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Inferno Canto XXI

INFERNO

CANTO XXI

 

(Treviso, Fondazione Cassamarca

Palazzo dell’Umanesimo Latino

17 marzo 2005)

 

O tu che leggi, udirai nuovo ludo[1]

 


Questo verso si trova nella parte finale del canto XXII, il secondo dedicato alle vicende e alle pene dei barattieri ed è una sorta di avvertimento che Dante rivolge al suo lettore: attento, tra qualche istante assisterai ad un tipo di gioco, di gara che non hai mai visto.

Mi pare giusto partire da qui, perché è da questo appello dantesco che comprendiamo come dobbiamo guardare al cangevole spettacolo che si svolge sotto gli occhi del poeta e del suo accompagnatore, nel quale, anzi, Dante e Virgilio sono coinvolti. Una gara, meglio, una pièce teatrale che assorbe nel suo giro vorticoso tutti gli attori.

Siamo in Malebolge, per la precisione nella quinta bolgia dove sono puniti i barattieri, cioè tutti quegli uomini che hanno tratto benefici illeciti dai loro incarichi pubblici. Oggi parleremmo di corruzione, concussione, peculato, interesse privato. Dante proviene dalla bolgia degli indovini e, prima ancora, da quella dei simoniaci che, commerciando in cose sacre, sarebbero un po’ i barattieri della Chiesa. Il ludo di cui parla Dante è lo spettacolo dei barattieri, delle pene che subiscono, dei demoni che le infliggono. Costruzione tutta letteraria e morale, di taglio dunque tragico. Non siamo certo nel clima giocoso della beffa e della costruzione -tra realtà e creazione di un mondo fittizio- in cui sempre è riconoscibile il multiforme porsi dell’umana intelligenza, autentico e unico motore della storia. Questa sarà la felicità narrativa di Boccaccio.

Parto da qui perché nella conversazione di oggi cercherò di mettere in evidenza soprattutto la grande matericità di questo canto, quello che si vede e quasi si tocca, il rutilante muoversi di questa porzione di inferno, il caos e gli agguati, i trucchi e le trivialità. Lascerò ai margini la disputa che da sempre insiste su questo canto definito “comico”, cioè di quello stile umile, o basso, o tenue che già era stato definito, assieme a quello medio e a quello alto o tragico, dalla retorica latina e consegnato alla cultura medievale da Isidoro di Siviglia, tra sesto e settimo secolo. Questi canti, il XXI e il XXII, sarebbero prototipo dello stile comico, ma, per esempio, Russo ha parlato di grottesco che assurge a tragedia pura.

Le ultime immagini che il lettore si porta dietro dal canto degli indovini sono quelle che Virgilio indica al poeta: una teoria di maghi e indovini conclusa da un astrologo di Forlì, Guido Bonatti, che fu molto ascoltato alle corti di Federico II e di Ezelino da Romano; da Asdente, nome esotico col quale un calzolaio di Parma, tale Benvenuto, era solito presentarsi ai suoi creduloni clienti; da una generica e indistinta massa di streghe e fattucchiere, tutte donne che avevano lasciato l’ago, la spola e il fuso e si erano inventate il mestiere di predire il futuro. Vale la pena di ricordare questo perché chi cerca di interpretare il futuro è in qualche modo portatore di una sua dignità. Peccato turpe sì, perché il peccato è per definizione turpe, ma i peccatori hanno in sé qualcosa di affascinante e misterioso, anche se contorto e repellente. È gente che cerca di rubare il mestiere a Dio, di modificare il futuro, sono persone intelligenti, cercano di cogliere il filo razionale che lega cose ed eventi. Del loro parere si giovano le persone più influenti, sono (non solo nell’ottica di Dante, ma di tutto il Medioevo) una sorta di scienziati che contemplavano il cielo ed esploravano micro e macrocosmo. Insomma sono portatori di una loro dignità.

Non è certo per caso che Dante ne abbia parlato tra quella sorta di barattieri della chiesa che, come si è  detto, erano i simoniaci condannati alla pena orribile di una eterna propagginazione e i barattieri veri e propri: vuole, Dante, segnare, con i barattieri, un abisso, una degradazione, una caduta assoluta in cui diavoli e dannati sono un’unica cosa sopra e sotto il pelo della pece ribollente in cui vengono cucinati per l’eternità i corrotti e i corruttori i quali hanno tradito la missione connessa col loro incarico pubblico.

