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Il Tacito notturno delle historiae
di Gian Domenico Mazzocato
 

ille etiam exstincto miseratus Caesare Romam,
cum caput obscura nitidum ferrugine texit
impiaque aeternam timuerunt saecula noctem.

 

(Verg. Georgiche I, 466-468)

Nel mio lavoro di traduttore mi sono occupato in modo particolare, oltre che delle opere minori di Tacito, delle sue Historiae, venendo abbastanza presto colpito da questa sorta di luogo privilegiato che è la notte.

La notte rivela un tratto particolare della psicologia del grande storico romano.

Traccio molto brevemente qualche coordinata: secondo la testimonianza di san Gerolamo l’opera storiografica di Tacito (dunque, escluse le tre monografie) constava di trenta volumi. Con qualche approssimazione e incertezza, dovute ovviamente allo stato lacunoso con cui l’opera tacitiana ci è giunta, si attribuiscono sedici volumi agli Annales e quattordici alle Historiae.

Delle Historiae possediamo i primi quattro libri e, parzialmente, il quinto che lascia tronco a metà il capitolo 26. Il periodo coperto è molto breve, ma intenso: l’anno 69 d.C. e i primi mesi del 70. In questo breve lasso di tempo ben quattro imperatori si succedono alla guida del principato romano. Galba, Otone, Vitellio e il restauratore dell’ordine Tito Flavio Vespasiano, coadiuvato dal figlio Tito destinato a succedergli dieci anni dopo, che si dimostra particolarmente abile e determinato nell’affrontare la questione giudaica. La distruzione del tempio di Gerusalemme, come è noto, è proprio del 70 ma non ne possediamo il racconto tacitiano perché la parte di narrazione a noi giunta si arresta proprio con Tito sotto le mura di Gerusalemme, mentre si prepara a sferrare l’attacco alla città.

E veniamo al nostro Tacito notturno.

Partirei da Giulio Civile, il nobile capo batavo che, dilaniato tra l’amore per la cultura e la civiltà di Roma da una parte e l’attaccamento alla sua gente dall’altra, si accinge a porre sotto assedio Castra Vetera, sul Reno. Nelle Gallie è in atto un grande movimento secessionistico, ideologico prima ancora che militare, teso a costituire un imperium Galliarum. Acuto e determinato, Giulio Civile, un nemico per cui Tacito tradisce una palese ammirazione. Riunisce i maggiorenti batavi a banchetto e, quando li vede accalorati ed euforici, parla loro. Dice che le condizioni dell’impero romano non erano mai cadute tanto in basso. I quartieri invernali romani sono pieni di vecchi e di bottino, le legioni ridotte a puro nome. Solo l’arruolamento dei giovani batavi consente loro di esistere. È ora di dire basta.

E si arriva appunto all’assedio di Castra Vetera.

Si combatte per tutto il giorno: nec finem labori nox attulit. Nemmeno la notte riesce a porre termine a quello sconvolgimento. Infatti i Batavi assalitori innalzano e incendiano grandi cataste di legna per continuare a scagliare i loro proiettili verso l’accampamento. Ovviamente la mira non può essere precisa, mentre i Romani, i quali vedono le figure dei nemici stagliarsi contro il fuoco, colpiscono ogni bersaglio utile. Quando Civile se ne accorge, fa spegnere i fuochi. E allora tutto si rimescola (misceri cuncta).

Nella narrazione tacitiana la notte diventa metafora. E il buio, fattosi quasi metafisico, diventa il luogo in cui ogni evento può accadere e la gerarchia dei valori guerrieri, militari e strategici, così ben percepibile alla luce del giorno, viene sovvertita dal caso.

…nihil prodesse uirtus, fors cuncta turbare et ignauorum saepe telis fortissimi cadere. Il valore non serviva a nulla; era il caso a sconvolgere ogni cosa e spesso accadeva che i più valorosi cadessero sotto i colpi dei più vili. Nella scrittura tacitiana, sempre di altissima qualità, l’uso dell’infinito narrativo diventa il rullo di un tamburo di morte.

E la notte tacitiana diventa tragedia. Tacito si lascia aggredire, in queste occasioni, dalla certezza che gli eventi obbediscono a loro leggi imponderabili e indecifrabili. Non ci sono punti di riferimento, i valori creduti stabili non funzionano: strepitus dissoni, casus incerti, neque feriendi neque declinandi prouidentia.Frastuoni discordanti, eventi indecifrabili, nessuna possibilità di vibrare i colpi o di vederli arrivare.

