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IL LORO NOME È GIÀ URLO

loronome_homepgPREFAZIONE
CHIAMARE OLTRE LA VOCE
di Loretto Rafanelli

 

 

 

 

Ci sono scrittori che vanno oltre le proprie pagine, nel senso che al procedere della loro opera, c’è parimenti un confrontarsi e un dire a voce alta, riguardo i mille aspetti della società, superando così il proprio intimo dettato, e divenendo testimonianza civile. Ricordiamo, fra gli altri, Pier Paolo Pasolini, il cui ruolo sappiamo bene quale fu nell’Italia del Novecento.
Parliamo quindi di persone pronte a esporre la propria intelligenza e la propria ragione, senza tremori e compromessi, spinti da una forte ricerca della verità, si badi, non quella assoluta inseguita da certe ideologie o religioni, che è noto quanti guai hanno causato e causano, piuttosto diciamo della verità semplicemente umana. Direi di più: compassionevole e pietosa, delicata e sensibile, che si può intravedere nel proprio vivere e nel proprio sguardo.
Ecco, in questa preziosa schiera si può collocare Gian Domenico Mazzocato, figura notevole di intellettuale, che, come si sa, oltre a una importante attività di scrittura, che va dalla narrativa alla traduzione, dalla poesia al teatro, dal giornalismo alla didattica, all’ambientalismo (e alla connessa galleria di immagini fotografiche), di pari passo esprime, con scritti e oralmente, una visione non solo artistica e culturale, ma di impegno sociale, attento come è a far prevalere oltre alla complessità della mente, pure la profondità del cuore e del sacro valore della vita.
Con la relativa attenzione agli ultimi, ai diversi, alle vittime del potere e della prepotenza dei nuovi conquistatori, con il loro incentivare la paura e restringere le libertà individuali e collettive.
Ma Mazzocato ha ben in mente tutto ciò e si muove con passi decisi, tenendo presente che, a fianco del senso di una sacra giustizia, nulla si può realizzare senza il fuoco centrale della bellezza e l’orizzonte largo dello sguardo.
E auspica perciò una agorà aperta a incroci di civiltà e culture, a una natura non ospite ma fondante e unica, a città misurate dal regolo del bisogno e del rispetto, ciò anche architettonicamente, come è stato per tanti centri medievali e rinascimentali, a iniziare dalla sua cara Treviso (cantata in una bella poesia dal sapore caproniano: Solitudine intride l’andare lento / di Sile e Cagnani. / Ti amo, mio luogo / di silenzio, plumbeo mantello / e fragile), o, ancora, per fare un esempio, Pienza, la città ideale voluta da Pio II e disegnata da Rossellini.
Città avvolte dal respiro dell’anima e dalla stupefacente idea di un nuovo umanesimo. Come l’autore dice in questi versi:  Io sogno e amo città libere e nobili / generose e diverse / tutte le vie, piazza dopo piazza / luminose nei vicoli. / / Ci sono città dagli abbracci impetuosi / perché possiedono braccia rudi e possenti. Quella bellezza che era la cifra dell’architetto del ’700, Lancelot Capability Brown, mastro giardiniere, costruttore di incantate scene applicate a alberi e fiori che Mazzocato ci fa conoscere, al fine di dare una indicazione colta e fondata atta a cogliere il senso dell’armonia e della complessità dell’arte verde (quel Varco tortuoso sulla via di Chatswort, / regno verde e solare del mastro giardiniere).
Mazzocato scrive storie ariose e coinvolgenti, scavate nel presente e nel passato che catalizzano il lettore, ma pure l’ascoltatore quando la narrazione avviene via video.
Ma un passo uguale mi pare sia presente anche nella sua poesia, che pur non essendo la forma di scrittura a cui si dedica con continuità, è sicuramente la linea di fondo, il solido architrave, del suo essere scrittore. Non a caso, in una sua poesia, e con il contemporaneo richiamo di due poeti come Luzi e Nelo Risi, così annota:  La poesia, ragazzo, è l’unico modo / per raccontare la vita / seguendo il suo ritmo.
