0
INVISIBILI

GLI INVISIBILI CHE SONO TRA NOI_copertina

17 dicembre 2016
Folla (soprattutto giovani) nella trevigiana chiesa di Santa Caterina, ora adibita a diverse fruizioni culturali. Si presentava, a cura del Centro della famiglia di Treviso (con Adriano Bordignon) e della Comunità di Sant’Egidio (con Valerio Delfino) il volume INVISIBILI dedicato alle storie dei senzatetto di questa terra. Dieci realtà diverse raccontate da dieci scrittori e giornalisti. Oltre a me, due giovanissimi, Lorenzo Bazan e Francesco Dalto, Toni Frigo, Raffaele Milite, Fulvio Ervas, Mauro Favaro, Paolo Malaguti, Norma Follina e Francesca Gagno. Il libro riproduce i sei disegni finalisti del concorso NON CHIAMATEMI BARBONE (sezione bianco e nero). La copertina è invece un disegno di Martina Agostini, vincitrice della sezione colori. Ha letto alcuni brani l’attrice e regista Michela Pontello. Per me anche l’occasione di reincontrare un vecchio amico come Marco Goldin.
In una delle foto, tra me e Marco Goldin, c’è Lorenzo Bazan uno dei due giovanissimi (e bravissimi, molto promettenti, il loro intervento è narratologicamente un gioiellino dal punto di vista della scelta dell’angolo di visuale) scrittori che hanno collaborato al libro. Il coautore del racconto è Francesco Dalto.

 