Nel soldato che non sa dove portare i suoi colpi né come scansarli è l’immagine stessa della guerra, spesso decisa da eventi casuali. E, in ultima analisi, è l’immagine del fortuito fluire degli eventi che lo storico ha comunque il dovere di decifrare anche se talora, come qui, deve confessare la sua impotenza.

La notte è dunque il luogo del caso, del rimescolamento dei destini umani. Più in generale la notte è il luogo del mistero, in cui tutto e nulla può accadere, tutto e nulla può essere giustificato. È talora il luogo della rivelazione o della soluzione degli eventi, lo spazio del sovvertimento. In breve: la notte come metafora del mistero esistenziale, del bivio eterno e casuale davanti al quale la vita pone di continuo l’uomo, della fragilità della condizione umana che tutto ciò comporta.

L’intera opera tacitiana può essere letta su questa dolente chiave. Le Historiae, in cui Tacito racconta gli eventi a lui contemporanei, offrono riscontri interessanti. La narrazione della battaglia di Castra Vetera rimanda a quella combattuta, sul finire dell’ottobre 69, a Cremona, tra esercito flaviano ed esercito vitelliano. Ancora una battaglia notturna: alle prime luci del giorno gli eserciti sono stati opportunamente schierati. Ma appena giunge il buio, ecco i soldati che si rimescolano nell’oscurità, così come capita (milites mixti per tenebras ut fors tulerat). Lo stesso Tacito non si sente di proporre uno schema attendibile della strategia: non sono, confessa, in grado di descrivere la disposizione delle schiere disorganizzate a causa del furore e del buio (ordinem agminis disiecti per iram ac tenebras adseuerare non ausim). E quando la battaglia divampa essa dura tutta la notte: alterna, incerta, atroce, rovinosa ora agli uni ora agli altri (tota nocte uarium, anceps, atrox, his rursus illis exitiabile). Il climax quadripartito è solenne, scandito, tutto appoggiato su bisillabi durissimi per il prevalere delle sillabe chiuse: ha in sé qualcosa di conclusivo e definitivo più dell’esito stesso della battaglia.

Tacito lo ha preparato con sapiente regia, tutta giocata sul tema della notte. Apre il diciannovesimo capitolo con un poderoso e sonoro Inumbrante uespera uniuersi flauiani exercitus robur aduenit (Scese la sera e arrivò il grosso dell’esercito flaviano). Poi riferisce lo stato d’animo dei soldati, vogliosi di bottino con il minor dispendio possibile di risorse.

Complice la notte, naturalmente: se si attacca di notte, afferma come una sorta di legge assoluta, l’ardimento richiesto è uguale, ma c’è maggiore libertà di rapina (Idem audaciae per tenebras inrumpentibus et maiorem rapiendi licentiam). Ma è proprio il buio della notte, col timore che esso incute, a fornire ad Antonio Primo, comandante dell’esercito flaviano, un argomento dissuasore: non potevano nascondersi le incertezze cui andavano incontro; la notte, una scarsa conoscenza della città …(neque enim ambigua esse, quae occurrant, noctem et ignotae situm urbis…). Si noti la scelta lessicale: anche se non esplicitamente riferita alla notte, allude all’incertezza del momento e alla mancanza di adeguate conoscenze circa la conformazione della città.

La battaglia come evento, come tale, sempre suscita angoscia nello storico: sono spesso combattimenti tra ciues, quasi mai risolutivi. Ogni atto conflittuale rappresenta uno sperpero e un affievolirsi del patrimonio morale della res publica. E il buio serve bene a suggerire l’idea di una politica degenerata: non più dibattito nella sua sede istituzionale più alta (la curia, cioè) ma di volta in volta zuffa, rissa, battaglia, guerra. Quando Lucio Vitellio, fratello dell’imperatore, attacca Terracina, Tacito annota che, grazie alla notte, miles ad caedem magis quam ad pugnam decurrit (i soldati calarono più verso un massacro che verso una battaglia). E poiché, evidentemente, la distinzione tra strage e battaglia merita una sottolineatura, ecco che nullo discrimine Vitelliani trucidabant (i Vitelliani uccidevano senza alcuna distinzione).

Se torniamo sullo scenario della guerra batava, si può leggere sulla stessa chiave l’episodio in cui Ceriale Petilio, il generale di Vespasiano, sfugge in circostanze rocambolesche ad un attentato. Lo spettacolo dei Romani svegliati nel colmo della notte, culmina nel disastro propiziato dallo stratagemma messo in atto dagli assalitori i quali recidono le corde delle tende degli assaliti. È una coreografia di morte introdotta da una suggestiva annotazione coloristica (e anche decisiva per chi insegue il Tacito notturno): nox atra nubibus. Ma Ceriale Petilio ha tratto profitto di quella notte resa tenebrosa dalle nubi per andare a donne da un’altra parte.

