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Incontro con lo scrittore trevigiano

 

“Venanzio fortunato, un uomo per l’europa”

(a cura di Ivano Callegaro, Endimione, marzo 2006)

 

(Valdobbiadene, Chiesa di San Gregorio,

15 dicembre 2005)

Sulla figura di Venanzio Fortunato, abbiamo intervistato lo scrittore Gian Domenico Mazzocato, latinista e traduttore della storiografia latina di Tacito e Livio, oltre che interprete delle grandi vicende del mondo veneto. Ha scritto tra l’altro Il delitto della contessa Onigo, Il bosco veneziano, Gli ospiti notturni, Delitto a filò, Il caso Pavan, e, per il teatro, Mato de Guera. Recentemente si è interessato di Valdobbiadene curando la ripubblicazione di Un fiore delle alpi, di Vincenzo Morgantini. La sua opera visitabile in www.giandomenicomazzocato.it che ha anche una ampia sezione dedicata a Venanzio e Martino.

 

Come ha iniziato ad appassionarsi a Venanzio Fortunato, a studiarne e tradurne le opere?

È uno scrittore che studio da sempre. Grande poeta, un personaggio che ha rappresentato, come forse nessun altro in Europa, la saldatura tra classicità e il lungo, magmatico periodo in cui sono emerse le identità degli stati nazionali. Grazie al Progetto San Martino nato nell’ambito della benemerita Congrega del Tabaro, ho avuto l’occasione di tradurre la Vita di san Martino, un vuoto nella cultura italiana. E spero che possa prendere corpo anche il progetto per la traduzione degli 11 libri dei Carmina. Vivo con disagio il fatto che una simile risorsa del nostro territorio e, più in generale, della cultura classica non possa avere l’impatto sull’attualità di una traduzione moderna. Un’assenza colpevole.

Per Cenitam gradiens et amicos Duplavenenses… dice Venanzio chiudendo la sua Vita di san Martino. Cosa pensa dell’antica quaestio circa il suo luogo di nascita: Ceneda o Valdobbiadene?

È un paradosso di tutta l’opera di Venanzio, che ci racconta molto di sé. Sappiamo tutto dei suoi gusti, degli amici, delle abitudini. Ma non ci dà elementi per rispondere a domande fondamentali: in che anno è nato, perché ha lasciato l’Italia (che è il problema dei problemi nella biografia del poeta), dove ha studiato, quando e come ha deciso di farsi prete. Quanto al luogo di nascita, non mi pongo troppi problemi. Nel contesto da lei citato appare chiaro che dove stanno gli amici valdobbiadenesi è la terra dove sono nato, la terra del mio sangue e dei miei genitori. Qui c’è l’origine della mia stirpe…In quel contesto dice anche mea Tarvisus, ma non per questo Treviso è il suo luogo natale. Avesse voluto indicare Ceneda si sarebbe espresso in modo diverso.

C’è poi la questione che da anni ruota attorno ad alcuni versi venanziani (quo vineta iugo calvo sub monte comantur…) in cui si è voluta vedere descritta Valdobbiadene e il monte Cesen. Può chiarire?

Beh, intanto devo ringraziare lei per avermi segnalato questo incredibile fraintendimento. Si tratta dei versi 29-42, del carme 9, del X libro dei Carmina. Spesso citati male e tradotti peggio (e già questo non va bene). Colline, un fiume che scorre ai loro piedi, il disegno dei vigneti che in bell’ordine occupa tutto l’orizzonte. E vino che, nella smagliante scrittura del poeta, sembra zampillare dalle pietre. Potrebbe essere la descrizione di Valdobbiadene e del Piave. Ma nulla di più lontano: Venanzio sta compiendo una crociera sulla Mosella e compone un poema ispirato al panorama. Legge questi versi durante un banchetto tenuto nel castello di Andernach, durante il suo secondo soggiorno in Austrasia. Sta accompagnando Gregorio di Tours che Childeberto aveva convocato a Metz per incaricarlo di una ambasciata presso suo zio Gontrando. Capisco come possa essere nata questo “falso valdobbiadenese”. Magari qualcuno ha scritto che Venanzio guarda le sponde della Mosella, ma ha nel cuore la sua patria. Ed ecco l’equivoco. Ma certamente non è indice di serietà scrivere cose del genere senza un piccolo sguardo alle fonti.

Lei dunque ha tradotto la Vita di san Martino. È una storia ancora attuale e quale messaggio possono ricavarne i lettori e soprattutto i giovani lettori?

La vicenda esistenziale di Martino è di straordinaria attualità. Io ho tradotto, pur nel rigore scientifico, privilegiando la leggibilità: questo libro si gusta come un romanzo. Pensiamo al solo gesto di dividere il mantello. Martino non si presenta come il ricco che regala il superfluo. È un povero che sta un po’ meglio di un altro povero e spartisce il necessario. Oggi viviamo in un’epoca ammalata di guerre e violenza perché il venti per cento della popolazione mondiale consuma l’ottanta per cento delle risorse del pianeta. E non vuole spartire, chiuso nel suo egoismo. Ma i motivi di modernità assoluta sono anche molti altri. Spero che qualcuno voglia andare a scoprirli.

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