione.
Su questo piano, certo, è avvenuto il suo incontro con Francesco Piazza di cui è stata donna e musa ispiratrice,
Così diversi, eppure fatti l’uno per l’altro. A completarsi a vicenda. Lei ci scherzava, non le erano certo mancati i corteggiatori. Ho scelto Checco, diceva, perché ero sicura che mi avrebbe fatto ridere. E ridere tanto.
In realtà era sempre lei. Generosa nello scommettere sulle risorse degli altri, sulla loro intelligenza. Francesco Piazza non sarebbe stato l’artista che è, consegnato alla storia dell’arte italiana, senza di lei. Senza la sua visionarietà, senza il suo cuore profetico, senza il suo vedere oltre il velo della contingenza.

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Francesco Piazza nasce a Venezia, in Campo San Polo, il 17 agosto 1931 da Giuseppe Piazza e Dina Fraschetti, secondo di due fratelli.
Il maggiore, Gino, è nato nel 1926, nome preso dallo zio, generale degli alpini, eroe dell’Ortigara e medaglia d’argento. Alla morte del padre, procuratore speciale delle Assicurazioni Generali, avvenuta nel settembre del 1933, la famiglia si trasferisce a Treviso in via Monte Piana. Di fronte a loro abita il pittore e incisore Giovanni Barbisan.
Enrico Fraschetti, il nonno materno, pisano e pittore macchiaiolo, lo avvia in giovanissima età al disegno e alla pittura.
Fa ben presto conoscenza del suo dirimpettaio, Giovanni Barbisan, che lo indirizza alla tecnica dell’incisione.
Nel 1948 il fratello Gino trova lavoro presso la Banca Cattolica del Veneto in Asolo e la famiglia si trasferisce là. Francesco e Gino fondano lo scautismo asolano.
Nel 1952 la famiglia rientra a Treviso. Francesco entra nel gruppo scout di Santa Maria del Rovere. Dal 1952 al 1998 è dapprima akela (cioè capo dei lupetti), poi caporiparto e infine capogruppo.
Nel 1954 in occasione di una mostra scout, conosce Anna Maria Feder che diventa sua moglie il 7 agosto 1968.
Durante il soggiorno asolano aveva abbandonato gli studi che verranno completati molto più tardi con il diploma conseguito al liceo artistico di Venezia. Diploma che è il passaporto indispensabile per accedere al consenso del futuro suocero, il colonnello Feder.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta lavora presso le Grafiche Trevisan di Caselfranco Veneto come disegnatore pubblicitario.
Nei primi anni Sessanta apre un suo studio pubblicitario. Lo chiama SIVA: apparentemente un acrostico ma in realtà trasposizione di si va. Cioè nel senso di si comincia, mi butto in questa impresa. Realizza anche copertine importanti per alcuni giornali, in particolare per il settimanale diocesano di Treviso, La vita del popolo.
A metà degli anni Cinquanta (e fino a tutto il 1974) abbandona l’incisione continuando tuttavia a dipingere.
Nel 1974 riprende ad incidere. Successivamente chiude lo studio pubblicitario per dedicarsi esclusivamente all’incisione e alla pittura ed inizia il suo itinerario espositivo con una prima rassegna di dipinti e disegni presso il Circolo Ufficiali di Treviso.
La sua prima personale.
Nel 1981 viene diagnosticato alla moglie un tumore alla vescica e la sua attività artistica subisce una prima battuta d’arresto.
Nel 1985 pubblica Alberi Anime (ed. Circolo Culturale Teorema). Non è la prima silloge poetica, perché nella sua infanzia la mamma aveva raccolto e in qualche modo pubblicato le prime liriche del precoce poeta.
Nel 1987 la moglie Anna muore per una recrudescenza del male. E l’attività di Francesco subisce una seconda forte scossa. Nel 1989 crea la Fondazione Anna Maria Feder Piazza.