Dobbiamo immaginarci le bolge come delle enormi vasche di pietra che girano a tondo in quell’imbuto sempre più stretto, cioè mano a mano che si scende verso il centro della terra, che è l’inferno. Dante e Virgilio passano dall’una all’altra camminando su ponti a loro volta di pietra. Venendo dalla bolgia degli indovini si trovano al colmo di un ponte, odono lamenti (che sono vani, come dice: all’inferno pentirsi non vale più nulla) e vedono una oscurità mirabile, l’oscurità di un mare di pece. Uno sguardo dall’alto dunque.

 

Così di ponte in ponte, altro parlando

che la mia comedía cantar non cura,

venimmo; e tenavamo ‘l colmo, quando

 

restammo per veder l’altra fessura

di Malebolge e li altri pianti vani;

e vidila mirabilmente oscura.

 

Quale ne l’arzanà de’ Viniziani

bolle l’inverno la tenace pece

a rimpalmare i legni loro non sani,

 

ché navicar non ponno -in quella vece

chi fa suo legno novo e chi ristoppa

le coste a quel che più vïaggi fece;

 

chi ribatte da proda e chi da poppa;

altri fa remi e altri volge sarte;

chi terzeruolo e artimon rintoppa-;

 

tal non per foco, ma per divin’arte

bollia là giuso una pegola spessa,

che ‘nviscava la ripa d’ogne parte.[2]

 

Una delle similitudini più celebri dell’intero poema: l’arsenale veneziano colto durante i lavori invernali quando si ripara il fasciame delle navi per riabilitarle a prendere il mare e quando si preparano i nuovi materiali. Il lettore nemmeno si accorge della sproporzione evidente: per quanto grande sia il paiolo dove ribolle la pece degli arsenalotti, non c’è paragone con il mare di pece che è sotto i piedi dei due viaggiatori nell’oltretomba. Ma la similitudine funziona ugualmente in pieno perché a prevalere non è l’immagine della pece, ma il brulicare di persone, l’andirivieni, il loro essere affaccendati in un carosello quasi frenetico, uno spettacolo vario e in perenne movimento, una commedia vasta con le sue svolte improvvise e i suoi colpi di scena.

La lezione del Dante descrittore è qui magistrale. Un’occhiata al particolare realistico di come si forma una bolla, come si gonfia e come esplode; la paura di Virgilio e il suo avvertimento; il diavolo nero che corre addosso ai due.

Il diavolo: dapprima una macchia nera, paurosa; poi al secondo sguardo si aggiungono particolari: il volto feroce, le ali spiegate, il movimento agile, l’atteggiamento ostile. Tra un istante sapremo che il suo omero è aguto e superbo, cioè appuntito e molto rilevato. Il lettore guarda con gli occhi di Dante e, al pari di Dante, è avvolto da questa sensazione di paura. L’orizzonte sembra chiuso dall’immagine del diavolo che lo occupa tutto.

 

I’ vedea lei, ma non vedëa in essa

mai che le bolle che ‘l bollor levava,

e gonfiar tutta, e riseder compressa.

 

Mentr’io là giù fisamente mirava,

lo duca mio, dicendo “Guarda, guarda!”,

mi trasse a sé del loco dov’io stava.

 

Allor mi volsi come l’uom cui tarda

di veder quel che li convien fuggire

e cui paura súbita sgagliarda,

 

che, per veder, non indugia ‘l partire:

e vidi dietro a noi un diavol nero

correndo su per lo scoglio venire.

 

Ahi quant’elli era ne l’aspetto fero!

e quanto mi parea ne l’atto acerbo,

con l’ali aperte e sovra i piè leggero.[3]

 

Qualcuno ha voluto vedere nel diavolo nero una indicazione ostile nei riguardi del partito dei Neri. Non mi pare, con tutta franchezza, che ce ne sia bisogno. Il nero è il colore del male e delle oscurità infernali; è il colore che nega la luce, quindi il colore negativo per eccellenza: i diavoli sugli affreschi e nei libri sono spesso dipinti in nero. E poi, a ben vedere, qui su Dante preme soprattutto il desiderio di rappresentare il movimento, l’agilità, la vivacità. A tinte forti, in bianco e nero, anzi. Il diavolo è ancora un arsenalotto che si arrampica su per un’impalcatura, per eseguire o portare un ordine, e se non fa in fretta si rischia di sciupare lavoro e organizzazione.