Le Historiae offrono una suggestiva e nutritissima sequenza che conforta una lettura in questa direzione dell’opera.

Quando Otone si avvia a soppiantare Galba, i suoi fautori rimandano il golpe preparato per la notte del 14 gennaio: temono incerta noctis e anche la difficoltà di radunare i soldati della loro parte ubriachi e dispersi nel buio. Ma soprattutto temono che, essendo il volto e le fattezze fisiche di Otone poco popolari, potesse essere proclamato imperatore uno qualunque (…ne per tenebras ut quisque… militibus oblatus esset, pro Othone destinaretur).

La notte è anche il luogo della follia e della libidine senza freni, dell’arbitrio. Nei confusi giorni della successione di Otone, Tacito cita, a proposito del legato Calvisio Sabino, il tragicomico episodio di cui era stata protagonista la moglie di questi la quale, invasata dal malsano desiderio di vedere un accampamento notturno, vi era entrata vestita da soldato; aveva perfino provato, sempre spinta dai suoi appetiti, a fare la sentinella e ad esercitare altre mansioni militari e finì col prostituirsi proprio nel quartiere generale (cuius uxor mala cupidine visendi situm castrorum per noctem militari habitu ingressa, cum vigilias et cetera militiae munia eadem lascivia temptasset, in ipsis principiis stuprum ausa).

Il contesto e lo stesso episodio, narrato quasi per inciso, non sono casuali: Tacito, fuori di ogni frivolezza e prurito, vuole riferire la decadenza della pubblica moralità. E pare quasi voler preparare quel tragico scorcio notturno che apre il successivo capitolo, in cui tutta Roma, profittando delle tenebre, incrudelisce sul corpo di Galba sconfitto e ucciso: il corpo di Galba, annota Tacito, grazie all’impunità che la notte concede, fu straziato in modo vergognoso (Galbae corpus licentia tenebrarum plurimis ludibriis vexatum).

Nella notte le prospettive si falsano: ciò che di giorno sarebbe normalmente gestibile, di notte sfugge di mano. Riferendo un episodio che ha per protagonista Ordeonio Flacco, legato dell’esercito della Germania superiore, Tacito racconta come costui dimetta alcuni messaggeri grazie al buio della notte. Ma è proprio questo l’elemento che scatena il dramma e amplifica il sospetto. Ordeonio, pensano in molti, agisce di notte per coprire i suoi misfatti e i suoi delitti. Ne nacquero dicerie terribili: gli ambasciatori, secondo molti, sarebbero stati uccisi e se i soldati non avessero provveduto a se stessi, sarebbero stati a loro volta passati per le armi (Inde atrox rumor: adfirmantibus plerisque interfectos, ac ni sibi ipsi consulerent). Poi aggiunge: per tenebras et inscitiam ceterorum.

È lo stesso clima che si respira negli eventi narrati alla fine del primo libro. Vario Crispino, tribuno dei pretoriani, riceve da Otone l’incarico di distribuire le armi alla diciottesima coorte. Egli, per agire con maggior calma e quiete, decide di lavorare di notte. Non lo avesse mai fatto, scelta sbagliatissima. Ecco come parla Tacito: la scelta dell’ora ingigantì il sospetto, il motivo divenne un delitto, la ricerca di un momento tranquillo si trasformò in tumulto (Tempus in suspicionem, causa in crimen, affectatio quietis in tumultum eualuit). Il soggetto morale di tutte queste proposizioni è lei, la nox. Si rischia una vera e propria sommossa, una rivolta popolare: se le persone più accorte, presenti all’evento, non riescono a imporre moderazione, la colpa è della notte: obsequia meliorum nox abstulerat.

E quando, di lì a poche ore, Otone deve prendere in mano la situazione si rivolge ai suoi fautori prospettando il pericolo presente. Nelle sue parole, la situazione di caos e di sbandamento trova coagulo attorno ad una immagine ancora notturna: ma da questo compiere scorrerie nel buio e dalla confusione generale può venire la mia rovina (sed in discursu ac tenebris et rerum omnium confusione patefieri occasio etiam adversus me potest).

