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La bella Marca
LA BELLA MARCA PARLA QUATTRO LINGUE
Città, ville, castelli, paesaggi e colori in provincia di Treviso
Fotografie di Ruggero Piccoli
Testi di Gian Domenico Mazzocato
Traduzione dei testi in Inglese, Francese e Tedesco
Tintoretto Edizioni
Euro 16,00

Trevigiani attenti ai valori della loro terra. E Treviso con il suo territorio sempre più meta di turismo: nazionale e internazionale, colto, selettivo. In questo contesto un fotografo e uno scrittore si sono messi assieme per vincere una scommessa: proporre immagini di questa terra con un repertorio fotografico ricco (in qualità e quantità), raccontare e interpretare questa terra con testi agili e sintetici, mettere in vendita il prodotto finale ad un prezzo molto competitivo e allettante.

Dalle fotografie di Ruggero Piccoli e dalla scrittura di Gian Domenico Mazzocato è nato questo LA BELLA MARCA, un centinaio di pagine che contengono, tra edito ed inedito, 180 foto, i testi illustratitivi e le traduzioni dei testi stessi ( e di tutte le didascalie) in tre lingue (inglese, francese e tedesco).

Il libro si divide in tre sezioni (puntualmente richiamate dalla tre foto di copertina): il paesaggio e i colori; le città e l’arte, le ville venete e i castelli. Di fatto non c’è angolo di Marca (con tutte le sue città e cittadine, con la sua realtà paesana, con le sue montagne, le colline e le acque, con gli scorci d’arte) che Ruggero Piccoli non sia andato a visitare e a rivisitare col suo obiettivo curioso, traendone un racconto per immagini molto rigoroso ma anche suggestivo e pieno di fascino, tra cronaca del presente e memoria di un passato che in questa terra si respira antico ed attualissimo insieme.

Come scrive Gian Domenico Mazzocato nella sua introduzione, i libri che raccontano un territorio per immagini e/o per parole nascono da una scelta intellettuale attenta al nuovo e alla memoria. Nascono da un movimento dell’anima che presagisce il futuro e in qualche modo intende costruirlo. O almeno fornire indicazioni plausibili. È un bel lavorare, un lavorare in libertà.

È, anche, un coltivare l’intelligenza, è capacità di lasciarsi prendere da quello che potremmo definire come un meccanismo di straniamento, come usano dire i semiologi.

Che è la capacità di ricavarsi un autonomo angolo di osservazione, di proporre visuali inedite di luoghi conosciuti e visitatissimi, di raccontare aspetti ed eventi poco noti.

Tra i testi di Gian Domenico Mazzocato, ecco Ville e Castelli, che rievoca tra l’altro una amabile leggenda che ancor oggi si racconta nelle prelati trevigiane.

VILLE E CASTELLI

“Ancuo Mestre xè deventà un Versaglies in piccolo.
La scomenza dal canal de Malghera
la zira tuto el paese e po’ la scorra el Terragio fin a Treviso,
la stenterà trovar in nissun logo de l’Italia, e fora d’Italia,
una villeggiatura cussì longa, cussì unita, cussì popolada come questa.”

Carlo Goldoni, La cameriera brillante

Sui dolci declivi di Credazzo e nel cuore di Agnesina, l’estate era scoppiata da poco. Il sole alto nel cielo, i campi un tripudio di colori e profumi. Una gioia portare le pecore al pascolo. Con l’anima in fiamme, guardava Giacinto dall’altra parte della vallata, anche lui con le sue pecore. Lui distoglieva gli occhi, fingendo di preoccuparsi per una pecora gravida o del cane che abbaiava forte.

Così Agnesina, quasi lo aveva benedetto quel temporale, scoppiato all’improvviso. Si erano rifugiati in una grotta e finalmente Giacinto aveva trovato il coraggio. Le aveva dato un bacio lungo come promessa di un matrimonio che doveva essere celebrato subito. Era bella Agnesina, con i capelli lunghi divisi in due trecce e gli occhi nerissimi che sembravano more mature.

Così bella che anche Guecello, che dominava Credazzo dal suo castello turrito, si era innamorato di lei. Un giorno le era passato vicino col codazzo dei suoi amici, in caccia di un cinghiale inseguito per molte ore. Si era fermato un attimo e Agnesina gli era entrata nel cuore come uno spino di fuoco. Lei aveva abbassato gli occhi: proprio orribile quel vecchio dalla faccia deforme.