Solo a questo punto Dante si rende conto che il diavolo non ce l’ha con lui ma è indaffarato, tutto preso dalle sue incombenze. Sta trasportando un dannato e lo sta facendo nel modo più brutale che si possa immaginare. Se lo è buttato sulle spalle e la testa del barattiere punito -immaginiamo- ciondola dietro la schiena, mentre gli unghioni del diavolo lo tengono fermo per le caviglie. Un sacco o, se vogliamo, una bestia appena macellata.  Arrivato sul ponte dove sono anche i due poeti, il diavolo prende ad urlare.

 

Del nostro ponte disse: “O Malebranche,

ecco un de li anzian di Santa Zita!

Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche

 

a quella terra, che n’è ben fornita:

ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;

del no, per li denar, vi si fa ita”.

 

Là giù ‘l buttò, e per lo scoglio duro

si volse; e mai non fu mastino sciolto

con tanta fretta a seguitar lo furo.[4]

 

Prima di parafrasare e spiegare, diciamo della pena e del contrappasso. Non chiarissimi. Queste anime sono immerse nella pece bollente e, se ne escono, vengono arpionati dai diavoli. Certamente si vuole alludere al fatto che le loro attività in vita dovevano essere svolte di nascosto, che furono invischiati in maneggi e manovre in cui la politica era ridotta a passaggio di denaro sempre sporco. E, come scopriremo, i diavoli sono a loro volta falsi e bugiardi: chi imbroglia e abusa ha sempre a che fare con gente della sua stessa risma e pasta.

Tuttavia rischiamo di perdere l’impatto visivo con questa poderosa e terribile scena se dimentichiamo che non era infrequente, ai tempi di Dante, che qualcuno avesse assistito alla bollitura nell’olio o nell’acqua di qualche delinquente. Nel canto successivo Ciampolo di Navarra, un barattiere di cui conosciamo appena il nome e solo perché Dante lo nomina in questo contesto, sarà rappresentato nell’attimo in cui le sue carni vengono straziate: allo stesso modo, sulla pubblica piazza, a Firenze venivano fatte a brandelli e strappate con vari strumenti di tortura, le carni dei condannati prima di impiccarli.

Quindi Dante manda in scena uno spettacolo nello spettacolo. Se non avessimo a che fare con uno scrittore in cui, sappiamo bene, la visione morale delle cose è sempre dominante, quasi ci verrebbe da dire che qui prevale il gusto della rappresentazione, del movimento, perfino del gioco. Ricordiamoci del ludo cui ho fatto cenno prima.

La tentazione è forte perché qui Dante sembra avere negli occhi e negli orecchi una rappresentazione di pretto gusto popolaresco, caratterizzata dal movimento veloce, dal travestimento ai limiti dell’assurdo, dal linguaggio plebeo e perfino sconcio, dalla gestualità oscena. Per fugare la tentazione, però, basta rileggere i versi appena citati.

Dal colmo del ponte il diavolo con il dannato buttato sulle spalle, si rivolge ai colleghi. Li chiama Malebranche, che è parola che Dante conia qui, all’impronta. Parola splendida: i diavoli sono individuati dalle loro mani artigliate che recano male, disgrazia, dolore. Parola che, in finale di verso, costruisce da sola un clima, una tensione. Agli altri diavoli egli urla che ha portato uno dei magistrati preposti al governo di Lucca, qui individuata dal nome di una sua patrona, santa Zita. Lo buttino sotto la pece, senza indugio. Lui deve tornare a Lucca, sorta di capitale della corruzione, dove i barattieri sono praticamente tutti i componenti della classe politica. Tutti, meno uno, quel Bonturo Dati che era capo del partito popolare a Lucca e che era stato esule a Firenze nel 1313, ospite ben protetto dai Neri. Di lui si ricorderà in una delle sue liriche più sonore, Faida di Comune, Giosuè Carducci.