SECONDA LINEA

Ci sono uomini cicala e uomini formica.
Angelo è un bell’uomo, alto. Ha occhi intelligenti, ammiccanti. Capelli un po’ incolti dalle parti. Una misura giusta. Jeans e camicia a righe, gli occhiali scuri infilati tra i bottoni. Veste casual, ma distinto, signorile. Sorride, sotto i baffi, in modo complice, da lupo di mare che del mondo conosce ogni angolo. Parla con eleganza, ha una gestualità trattenuta.
Lo ascolti con piacere, si vede che è abituato a gestire pubbliche relazioni. Ti tira dentro la sua storia. Tutt’altro che l’identikit di un homeless.
Mi dà il suo numero di cellulare e il suo indirizzo di posta elettronica. “Ti mando le carte di tutte le lettere che ho scritto in giro in questi anni, mi dice, la posta la apro almeno una volta al giorno”.
No, non è un homeless, mi dico.
Eppure eccolo qui, Angelo. Con la sua storia dura, col fardello della memoria. Accende una sigaretta dietro l’altra. Il pacchetto lo tiene sempre in mano, non lo ripone mai. Sui tavolini di un baretto di periferia a raccontarsi. Ordina un chinotto. È disincantato, perfino cinico e ironico verso sé stesso. Non disperato, anzi.
Mi informo.
Dorme nella vecchia scuola riadattata di via Pasubio, a Sant’Angelo di Treviso. Venti posti letto, cinque stanze, tre docce per tutti.
“Ma è già tanto, dice, rispetto al niente cui è ridotta la mia vita. Si può stare peggio, essere costretti alle panchine d’estate e alle sale d’attesa in stazione d’inverno. Molti extracomunitari, quando finiscono i giorni in cui possono stare lì, vanno a popolare le gallerie e le cantine dismesse dell’ospedale di Treviso. Qualche cartone per terra, qualche straccio. Tutti sanno, tutti chiudono gli occhi. È gente che non ha più nulla da perdere, che ha sceso tutti i gradini. Magari hanno solo 25, 30 anni e nessun futuro davanti. Noi li chiamiamo zombie. Gente che sopravvive appena, ma è come se fosse morta. Per la casa di via Pasubio abbiamo dovuto penare. Il problema era farla restare aperta tutto l’anno. Adesso stanno insieme Caritas, parrocchia e il Comune nel periodo invernale, soprattutto per il riscaldamento”.
In realtà se la casa rimane aperta anche d’estate, questo è il frutto di una battaglia personale di Angelo. Merito suo. Senza di lui in questi giorni gli ospiti sarebbero tutti per strada. Si è messo in gioco. Ha scritto al sindaco e al vescovo, poi ha trovato un’ottima collaborazione col parroco di Sant’Angelo, don Carlo Velludo.
Con noi è Mauro, volontario della Comunità di Sant’Egidio, l’organizzazione dedita al servizio dei poveri e alle opere di pace. 25 volontari a Treviso. Gli chiedo quanto è diffuso in città il fenomeno. Il dato scuote un po’. I senzatetto, i senza fissa dimora censiti sono una cinquantina. Si valuta che il numero effettivo sia almeno il doppio.
“E guarda che capita. Capita a tutti, sei in auge e in poche ore ti trovi sotto acqua. Nel letto accanto al mio dorme e vive Fabio, un ingegnere, uno con due lauree. A Venezia si è trovato invischiato in un giro di vendite immobiliari con gli Arabi e ha perso tutto. Da oggi a domani. Servito, riverito, rispettato e ricercato. Di colpo, giù rotoloni dalla scala. Sai, ci sono uomini cicala e uomini formica. Quelli che si trovano nelle mie condizioni sono quasi sempre cicale, soltanto cicale. Gli sono passati per le mani soldi a palate e il mondo intero. Hanno fatto fuori tutto, sperperato, speso senza pensare al domani. Non te lo sto neanche a dire. Fabio è una cicala. E io sono una cicala”.
Parlo con Angelo e trovo amicizie e situazioni che ci accomunano. Io scrivo di rugby, lui è stato un rugbista che ha giocato in serie A col Metalcrom allenato da quel magnifico zingaro che era Peter Cunnington. La squadra di Umberto Cossara, Ieie Fuselli, Ciccio Amadio.  Lui spingeva e saltava, un seconda linea perfetto.