Nel 1992 esce la silloge poetica Mendicavamo canti di usignoli (ed. La Stamperia dell’Ariete). Nel 2017 uscirà postuma la silloge Se vivere è un camminare leggero (ed. Biblioteca dei Leoni).
Nel 1995 viene colpito da un ictus che pone fine alla sua attività artistica. Il fratello Gino affida la cura di Francesco alla Fondazione e ai suoi amici.
Nel 2003 viene meno Gino.
Francesco muore il 28 luglio del 2007, poche ore dopo aver avuto tra le mani Il vento e la roccia, la biografia della moglie ancora fresca di stampa. La attendeva, con tutta evidenza.
Sul volto ricordo un misto di sorriso e pianto. E un tremito profondo.
La notizia della sua morte mi raggiunse mentre visitavo l’imponente biblioteca del monastero di Yuso, a San Millán de la Cogolla, qualche chilometro da Logroño, in Spagna.
Lì, sulla via di Santiago di Compostela, ho pianto uno degli amici più straordinari della mia avventura esistenziale, fratello e maestro.
In quel luogo di preci e studio, su quella strada millenaria battuta da schiere infinite di pellegrini, ho pensato che un’anima bella come la sua non aveva bisogno di preghiere per salire a contemplare il padre.

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La visione e pochi appunti a carboncino sul nitore del foglio.
È un gioco, anche, perché la mente lavora a rovesciare l’immagine, una sorta di negativo, una visualizzazione allo specchio. Raschietti e bulini. La paziente incisione della cera stesa sulla lastra di metallo, la vigile attesa della morsura nell’acido e la pulitura. Poi la prima, trepidante inchiostratura e infine la trionfale pressione del torchio. Il genio e la manualità.
E la dimensione sacrale come confida in versi: Sarà l’odore di incenso / che emana la lastra, / sarà il profondo dolore / che mi frequenta l’anima…
Accanto all’educatrice maieutica, l’artista che fa cantare le lastre incise, che trasforma ed esalta la bassura della materia. Maieutico a sua volta.
Quando, il 25 settembre 1995, esplode nella sua vita il grande silenzio indotto dall’ictus, Francesco sta lavorando ad una grande acquaforte .
Il mondo piccolo e immenso del suo giardino, il pioppo, solitario gigante mosso dal vento. Appartiene alla sfera della terra e appartiene al cielo. Il pioppo è mediazione, preghiera che sublima, dimensione terragna e metafisica ad un tempo. Il mistero insondabile della creazione artistica che si leva sul magma della vegetazione sottostante.
Francesco è solito commentare le sue incisioni con una didascalia, molto spesso un versetto tratto dalle sacre scritture.
Frequenta con gioia (e lì attinge) la poesia del salmista. Per quella sua acquaforte Piazza ha scelto il salmo in cui Davide riflette sulla sorte del giusto e dell’empio. Il silenzio davanti al dio è segno fisico (tattile, si potrebbe dire) della speranza in lui. Perché, dice il salmista, la giustizia del Signore darà secondo i meriti.
Piazza raccoglie, in didascalia, il monito al silenzio: Sta’ in silenzio davanti al Signore.
In quel momento l’artista sta codificando e narrando una vera e propria poetica del silenzio. Sta pregando, sta recitando un esorcismo.
L’uomo in dialogo con la propria creatura e, per il tramite di questa, con l’intero creato che è a sua volta un farsi continuo e cangevole.
Quando arriva il grande silenzio è come se deflagrasse il tempo, che si interrompessero un rito e una liturgia. Uno sfregio che è fardello pesante sull’anima di tutti.

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Piazza è stato pittore straordinario, incisore eccelso.
Ha inciso qualcosa come 600 lastre, praticamente tutte conservate dalla Fondazione. Ha incominciato ben prima dei vent’anni, durante il soggiorno asolano, un periodo fertile di tentativi e sperimentazioni. La prima lastra (probabilmente una sola copia tirata) è andata perduta. Tanto che anni dopo attribuirà il titolo di prima acquaforte ad una incisione del 1949 (La casa dei Romano, prima acquaforte della mia vita).