Naturalmente la frase è pronunciata con ironia assoluta. Bonturo Dati è il peggiore di tutti. A tal punto che, come sappiamo dalle testimonianze dell’epoca, il suo esilio a Firenze fu deciso proprio da coloro che lo avevano voluto anni prima al potere in Lucca: così corrotto da diventare inviso perfino ai suoi fautori. Lucca, dice Dante, è la città nella quale il denaro trasforma i no in . Il diavolo butta giù la sua preda e poi torna a far razzia a Lucca, veloce come un cane sciolto dalla catena e lanciato all’inseguimento di un ladro. Non può certo perdere tempo, avendo a disposizione una simile riserva di caccia. A Lucca non ce n’è uno che si salvi. Mentre lo spettacolo continua, notiamo il cruccio di Dante che non si sta divertendo affatto. I barattieri, corrotti e corruttori, sono il segno più vistoso della decadenza della società borghese e comunale.

E il pessimismo è profondo, radicato. Si respira l’aria greve di un mondo in cui la corruzione sembra essere un tratto caratteristico e necessario della convivenza. Quasi a dire: questa società non può fare a meno di una classe politica fatta di imbroglioni, è la politica intrinsecamente malvagia.

Tentazione che, come è evidente, accomuna l’uomo moderno a Dante, tentazione da cui è talora difficile scuotersi.

Allora noi ributtiamoci nel teatro.

 

Quel s’attuffò, e tornò sú convolto;

ma i demon che del ponte avean coperchio,

gridar: “Qui non ha loco il Santo Volto!

 

qui si nuota altrimenti che nel Serchio!

Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,

non far sopra la pegola soverchio”.

 

Poi l’addentar con più di cento raffi,

disser: “Coverto convien che qui balli,

sì che, se puoi, nascostamente accaffi”.

 

Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli

fanno attuffare in mezzo la caldaia

la carne con li uncin perché non galli.[5]

 

Il barattiere lucchese, scaricato dal diavolo, appena si inabissa sotto la superficie della pece bollente, ha come una sferzata e riemerge tutto impegolato, in una posizione grottesca che evidentemente ricorda ai diavoli che stanno sotto il ponte (e dunque, come dice Dante, hanno il ponte stesso per coperchio, per copertura) la figura di una persona che prega. Se c’è un luogo in cui la preghiera suscita scherno e sghignazzo è proprio l’inferno. Gli dicono che lì non c’è il Santo Volto, lì non si nuota come nel Serchio in cui ci si rinfresca dalla calura estiva e si esce quando si vuole.

Il primo riferimento è a una immagine bizantina del Cristo Crocifisso che si trovava allora e si trova ancor oggi nella chiesa lucchese di san Martino. Il secondo al fiume che attraversa la città. Se il barattiere vuole evitare arpionamenti, non deve mai mettere la testa fuori del pelo della pece. Poi i diavoli lo addentano con più di cento ramponi uncinati: anche se sta sotto, le sue carni vengono straziate. E lui viene irriso: si dibatta pure e continui, se gli riesce, ad arraffare di nascosto.

Poi Dante raccoglie e condensa una tradizione popolaresca, la stessa che, ad esempio, raccoglieva Giacomino da Verona nel suo De Babilonia civitate infernali: la cucina come prefigurazione dell’inferno, cucina in cui arde il fuoco giorno e notte a sua volta prefigurazione di tormenti e torture diverse. Ecco allora i cuochi che lessano la carne e dicono ai loro inservienti di tenerla ben sotto la superficie perché cuocia tutta  a puntino.

Una pausa ora. La pausa della prudenza e, perché no?, anche un po’ della paura. Virgilio dice a Dante di nascondersi, di tenersi dietro uno spuntone di roccia. Lui deve uscire a parlamentare: non si può dire che reazione avrebbero i diavoli alla vista di un vivente. Dunque meglio andarci piano. Qualsiasi cosa accada, Dante non deve muoversi. Virgilio sa bene come vanno le cose, è già stato un’altra volta a tal baratta[6], a una simile baruffa, baraonda cioè. Si riferisce, la guida di Dante, al viaggio compiuto attraverso l’inferno sotto l’influsso della magia della maga Eritone e di cui abbiamo notizia nel canto IX dell’Inferno[7].

Virgilio cerca di darsi un atteggiamento (mestier li fu d’aver sicura fronte[8]), ma, non appena si fa vedere, le ire dei diavoli si scatenano.

 

Con quel furore e con quella tempesta

ch’escono i cani a dosso al poverello,

che di súbito chiede ove s’arresta,

 

usciron quei di sotto al ponticello,

e volser contra lui tutt’i runcigli;

ma el gridò: “Nessun di voi sia fello!