Da quel giorno un pensiero fisso si era confitto nell’animo del signore: impossibile, per lui, accettare che una ragazza così bella appartenesse ad un contadino. Alla fine dell’estate, quando i preparativi delle nozze erano già a buon punto, Guecello fece rapire Agnesina e la rinchiuse nella torre più alta. Ma Giacinto una notte si arrampicò fino alla cella della sua donna, sfidando le guardie e i pericoli. Aveva le mani piene di sangue e un fiore in tasca. Quando baciò Agnesina, se lo mise in bocca masticandone qualche petalo e facendo masticare gli altri alla sua donna. Dolci quei petali, impossibile pensare al veleno potentissimo che contenevano.

Li trovò così, al mattino, Guecello, stretti in un bacio di morte e di ribellione: come se l’inferriata che divideva i due corpi non esistesse.

Si racconta ancora questa storia tra Farra e Col San Martino, a Credazzo. Con tutta evidenza è l’ennesima variante della storia che anche Manzoni ha raccontato. Invenzione? Poco importa, ma quante storie come questa raccontano i tanti castelli della Marca, spesso ridotti a moncherini. Storie di forza e gentilezza insieme, che accendono la fantasia come i fuochi che, di torre in torre, da Pederobba fino a Maser e Muliparte, percorrevano la Valcavasia recando messaggi.

Come una storia in qualche modo violenta e gentile, è all’origine delle ville patrizie della Marca. Tantissime: quelle che sopravvivono all’incuria, al decadere dei patrimoni familiari, alle bombe belliche sono ancora 850. E tuttavia (ancora violenza) solo in piccola parte vincolate, talora abbandonate ad una progressiva rovina.

Una storia che inizia più di mezzo millennio fa, quando, nel 1436, il Consiglio dei Pregadi pubblicò il decreto per la bonifica di Treviso. “Tutti i possessi verranno migliorati, molte famiglie vi si condurranno” dirà Alvise Cornaro. Ascoltiamo Goldoni e sentiamo Andrea Palladio: il gentiluomo grande utilità e consolatione caverà dalle case di villa, dove il tempo si passa in vedere e ornare le sue possessioni. E Girolamo Priuli a fargli eco: Li nobili et citadini veneti inrichiti volevano triumfare et vivere et atender a darse piacere… facevano palazzi et spandevano denari assai.

Gente dal blasone più o meno recente, dunque, ma desiderosa di esibire ricchezza. Uno splendore attraversato da ombre già al suo apice: il 14 maggio 1509, ad Agnadello le truppe della lega di Cambrai sconfissero quelle che militavano sotto il leone di san Marco. La fine di un progetto politico di espansione e di egemonia. Come ebbe a scrivere Battista Nani, Venezia stabilì i suoi pensieri nell’arte della conservazione e della pace.

Il territorio trevigiano divenne il luogo della prima espansione. Di più: il laboratorio nel quale Venezia mise a punto i sistemi di amministrazione e di governo poi adottati ovunque. L’immagine di una Venezia intrepida scorridora dei mari diventa l’immagine di una città gaudente che cerca altrove le sue soddisfazioni. Ha usato una straordinaria immagine un grande studioso come Giuseppe Mazzotti: Venezia è simile ad una gran nave e i veneziani sospirano la “terra ferma” su cui sciamano tutte le volte che possono. Come formiche.

E non sempre benevole come dimostra la vicenda del Montello, chiuso ai Montelliani nel 1471: i roveri della collina dovevano alimentare gli arsenali, gli squeri e anche i caminetti di Venezia.

Ma le ville furono in ogni caso il trionfo del gusto e dell’arte di saper vivere. Chi più di ogni altro ne comprese, interpretò e celebrò lo spirito fu Gian Battista Tiepolo assieme a suo figlio Gian Domenico. Le ville erano delle corti sparse per la campagna. E i loro arredi, gli affreschi, lo stare nel contesto del territorio ne facevano spesso dei luoghi di curiali conversazioni e amori.

Era il gusto che veniva dal Bembo e prefigurò l’Arcadia. Ma era anche il trionfo di un disegno politico e sociale: la presenza di Venezia nell’entroterra, il suo modo di organizzare il territorio. L’immagine della villeggiatura dei Veneziani, spesa in interminabili partite notturne a faraone e bassetta lascia decisamente il posto a quella di una minuscola corte.

Era la piccola reggia di Preganziol dove Isabella Teotochi Albrizzi segnava indelebilmente la vita di Ippolito Pindemonte, di Antonio Canova, di Ugo Foscolo. Dai colloqui avvenuti passeggiando nei viali del parco e soggiornando nelle barchesse, nasceva il capolavoro assoluto della poesia italiana dell’Ottocento, i foscoliani Sepolcri.

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