Nel 1954 vince il primo premio alla Mostra del Bianco e Nero di Cittadella. L’incisione (San Nicolò, 1952) è uno sguardo sopra i tetti di Treviso, con in lontananza la quasi millenaria chiesa cui era annesso il convento dei domenicani (oggi seminario vescovile). Poi, alla metà degli anni Cinquanta, l’acquaforte sparisce dalla sua vita.
Dirà così, di quel periodo di offuscamento, in un’intervista: mi parve di non avere più la quiete, la serenità, i tempi lunghi necessari per quel tanto di introspezione, di solitudine, di tranquillità spirituale che ti fanno godere il dialogo con la lastra.
Il dialogo con la lastra. Parole che valgono un’intera poetica e perfino un racconto.
Riavvicinerà bulini e lastre nel 1974, quasi venti anni dopo. Si deve vivere. L’esperienza del lavoro fisso alle Grafiche Trevisan di Castelfranco è ricordo ormai perfino sbiadito. Geniale anche nel settore della grafica pubblicitaria. Disegnatore pulito, immaginifico, essenziale. Ha il talento di chi sa veicolare idee. Ma quel mercato è una giungla. Il design di una bottiglia per grappa reca qualche lira nelle sue tasche e una fortuna in quelle del committente.
A riportarlo sulle tracce del segno acquafortistico, è la necessità di trovare una strada definitiva. E sono gli amici a rimettergli tra le mani tutto il necessario. Il bulino e le lastre, le vasche e gli acidi.
Dopo qualche mese, arriva anche il torchio che evita pellegrinaggi presso stamperie aliene.
Dalla metà degli anni Settanta fino al 1995, Francesco Piazza vive il ventennio fondamentale del suo itinerario artistico.
Il segno apprende la virtù di una leggerezza e, ad un tempo, di una densità precluse anche a grandi geni dell’incisione. Il suo mondo poetico si evolve e matura. Acquisisce profondità e spessore. Il dolore lo macera, lo aiuta a scoprire vie nuove e nuove aperture.
Apprende a leggere con acutezza e sensibilità il mondo che lo circonda. Non solo nella grafica. Anche la sua tavolozza si calibra, acquisisce i verdi e gli ocra caldissimi che sono lo strumento narrativo che lo contraddistingue.
Molto di più di un semplice stilema, piuttosto un modo di essere.
Il fulgore primaverile del farsi della natura, l’apparente smorzarsi della forza fecondatrice di questa nello spegnersi dell’autunno, l’attesa di una nuova esplosione di fertilità. Tutto trova nel suo intenso paesaggismo una sintesi assoluta.
All’inverno dedica poi le sue acqueforti più delicate e magistrali. In certi paesaggi nevosi il segno si fa impalpabile e ha tuttavia una sua consistenza scandita. Si vorrebbero suggerire parole come portento, miracolo, prodigio.
Il segno di Francesco Piazza soggioga, affascina, incatena.
La grande antologica che il trevisano Museo Bailo gli ha dedicato nel 2017 documenta questa capacità dell’artista di intessere un dialogo serrato e dialettico col fruitore. L’opera grafica come l’opera pittorica. La natura morta come il ritratto, il microcosmo del giardino di casa come l’universo delle campagne e delle colline trevisane.
Lino Bianchin ha detto parole di grande intelligenza che aiutano a capire come l’artista si leghi alla dimensione scautistica. Un nodo importante, centrale alla comprensione della personalità di Francesco.
“È stato, dice Bianchin, uno scautismo che anticipava, nei suoi fondamenti, l’enciclica Laudato si’. Là dove si sottolinea che l’autentico sviluppo umano deve prestare attenzione anche al mondo naturale e tener conto della natura di ciascun essere e della sua mutua connessione in un sistema ordinato… perché il libro della natura è uno e indivisibile e include l’ambiente, la vita, la sessualità, la famiglia, le relazioni sociali.