 

Innanzi che l’uncin vostro mi pigli

traggasi avanti l’un di voi che m’oda

e poi d’arruncigliarmi si consigli”.

 

Tutti gridaron: “Vada Malacoda!”;

per ch’un si mosse -e li altri stetter fermi-

e venne a lui dicendo: “Che li approda?”.

 

“Credi tu, Malacoda, qui vedermi

esser venuto”, disse il mio maestro,

“sicuro già da tutti vostri schermi,

 

sanza voler divino e fato destro?

Lascian’andar, chè nel cielo è voluto

ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro”.[9]

 

Virgilio si avanza, forte dei suoi argomenti, ma non sicurissimo sulle gambe. In qualche modo prosegue la similitudine del cane inferocito: è il povero che si ferma dove lo coglie il guardiano ringhiante. Viene scelto Malacoda che un po’ parla a se stesso, un po’ si rivolge agli altri.

Che cosa serve a quel disgraziato che gli sta davanti (Virgilio, cioè) parlamentare? Finirà come gli altri nella pece. Virgilio gli dice che invece il suo viaggio è protetto dall’alto e quindi nessuna insidia può metterlo in pericolo. Attenzione, perché con Malacoda comincia quell’inventario dei diavoli che è una delle cose più godibili dell’intero poema. Malacoda, come Malebolge e Malebranche, intanto.

Al diavolo scelto per parlamentare, cade, con un gesto plateale l’uncino di mano, corrispettivo sensibile della ferita che subisce il suo orgoglio.

 

Allor li fu l’orgoglio sì caduto

ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi

e disse a li altri: “Omai non sia feruto”.

 

E ‘l duca mio a me: “O tu che siedi

tra li scheggion del ponte quatto quatto,

sicuramente omai a me ti riedi”.

 

Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;

e i diavol si fecer tutti avanti,

sì che io temetti ch’ei tenesser patto;

 

così vid’io già temer li fanti

ch’uscivan patteggiati da Caprona

veggendo sé tra nemici cotanti.

 

I’ m’accostai con tutta la persona

lungo ‘l mio duca, e non torceva li occhi

da la sembianza lor ch’era non buona.[10]

 

Non c’è pericolo, dunque, e Dante può uscire. Virgilio lo invita, ma la sorpresa per i diavoli è ugualmente grossa: Virgilio non aveva detto loro di quella novità. Sono sorpresi, esterrefatti. Comprendiamo che si fanno minacciosi e intuiamo che brandiscono brontolando e ringhiando le loro armi, i loro runciglioni. La tregua, il patto promesso dai diavoli può essere rotto da un istante all’altro. È dolorosa la condizione di chi non ha scelta e deve mettersi in mano agli altri sperando per il meglio. Dante ci ricorda che quella cui stiamo assistendo non è una rappresentazione di piazza, un gioco.

Ci riporta dolorosamente alla storia, all’attualità. Ricorda un episodio accaduto nel 1289, quando Nino Visconti e i Lucchesi, forti dell’appoggio di Firenze e della lega guelfa toscana, espugnarono il castello di Caprona, nel Valdarno pisano. I pochi soldati assediati si concedettero (pur patteggiati, dice Dante, cioè dopo aver stipulato un patto di resa) con mille paure agli assediati.

Dante dice di aver veduto e da questa sua affermazione molti biografi hanno concluso che tra gli assediati c’era anche lui.

Comunque sia, Dante si stringe a Virgilio. I diavoli intuiscono e cominciano a tormentare i due. Tra i più esagitati c’è Scarmiglione, il cui nome non ha certo bisogno di spiegazioni.

