0
Il Piccolo Principe

IL PICCOLO PRINCIPE

Io che suggerisco una storia ad Antoine de Saint-Exupéry?

Che peccato di presunzione.

Mi scuso. Volevo stare allo scherzo dell’eterno bambino che è Danilo Zanetti, magnifico editore e librario in quel di Montebelluna.

Il quale ha edito la 254esima traduzione del Piccolo Principe.

In dialetto veneziano, EL PINCIPE BOCETA, affidandola a Sergio Zangirolami (e a sua moglie Teresa). Purtroppo quello splendido intellettuale che è Sergio Zangirolami è morto da qualche giorno e la traduzione è stato il suo ultimo lavoro.

Danilo Zanetti, che è anche collezionista di edizioni diverse del libro, ha stampato un suo esemplare (in italiano, nella sua traduzione). E ha chiesto ad alcune persone di varia provenienza (non solo scrittori ma anche imprenditori, giornalisti come Giuliana Sgrena, calciatori come Aldo Serena, uomini di spettacolo come Red Canzian) di scrivere qualcosa.

Io ho pensato di suggerire all’autore una storia con una storia dentro. Cioè una storia e un’altra storia.

Un divertissement assoluto (per me) anche per la sfida a farcela stare in pochissime battute.

Spero che mi si perdoni, di tutto tenuto conto e data la situazione, l’atto di presunzione.

Giuro che non lo farò più.

(Ma giuro anche di essere un bugiardo inguaribile).

 

LA STORIA CHE ANTOINE NON SCRISSE

I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano
a spiegargli tutto ogni volta.
(Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe)

 