È questo lo scautismo che affascinò Checco e che lo provocò fino a fargli impegnare tutte le sue energie, la sua fantasia e le sue abilità, per un servizio educativo del quale abbiamo conosciuto la straordinarietà e del quale siamo tuttora debitori. Uno scautismo che proponeva un’adesione gioiosa al cristianesimo. Il cristianesimo del Gloria, più che della penitenza”.
Che straordinario narratore di questa terra, cantastorie ammaliante, affabulatore trasognato e assoluto. È l’umiltà dei grandi, l’umiltà di san Francesco che si lascia attraversare dal mistero metafisico del creato per tradurlo e irradiarlo al resto dell’umanità.
La grandezza di Francesco Piazza commuove e travolge.
Una ricerca incessante, non uno sterile perfezionismo. Che si esprime anche attraverso le didascalie giustapposte alle sue opere grafiche.
Mi sono trovato a dire nel catalogo di quella antologica al Bailo che la didascalia reclama un ruolo non subalterno rispetto all’immagine perché la parola ha tale forza orfica e colmativa che, ben lungi dall’eludere il confronto con l’immagine stessa, ne esalta piuttosto la percezione, circoscrive l’area sentimentale, emozionale, estetica, filosofica in cui essa va intesa. Anzi: l’artista indica con mansuetudine un’alternativa a se stesso, una complementarietà al suo dire per segni grafici. E al tempo stesso, forte di una rivelazione che rinsalda e sostiene il suo mondo poetico e morale, accende con mano ferma la lampada che non può stare sotto il moggio perché deve spandere il fascio di luce sulla struttura del creato.
Ancora oggi, a ripensarci, mi pare una verità definitiva.
Anche perché una riflessione sul valore delle didascalie nelle opere di Francesco Piazza porta sulla spiaggia ampia e in chiaroscuro di Francesco Piazza poeta.
Che i suoi versi siano di assoluta autonomia rispetto alle scuole e alle consuetudini delle mode e dei modi oggi imperanti, è evidente a chi legge le tre sillogi che raggruppano la sua produzione.
Come si è detto, le prime due edite in vita, la terza postuma.
La vicenda che ha portato alla pubblicazione di Se vivere è un camminare leggero (praticamente in contemporanea con l’antologica al Bailo) è esemplare sotto più aspetti.
In primo luogo documenta la simbiosi con Anna Maria. Durante la ricognizione dei documenti utili a scrivere la sua biografia (io non ringrazierò mai a sufficienza gli amici che mi hanno aiutato nel mio lavoro, a cominciare da Lino Bianchin, Gianni Tosello, Nevio Solideo Saracco) è emersa una mole imponente di materiale inedito di Piazza: poesie coeve ad altre già apparse nelle precedenti sillogi e un corpus poetico importante successivo al 1992, anno di pubblicazione di Mendicavamo canti di usignoli.
La poesia di Checco si nutre prima della presenza e poi della assenza di Anna. Comunque un nume, comunque una guida.
I versi affondano le radici nelle emozioni quotidiane e nella memoria. Il meccanismo è tipico. Una piccola occasione, uno spunto minimo, un evento minuto nel vissuto quotidiano. E di lì il pensiero spazia, il piccolo flutto diventa ondata e maroso. Fa volare alti, ci porta nei labirinti dell’umano esistere.

Poi la capacità pittorica di Francesco sciorina anche qui il meglio di sé. Il poeta risolve il suo dire in chiare immagini, gioiose e dolenti ad un tempo. Una luce che allude alla penombra, agli angoli dell’anima dove ci si raccoglie a riflettere, a ripensare e, se possibile, a progettare futuro.
E infine questi versi, recuperati in funzione del lavoro su Anna, hanno rivelato tali forza e vitalità da chiedere di essere valorizzati autonomamente in una silloge che racchiudesse e rivelasse il tutto.
Oggi come allora (quando li ebbi in mano, quando li rilessi, quando cercai di coglierne la filigrana dovendo redigerne la prefazione) mi pare che due siano i tratti distintivi della poesia di Piazza. Il sentimento dell’attesa e la presenza del mistero nella vita degli umani.