Vorrei esplorare qui, preventivamente, questa mappa di nomi diabolici per non interrompere poi il movimento dell’azione. La mappa allude non solo alla composita geografia infernale, ma anche e soprattutto al mondo culturale e stilistico di Dante. Ci richiama la sua capacità di radunare in sintesi estrema, elementi culturali diversi e magari lontanissimi. I nomi sono sue trasposizioni, più spesso sue invenzioni. Dante è anche un prestigiatore della lingua, dell’ancor giovane volgare. Un esecutore che sa ricavare musica perfetta da uno strumento linguistico per certi aspetti ancora rozzo ma, proprio per questo, tremendamente vitale

Dopo Malacoda e Scarmiglione, ecco Alichino, dal francese Hellequin, che è nome di diavolo che Dante traduce mettendoci dentro la velocità delle ali e, nell’attributo “chino”, il suo protendersi in avanti, con aria di minaccia. Poi c’è Calcabrina in cui sentiamo la velocità di scivolare sulla brina, ma anche di lasciare comunque orme: rapidità e pesantezza insieme; Cagnazzo che allude ad un cane violento e ci richiama le due similitudini del canto; Barbariccia e Graffiacane che sono di facile conio e composizione: duri, abrasivi, descrittivi; Libicocco nasce dalla Libia e forse da “scirocco”: terra di deserti, abitata per convenzione da diavoli e geni malefici; Draghignazzo viene da “drago” ma è difficile sottrarsi dalla sensazione che Dante lo abbia costruito pensando anche ad una parola come “sghignazzo”; Ciriatto che viene da una parola del trivio fiorentino, “ciro”, cioè porco: qui viene rappresentato sannuto, vale a dire con le zanne; Farfarello è nome che appartiene alla demonologia medievale e forse vale folletto, forse connesso con l’arabo fafar che ha appunto questo significato; infine Rubicante, con evidente connessione al colore rosso, al colore dell’ira, tanto che Dante, per buon sovrapprezzo, lo chiama pazzo.

Insomma, proprio una bella banda, costruita da Dante, con pazienza, pezzo su pezzo. Se ripercorriamo i nomi troviamo l’aspetto teologico. Il diavolo è degradato dal peccato di disubbidienza, in antitesi con l’altezza vertiginosa e celeste degli angeli. Aspetto teologico, ma non solo. C’è il diavolo folletto che appartiene a tutte le culture, che va e viene, scompare e ricompare. C’è il diavolo come se lo rappresenta la cultura popolare nutrita delle raffigurazioni su vetrate, su capitelli, su affreschi, sui quadri che i predicatori erranti si trascinavano sulle spalle, nei costumi degli attori delle sacre rappresentazioni.

Tutto, ma proprio tutto. Il diavolo è malvagio, imbroglione, mentitore e proprio in questo risiede la sua inesauribile vitalità. È  impulsivo e se non gli va di mantenere il patto appena stipulato non c’è verso, è bizzarro e psicologicamente instabile, è anarchico e accetta malvolentieri la logica di gruppo.

In generale ne traiamo una sensazione di enorme e invadente fisicità. È uno dei quadri più mossi e più cari alla cultura popolare dell’intero poema. Attorno ai due poeti si scatena un balletto pauroso e osceno. I diavoli si eccitano l’un l’altro, resi impotenti e dunque rabbiosi dal divieto divino, intenzionati a vendere comunque caro il passaggio di quella bolgia.

 

Ei chinavan li raffi e “Vuo’ ch’l tocchi”,

diceva l’un con l’altro, “in sul groppone?”.

E rispondien: “Sì, fa che gliel’accocchi”,

 

Ma quel demonio che tenea sermone

col duca mio, si volse tutto presto

e disse: “Posa, posa, Scarmiglione!”.

 

Poi disse a noi: “Più oltre andar per questo

iscoglio non si può, però che giace

tutto spezzato al fondo de l’arco sesto.

 

E se l’andare avante pur vi piace

andatevene su per questa grotta;

presso è un altro scoglio che via face.

 

Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta,

mille dugento con sessanta sei

anni compiè che qui la via fu rotta.

 

Io mando verso là di questi miei

a riguardar se alcun se ne sciorina;

gite con lor, che non saranno rei”.[11]

 

Malacoda comincia a tessere il suo inganno. Mescola abilmente menzogna e verità. Dice che il ponte che dovrebbe valicare la bolgia successiva (la sesta, in cui sono puniti gli ipocriti) è crollato. È la verità, ma aggiunge una bugia quando afferma che più avanti ce n’è un altro. Per dare parvenza di credibilità al tutto, rievoca il terremoto che ha provocato il crollo di alcuni ponti e il formarsi di macerie e rovine in diverse parti dell’inferno.