“Ero alto, mi sono trovato in seconda linea con Velo. A dire il vero avevo cominciato col calcio, stopper del Dosson in seconda categoria. Bravino, direi proprio bravino. Una domenica mattina giochiamo a Quinto e io entro a gamba tesa sulla loro ala. Troppo tesa, perché gli spezzo una gamba. Dalla furia dei tifosi e dei parenti del mio avversario mi salvarono i carabinieri. Non era più aria per me. Bazzicavo la piazza e mi trovai con un pallone ovale tra le mani. Gravitavo attorno a piazza Pola. I giocatori venivano da lì o dalla Tarvisium. E il più famoso di piazza Pola, fu l’azzurro Giorgetto Fanton”.
Angelo nasce, per uno strano accidente del destino, in quel di Salerno nel marzo del 1953.
Poco a poco la storia viene fuori. Sua madre Nerina viveva a Spresiano quando si innamorò di un tale che aveva un albergo a Battipaglia. Lei lo seguì al Sud e presto arrivò Angelo.
Un enneenne. Mai riconosciuto dal padre, mai nessun rapporto con lui. “Un giorno mia madre mi chiama e dice che deve darmi una brutta notizia, che mio padre è morto. E io le chiedo: ma qual è la brutta notizia?”.
Dopo pochi mesi Nerina torna a Spresiano e poi (Angelo ha tre anni) si trasferisce a Treviso. Abitano in centro. Vivono in tre, Nerina, Angelo e sua sorella Angela.
Angelo e Angela: “Mia mamma non aveva tempo per coltivare la fantasia”, sorride.
Studia al Pio X e si diploma ragioniere. Poi si iscrive a Economia e Commercio, più per dilazionare il militare che altro.
Quando gli tocca indossare la divisa, si trova intruppato nell’ottavo reggimento alpini che visse in prima linea il terremoto e il dramma del Friuli. “A Gemona spargevamo calce viva sui morti, per bloccare i contagi e le malattie”.
Finita la naia si mette a fare il mestiere per cui ha studiato. Ragioniere di successo con vari impieghi fino a direttore della Confesercenti di Treviso. Poi libero professionista come consulente fiscale per varie aziende.
Nel 1981 aveva sposato Anna Maria e nel 1983 nasce Silvia. Non dura molto perché nel 1989 Anna Maria e Angelo si separano.
“Difficoltà di relazione, dice, ad un certo punto non ho retto più, me ne sono andato. Sì, sono stato io a lasciare. Mia moglie mi odia e fa bene, un uomo che abbandona la sua donna, sola e con una bambina di sei anni… Quanto a Silvia, le voglio bene e anche lei me ne ha voluto, almeno fino ai suo vent’anni. Poi sua madre è riuscita a farle capire il mostro che ero e lì si sono rotti i pochi rapporti che c’erano. Saranno due anni che non la vedo”.
Quel 1989 diviene l’anno cruciale della sua esistenza. Disfa la famiglia e anche nel lavoro rivoluziona tutto. Ha 26 anni e ricomincia daccapo.
“Sai, uno di quei momenti in cui avverti di dover fare reset, di dover cambiare radicalmente. Capisci che devi rinnovarti, essere un altro. Guadagnavo bene, avevo una posizione di prestigio. Però volevo cambiare. Colgo l’occasione e mi metto a lavorare nel campo dei serramenti in alluminio. Mestiere nuovissimo per me. Manovale comune all’inizio, ma poi ho preso una vera e propria specializzazione nel settore. Io e il mio socio siamo diventati bravi come montatori. Il primo incarico importante, me lo ricordo bene, ci portò in Romania, a Bucarest. Accettammo quel lavoro anche perché era risaputo che in Romania, beh, sai con le donne…”
Quando torna si iscrive agli artigiani. Prende decisamente la strada delle grandi costruzioni in metallo e vetro. Gira tutta l’Europa. Parigi, Londra, Berlino, Madrid. E gli Emirati Arabi, in una città importante come Al-’Ayn. Fino al 2006, quando tutto cambia.
Perché nella vita di Angelo entra il cancro. È a Dublino per lavoro quando gli viene diagnosticato un tumore al peritoneo. Torna a Treviso e si fa operare.
Poi la lunga serie delle chemio. Mesi di degenza.
Giugno 2006, il lavoro riprende ma è continuamente interrotto dalle scadenze per i controlli. È un’altra vita. Diversa e amara.
Durante i controlli, nel 2007, spuntano ombre ai polmoni.
“Lì il mio lavoro cominciò ad andare a rotoli, a buttare male. Chi è che si fida a far arrampicare sulle scalette di una impalcatura uno che non sta neanche in piedi? Lavoro come posso, accettando quello che prima non avrei accettato. Gli ultimi lavori li faccio tra 2012 e 2013, negli Emirati, Al-’Ayn e Abu Dhabi. Poi arriva la crisi. E mi sono accorto a mie spese che, nel mondo del lavoro, quando non ce n’è per tutti, a saltare sono i giovani e i vecchi. Quello che c’è da fare, il lavoro che si trova, è per la fascia di età che va dai 30 ai 45 anni”.