IL PICCOLO PRINCIPE 2Sono sempre così maledettamente ubriaco che ormai non so più se sono stato io a frugare il mondo in ogni suo buco o se è stato il mondo a girarmi intorno. E io sono stato fermo e ho guardato.
Il che, alla mia età, non è un gran male. Anzi.
Il problema è che non riesco a distinguere le avventure che ho davvero vissuto da quelle che mi sono inventato per spillare a qualcuno i centesimi di una birra.
Questa è inverosimile. Un sogno? Io giurerei che…
Fine anni Cinquanta, primi Sessanta. Boh. Acapulco, sotto la fortezza di san Diego? Marsiglia, in faccia alla vecchia chiesa dei Templari? Hong Kong, dove arrivano le dolci acque del fiume delle Perle? Adesso non chiedetemi tutti i particolari. Era un porto, questo è sicuro. Ho ancora nel naso il puzzo di pesce marcio e il tanfo di corda vecchia arrotolata.
Taverna del Diavolo Rosa. Toh, non ricordo latitudine e longitudine, ma il nome del locale sì.
Il piede mi balla. Mangiato niente, ma bevuto un bel po’.
Penombra, odore di gin caldo e limone, tiro gli occhi.
Uniformi della seconda guerra mondiale, aviatori. Tre. No, due. Con una flûte di champagne tra le dita. La alzano contro la fioca luce di una lanterna e osservano le bollicine.
Uno dei due è francese. Usa, con molto sussiego, parole come ‘perlage’, ‘terroir’, ‘cru’. Oh, i francesi, splendidi e insopportabili. L’altro deve essere tedesco. Accento e uniforme.
Ogni tanto tirano fuori il pacchetto delle cartine e arrotolano una sigaretta. Si offrono l’un l’altro il tabacco. Aspirano il fumo fino in fondo e, nel quasibuio del Diavolo Rosa, le braci sono due fuochi.
Non mi degnano di uno sguardo. Assorti nel loro colloquio. Accidenti, merce buona questa. E rara. Il francese deve essere un grande scrittore perché il tedesco gli dice: “Te lo giuro Antoine, se sapevo che eri tu, le mitragliatrici del mio messerschmitt non avrebbero mai fatto fuoco contro il tuo F-5. Io avevo letto i tuoi libri e ti ammiravo anche se eri un nemico. Giuro mille volte, non ti avrei condannato a rimanere sepolto col tuo aereoSaint-Exupery-primo-aereo in fondo al mare di Marsiglia”. Antoine ha uno sguardo triste, perduto. Gli risponde con un sospiro. “Era buio, come facevi a vedere che il mio velivolo da ricognizione era senza armi. Non le volevo a bordo, io. Le armi servono ad uccidere e io non uccido. Solo la mia fidata macchina fotografica”. E si mettono a piangere. Singhiozzano, si danno colpetti sulle mani. Si rassicurano a vicenda.
Poi uno schiocco, stappano un’altra bottiglia di champagne. Le lacrime scompaiono, arrotolano l’ennesima sigaretta, riprendono a parlare fitto.
Valli a capire, ora ridono. Complici. Il tedesco si dà una ripulita alle medaglie. L’uniforme della Luftwaffe sembra appena uscita da una stireria. Invece il francese, la sua, ce l’ha sgualcita e spiegazzata. “La guerra, caro Horst, la guerra”, dice. E Horst di rimando “Già due ne avevo abbattuto quel giorno, poteva bastarmi no?”.
L’oste viene a ripulirmi il tavolo. “Tutte le sere così, mi sussurra, si perdonano e poi si perdonano ancora. E alla fine sono ubriachi di Dom Pérignon, fatti e strafatti, da non reggersi in piedi. Fra poco il tedesco gli dice come hanno abbattuto lui, giusto un mese dopo”.
Horst dice ad Antoine “Ma ho pagato, sai, ho pagato. Ho conosciuto anch’io il fondo buio del mare dopo l’azzurro del cielo”. Accidenti, se Antoine è uno scrittore, questo è un poeta. Quasi quasi mi metto a piangere anch’io. “Non dovevo ammazzarti, non dovevo, singhiozza Horst, non te”.
Con un ruttino. Le bollicine sono bollicine.
L’oste continua a pulire tavoli. Ha la voce grossa. Antoine e Horst sono già partiti per la tangente. “Ma non li avevi mai notati quei due?, borbotta l’oste, adesso il francese attacca con le sue storielle. Più beve, più sono strampalate”.
E infatti.
“Sai, Horst, una volta ha incontrato un lampionaio che veniva dal Pianeta Veloce. Pensa, un pianeta che compie un giro su se stesso in un’ora. Un’ora soltanto. E lui ogni ora doveva prima accendere e poi spegnere tutti i lampioni per seguirne il ritmo infernale. Sul Pianeta Veloce il lavoro di lampionaio è pagato molto bene, ma siccome lì la vita è lunga secoli e millenni, in pensione non ci si va praticamente mai. A un certo punto, distrutto dalla fatica, si è messo sulla sua astronave e ha cominciato a correre per l’universo. Un po’ come noi. Sempre a girare per nulla. Ma il lampionaio del pianeta veloce, almeno, non deve ammazzare”.
L’oste mi si siede vicino. Pochi clienti. Mi fa credito da così tanti anni che ormai mi considera una parte del mobilio.
“E dall’astronave alle stelle, mi fa, aspetta solo un attimo”.
Le stelle in effetti arrivano subito. “Horst, ti ho mai raccontato del riccone pazzo che passava le notti a contare le stelle? Così ricco che i soldi gli avevano dato alla testa. Si era costruito una casetta vicino a un’oasi e passava la notte a contare le stelle del cielo perché, giurava, erano tutte sue e ‘bisogna ben sapere cosa si possiede’. Presuntuoso! Sosteneva che lui era in grado di dare un nome diverso a ogni stella. Ma siccome non era possibile, ogni sera fingeva di aver smarrito conto ed elenco dei nomi e ricominciava da capo. Proprio un miserabile, quel riccone.”
Eh già, mettere in fila i nomi, fare l’inventario. Si invecchia, le rotelle del cervello faticano a girare.
“Lubrificante, serve lubrificante”, dice Horst. Pronti per il prossimo Dom Pérignon.
“Adesso arriva l’Esploratore. Il pezzo forte di Antoine” mi sussurra l’oste.
Antoine-de-Saint-ExupéryEccolo, l’Esploratore Disperato. Da giovane era stato un bravissimo cartografo. Ma non aveva ricercatori a sufficienza da inviare nei luoghi sconosciuti e si era messo per strada lui stesso. Con gli anni, il quaderno di schizzi, disegni e appunti era diventato così pesante da schiacciarlo. E non aveva indagato che una minima parte del mondo. Fatmir lo aveva trovato che piangeva seduto sul pozzo di un villaggio. Cercò di consolarlo, divise con lui pane e datteri.
“Adesso Horst finge di non sapere chi è Fatmir e glielo chiede”.
Horst: “E da dove sbuca questo Fatmir?”
L’oste strizza l’occhio e stringe le labbra, come volevasi dimostrare.
Antoine non chiede di meglio. “Fatmir è un tappetista”
Ho capito anch’io. Adesso copione vuole che Horst chieda chi è un tappetista.
“Un tappetista è uno che attraversa i cieli sui tappeti volanti. Fatmir era in affari. Trasporti per conto terzi. Un giorno prese terra in uno dei cortili del favoloso palazzo del sultano, ai confini del deserto. Il castello scintillava di marmi e sfavillava di pietre preziose. Era venuta a porgergli una brocca di tè la più giovane delle mogli del sultano, una ragazzina appena entrata nell’harem. Hala. Bellissima, occhi neri, grandi come l’isola dell’infinito mare blu. A Fatmir bastò guardarla e farsi sfiorare la mano. Anche Hala fu percorsa da un brivido. Fatmir non ebbe più pace e nemmeno pensieri. Volò a lungo, nei giorni che seguirono, attorno al palazzo sperando di vedere la sua innamorata. Come una farfalla notturna attorno alla lucerna, come un pianeta attorno al suo sole.”
Antoine guarda controluce il perlage che sale dal fondo della flûte. Accenna un brindisi.
“Ma questa è una storia che non ho fatto in tempo a raccontare, accidenti a te e al tuo messerschmitt”. Ha malinconia negli occhi liquidi.
Come finisce la storia di Fatmir? E che ne so? Ero troppo ubriaco. E forse non era il porto di Marsiglia e nemmeno quello di Hong Kong. Mi pare di ricordare stradine ripide sul mare e case rosse e blu e gialle. Magari Valparaiso…

admin