Ma le cose precipitano e nel giro di pochissimi giorni Otone matura il suicidio. L’episodio tacitiano è celeberrimo; riferisce di una notte non torbida e quasi tranquilla. Otone riesce perfino a prendere sonno (noctem quietam…non insomnem egit).

Lo squarcio è addirittura emblematico. La notte proprio perché è rappresentazione del nodo misterioso dell’esistenza, spesso può alludere anche alla soluzione possibile. Oppure al radicale mutamento dopo il quale si devono fare i conti con una situazione comunque diversa. Qui lo stile tragico di Tacito si prosciuga in una densità assoluta di scrittura.

L’evento culmina nel gesto freddo di Otone: luce prima in ferrum pectore incubuit. Pectore è ablativo strumentale (quasi a dire: usa il petto per gettarlo sul pugnale e morire) e conferisce al quadro una rigorosa, asciutta oggettività. E i fedelissimi che accorrono trovano il segno preciso che non c’è stata alcuna esitazione: unum uolnus inuenere.

Notte, luogo del cambiamento e della soluzione. E anche qui riscontri precisi: Tampio Flaviano, il legato di Pannonia inviso ai soldati per la sua irresolutezza e la sua vecchiaia, rischia grosso. Sospettato di tradimento, viene salvato a stento dal furore della truppa. A dichiararlo innocente, autentico deus ex machina, è una lettera di Vespasiano che emerge dalla notte. Nella notte stessa Flaviano partì e fortuna volle che incontrasse un messaggero che recava una lettera di Vespasiano in grado di discolparlo (Profectus eadem nocte Flavianus obviis Vespasiani litteris discrimini exemptus est).

Qualche pagina più in là (e torna fuori il nesso battaglia/notte) Tacito per ben due volte affida alla notte il ruolo risolutivo: nox dirimeret e ambiguum proelium nox diremit. Interessante soprattutto la seconda citazione. La notte, luogo dell’ambiguità, si ribalta nel suo contrario, nel taglio netto con la situazione preesistente e tronca il proelium ambiguum.

Entrambe le espressioni si collocano ancora nel contesto della secessione batava e, non a caso, proprio uno dei suoi protagonisti, Dillio Vocula, si sottrae, almeno per un po’ al suo tragico destino con l’aiuto delle tenebre: per Vocula si preparava la stessa sorte, ma egli, travestito da schiavo, riuscì a nascondersi nel buio e a eclissarsi (Eadem in Voculam parabantur, nisi servili habitu per tenebras ignoratus evasisset).

L’itinerario percorso attraverso le notti tacitiane ha, presumo, una sua suggestione. Merita in ogni caso una verifica e una sintesi. La notte è, nella tradizione culturale indoeuropea, il vero giorno e anche la riproposizione ritmata del buio cosmico da cui sono generati tutti gli elementi. È dunque il tempo della rivelazione, del proporsi autentico e senza mediazioni, magari per improvvise folgorazioni, della verità.

Vale la pena di caricare di significati così ampi il Tacito notturno? Forse no, ma è anche chiaro che la notte rimescola, modifica, cambia le distanze e le gerarchie di valori. Dunque è almeno vero che la notte rivela la fragile casualità cui sono affidati i destini umani. Ed è certo che, anche in Tacito, il buio e le tenebre possono servire a riconsiderare le cose, a dare senso e profondità alle differenze. E, in sede di conclusione, come non riproporre quella straordinaria annotazione che, in chiusura del quindicesimo capitolo del quinto libro, assume addirittura il tono alto dell’epifonema?

La rivolta batava è alle battute conclusive. Giulio Civile e Petilio Ceriale preparano lo scontro decisivo. La notte che precede lo scontro serve a Tacito per offrire il clima dell’attesa, dell’aspettativa e della paura. Lo fa in modo indimenticabile, tracciando i contrapposti stati d’animo: Nox apud barbaros cantu aut clamore, nostris per iram et minas acta.

Infine una stimolante indicazione per una ulteriore indagine. Il lettore delle Historiae la incontra in quei capitoli del terzo libro in cui viene raccontata la rapida involuzione della personalità di Vitellio, una volta salito al potere. Giunio Bleso, inviso a Vitellio, offre a costui un pretesto per eliminarlo partecipando, proprio nei giorni in cui l’imperatore soffre per una grave malattia, ad un banchetto in casa di Cecina Tusco (che era fratello di latte di Nerone). E la notte è ancora il tempospazio della conoscenza e della rivelazione: durante la notte vide su una torre muoversi molte luci (…aeger Vitellius… turrim…conlucere per noctem crebris luminibus animaduertit).

È il preludio della morte di Bleso.

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