Angelo è tagliato fuori, comincia a intaccare quello che ha messo via. Cicala sì. Ma qualcosa da parte c’era. Poi le cose precipitano.
Ha una morosa ma lei lo lascia. Nerina, sua madre, ha bisogno di assistenza e va a vivere con sua figlia Angela. Ma Angelo viveva pure lui in casa di Angela e non c’è spazio per entrambi. Anche perché sua sorella deve fare i conti con l’handicap del figlio.
Questo è il momento in cui, di fatto, Angelo non ha più un tetto sotto il quale andare a dormire. È diventato un homeless. Non ha soldi, non ha famiglia, nessuno gli dà lavoro.
Decide che è arrivato il momento di buttarsi sotto il treno.
Sceglie un tratto della Treviso-Conegliano. Qualcuno lo vede e chiama i carabinieri. Si trova sottoposto a cure psichiatriche.
“Ma io non ero matto, va da sé, solo ero disperato. E non avevo nessuna via d’uscita. Non avevo nessuno. Che altro potevo fare?”.
Sono arrivati gli assistenti sociali ed è approdato alla casa di via Pasubio. “Non è il massimo ma me la tengo cara. Non posso sgarrare con gli orari. C’è la fila di quelli che vorrebbero il mio letto. Siamo in venti, con noi risiede un operatore. Ogni tanto qualcuno dà fuori di testa magari perché è un po’ bevuto e l’operatore chiama i carabinieri. Ci sorveglia, pianifica la vita grama che facciamo lì dentro. Serve da equilibratore”.
Gli chiedo come vive. È a questo punto che mi dà il suo cellulare. Sorride. “Non ho difficoltà a risponderti, ho molto tempo libero”.
Già, non fare nulla dalla mattina alla sera, riempire giornate vuote. “Guarda che c’è qualcuno a cui va perfino bene. È gente abituata al nulla, gente che viene dalla Liberia, dalla Nigeria, dai paesi più poveri dell’Africa. Un letto e un pasto. Per quasi tutti è pur sempre uno stare meglio di come erano messi a casa loro. Ma tu capisci. Senza scopi, senza prospettive, senza un senso da dare a ogni giorno che passa, a tutte le ore del giorno, si diventa bestie, ci si abbrutisce. Semplicemente ci si adagia sul fondo”.
Gli chiedo se lui è ridotto così. No, per fortuna no. E scopro che in Angelo c’è ancora voglia di andare avanti e resiste ancora una progettualità importante.
“Ho chiesto alle istituzioni di aiutarci con pochissimo a mettere su una cooperativa sociale. Una sede, un minimo di struttura di base per partire. Per partecipare ai concorsi degli enti pubblici e privati. Pulizie, manutenzioni, giardini da curare, quello che si può fare insomma. Anche per dare un minimo di dignità a gente che si trova in condizioni morali anche peggiori della mia. Un riscatto”.
Gli chiedo se ha qualche soldo. “Mia madre mi dà qualcosa della sua pensione, dieci euro al giorno, trecento al mese. La Nerina ha 93 anni e io dipendo dalla sua pensione. Mia sorella l’ha consigliata di non darmi tutti e trecento gli euro in un colpo solo. Così ogni dieci giorni vado a fare il bancomat da mia madre. Ci compero le sigarette e poco altro. Giustamente, vuoi mai vedere che mi mangio i trecento in un colpo solo. Lo sanno tutti, sono una cicala”.
Accende l’ennesima sigaretta. Siamo in confidenza e mi permetto. Gli faccio osservare che se ha problemi ai polmoni, col fumo dovrebbe andarci più cauto. Mi guarda.
“Il fumo diventa un modo per riempire il tempo, per farlo passare. C’è chi sviluppa la voglia di fumare, c’è chi si mette a bere. Qualcuno fuma e beve insieme. Qualcuno sceglie anche di peggio. Io fumo e basta, sono uno dei più bravi”.
Gli chiedo come mangia. “Alla sera vado a fare un pasto alla Caritas, qui vicino, all’ex Girolamo Emiliani. A mezzogiorno ci sarebbe un pasto all’ex ristorante dei poveri, in via Risorgimento. Ma non un granché, diciamo così. Andarci vorrebbe dire essere proprio ridotti a zero. Mangio due pizzette e la fame me la tengo per la sera”.
Sorride e si incammina verso la mensa della Caritas. È l’ora.
“Vuoi un passaggio?”. “No, faccio a piedi, è qui a due passi”.
Ha un passo elastico, da uomo che conosce il mondo. Passo lungo, da seconda linea. Pronto a spingere, pronto al salto.

 

 

admin