Brano importantissimo per noi perché consente di datare l’anno di ambientazione della Divina Commedia. Seguiamo il calcolo di Malacoda. Ieri, dice, cinque ore più tardi di quest’ora, si sono compiuti 1266 anni da quando la strada è qui franata.  Noi sappiamo che quel crollo è stato determinato dal viaggio compiuto da Cristo nell’inferno per liberare le anime destinate alla salvezza, ma impossibilitate a raggiungere il paradiso, chiuso fino al momento della redenzione. Siccome Cristo è morto nel suo trentaquattresimo anno, sommando a quel 34, 1266 si ottiene 1300.  Più difficile determinare il giorno di inizio del viaggio che secondo alcuni calcoli va collocato il 25 marzo, secondo altri l’8 aprile di quell’anno.

Resta comunque vero che Malacoda parla e Dante sa cosa sta dicendo, si intende alla perfezione, giudica credibili le parole e trova giusto affidarsi alla scorta che Malacoda gli assegna. Anche perché Malacoda gioca con accortezza le sue carte. Dice infatti che deve inviare un piccolo distaccamento di diavoli in una certa zona della bolgia per ispezionare se qualche dannato si sciorina, cioè esce dalla pece. La scelta della pattuglia è quanto di più vivo si possa immaginare.

 

“Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina”,

cominciò elli a dire, “e tu, Cagnazzo;

 e Barbariccia guidi la decina.

 

Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo,

Cirïatto sannuto e Graffiacane

e Farfarello e Rubicante pazzo.

 

Cercate ‘ntorno le boglienti pane;

costor sian salvi infino a l’altro scheggio

che tutto intero va sotto le tane”.[12]

 

Le boglienti pane, da “pania”, cioè la colla vischiosa ed è ancora un modo per designare la pece. E il fatto che le bolge siano chiamate “tane” non sarà solo questione di rima, ma allusione al male nascosto. Sia come sia, Malacoda gestisce con sussiego il suo piano menzognero indicando chi farà parte della pattuglia. I diavoli scelti si fanno cenni d’intesa fra di loro e Dante fraintende, pensa che siano minacce. Ne ha paura, trema.

È il modo straordinario e irripetibile del farsi, del generarsi della poesia di Dante. Lo ha messo bene in evidenza Alberto Del Monte[13]. Il dato che Dante assorbe dalla sua cultura è che la vita terrena è pellegrinaggio e l’uomo è destinato più a temere che a sperare. Il contatto degli spiriti malvagi, quelli che tendono imboscate sul procedere di questo pellegrinaggio, genera un “ribrezzo quasi fisico. L’uomo ne era circondato, avvolto, gremito da ogni parte: egli agiva, viveva, moriva in quell’invisibile bulicame”. E in questo canto XXI tutto ciò diventa carne, sangue, sofferenza, materia, tatto e odore, voglia di scappare, pericolo fisicamente incombente. Un esempio assoluto di traduzione in termini poetici.

Dante ha paura, Virgilio appare più tranquillo, tende a fidarsi.

 

“Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?”,

diss’io, “deh, sanza scorta andianci soli,

se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.

 

Se tu se’ sì accorto come suoli,

non vedi tu ch’e’ digrignan li denti

e con le ciglia ne minaccian duoli?”.

 

Ed elli a me: “Non vo’ che tu paventi;

lasciali digrignar pur a lor senno

ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti”.[14]

 

I lessi dolenti ci riportano all’immagine dei cuochi, brutale e triviale immagine. Preludio del più sconcio segnale di partenza che sia possibile udire. Preparato dalla lingua stretta tra i denti dei diavoli a simulare il rumore del peto. Poi nessuna simulazione, peto vero.

 

Per l’argine sinistro volta dienno;

ma prima avea ciascun la lingua stretta

coi denti, verso lor  duca, per cenno;

 

ed elli avea del cul fatto trombetta.[15]

 

 


 


[1] If  XXII 118

[2] If  XXI 1-18

[3] If  XXI 19-30

[4] If  XXI 37-45

[5] If XXI 46-57

[6] If  XXI 63

[7] If  IX 22 e seguenti

[8] If  XXI 66

[9] If  XXI 46-57

[10] If XXI 85-99

[11] If  XXI 100-117

[12] If  XXI 118-126

[13] Alberto Del Monte, Demonologia medievale, in Civiltà e poesia romanze, Adriatica, Bari, 1958.

[14] If  XXI 127-135

[15] If  XXI 136-139

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