Che a ben vedere si possono tranquillamente estendere alla complessiva produzione poetica di Piazza. Ho scritto che l’attesa può essere dramma, sussulto, speranza e disperazione: Quando il mio orizzonte è deserto /e scompaiono i monti azzurri / io mi richiudo nell’ombra. / Lascio le nubi salire / e scomparire i raggi del sole / che da esse gemendo sfuggono / per ritornare come lame di spade.
L’attesa si colloca nel cerchio di un orizzonte che si spopola. Un nulla, un deserto. Condensa in respiro breve i monti azzurri, le nubi che salgono. Poi i raggi solari nel gemito del tramonto e il loro riaffiorare, come spade affilate. È la forza immaginifica della poesia di Piazza. Gorgo di energia coinvolgente.
E il senso del mistero. Avvertii allora e avverto oggi che la poesia di Francesco chiama (e qui esiste contiguità assoluta con la pittura e l’incisione) il silenzio, in una rarefazione di sentimenti ed emozioni. Perché il Silenzio si fa nume e divinità e svela i palpiti più segreti e remoti. I sussurri vitali.

Mi pare ancora vero e valido. Ripenso (e trascrivo) versi come Perché credo di udire / lo smunto ritorno dell’eco / se per nessuno io manco. / E di nessuno io saluto / pianti di dipartita? / Chi mi ha lasciato o di quale / mano sull’uscio attendo / il premere, certo, al ritorno? / L’ombra che mi accompagna / è di sentieri in sole, / e non la posso stringere / come donna tremante.
Oppure. Grazie per tutto ciò, che, impossibile, / è balenato come scoppio di luce / alla tua magica mano / e per le ombre tenere, tese / al passo tuo docile e piano. / Grazie per quelle dita leggere / che sogni e speranze tessevano / e per quei tuoi sorrisi / che sfioravano cose e pensieri.
Vibra, in queste liriche, l’eco sonora del vivere, della quotidianità, dell’attesa di quello che sarà di noi dopo il salto nel grande, misterioso buio.
Viene da pensare a Osip Ėmil’evič Mandel’štam, lo scrittore russo morto nel ’38 nel gulag di Vladivostok, che definisce la poesia un aratro. Capace di mettere allo scoperto e di portare alla luce i più profondi strati del tempo. Lui li chiama la terra nera del tempo.
Quante volte ci siamo detti, fra noi sodali, Checco vuole tornare da Anna, vuole reincontrarla.
Un modo per esorcizzare il mistero e per entravi con pudore.
La certezza che Anna e Checco continuano a far fluire il numinoso, il divino, il mistero che era in loro.

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Sì, credo proprio che sia una buona definizione, quella attinta dalle parole di Paul Celan.
Credo che Anna e Checco abbiano innalzato una chiara tenda. E che la vita stessa abbia abitato questo umanissimo tabernacolo. Una casa dello spirito e dell’umanità.
Come in un canto scout di Francesco: Pietra squadrata e stabile / nulla la scalfirà / senza di essa è fragile / ciò che si costruirà. // solo su essa valida / la casa sorgerà / con essa al centro è solida / ogni comunità. // Pietre sicure forti sarem / attenti alla Parola / lieti ed uniti agli altri darem / una certezza nuova. (Canto del campo della pietra viva, 1981. Da I 52 canti scout di Francesco Piazza, Eurocrom Libri / Zanotto editore, con allegato CD che contiene i canti eseguiti dal coro La traccia).
In una lettera allo scrittore tedesco morto nel 2015, Hans Bender, Celan scriveva: Solo mani vere scrivono poesie vere. Io non vedo alcuna differenza di principio tra una poesia e una stretta di mano. Viviamo sotto cieli cupi e ci sono pochi esseri umani. Per questo anche le poesie sono poche.
Vale per l’unicità di Anna e Checco.

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