Quindi possiamo dire che la nuova raccolta di Mazzocato nasce da una forte esigenza espressiva, quella necessità di collocare la poesia in un ambito affatto secondario, bensì ritenerla fonte continua di felici approdi scritturali, e di ampie letture (dove ci sono i classici ma pure i poeti del Novecento).
Il quarto libro di poesia di Gian Domenico Mazzocato ha un titolo evocativo, Il loro nome è già urlo, come fosse un chiamare oltre la voce, oltre i silenzi, coniugandosi con sicuri esiti a questa visione, caratterizzata come è da uno slancio amorevole in direzione di un altro che è presenza inquieta e contiguità necessaria.
Ma pure sforzo costante di inoltrarsi verso il magma ampio e sedimentato del proprio essere, del proprio vedere.
Mazzocato scrive una poesia pensante e colta, fatta di amplissimi rimandi: alla letteratura, all’arte, alla Bibbia, al mondo antico, greco e latino. Fino al tempo presente, e non poteva che essere così dato il ricco investigare che nel tempo ha focalizzato la sua attenzione, a partire dal suo ruolo di docente.
Tuttavia non vi è in questi versi il peso della erudizione o della letteratura, pericoli incombenti a cui a volte soccombono pensatori e prosatori che scrivono in versi.
La poesia in questo libro, assume un suo forte procedere, fatto di tanti riferimenti, ma puntellata da fulminanti passaggi (Vento rugge entro le vele; Oltre l’orto delle Esperidi, / abisso, / là muore la corsa del sole. / O forse nasce.; Lì è il pulpito / e la bibbia poggia sicura / su un ricciolo di legno, /come una voluta di violino.) e da un ritmo fiatato, soprattutto nei poemetti, fino a scorgere un immaginario scintillante e musicale.
E c’è una riflessione sulla propria vita (nella selva di ossidiana / cui do il nome di anima / da sempre, / desolata landa o torbido magma, / uno stupore forse), richiamata a un’esigenza di libertà priva di ipocrisie (Luminosa e dolce è la mia tenda /e aperta. /…/ Ma nessuno, nessuno / osi fissare il prezzo di ogni mio giorno).
Un esame introspettivo che volge all’obbligo di conoscersi: “Dentro di noi c’è una cosa che non ha nome, e quella cosa è ciò che siamo”, diceva Saramago, e ciò penso sia anche il sentire di Mazzocato, intento sempre a raccogliere i grani di una vita (nel Poema in blu, scorgiamo tutta questa esistenza, tra viaggi e nomi, tra luoghi e personaggi, una summa del proprio tempo trascorso, in immagini e sguardi che conquistano il lettore): A guardare il tempo che fugge e che come uno sciamano egli vorrebbe interpretare oltre il dovuto, seppure sappia montalianamente che: È qui il bastone della pioggia, / migrato da altra stagione di mia vita / e lontana ormai. / Nella casa del ritorno.
Perché si sa che tutto fugge precipitosamente e si sa che l’agguato del tempo è invadente, quindi solo l’attimo è la storia, ricordato in questo bellissimo passaggio: Breve l’attimo in cui il fiume / è sorgente, / poi è altro.
Nell’attimo c’è il fiato infinito delle cose del mondo: delle tante vicende storiche, della letteratura antica e moderna, della straordinaria pittura veneta, delle campagne incantate mutilate dalle fabbrichette come diceva Zanzotto, insomma il suo Veneto lamentoso, coraggioso e conservatore, curiale e infaticabile, industrioso e mirabile con le sue secolari bellezze, con i suoi molteplici racconti, così perfettamente raccolti e scritti da lui stesso.
Una narrazione infinita rilevata in un punto, in un attimo, tanto la vita ci costringe a posizionarsi. Cioè essere nel limite del finito: Eppure sappiamo che la preghiera sarà pietra, eppure sappiamo della decisiva fede cristiana. Poi c’è il tenero dolce amore per la moglie, Egle: tanti respiri vitali contro la tirannia del tempo.
Ma dicevo della ricerca esistenziale e della musicalità. Si scorgono soprattutto in una ballata, formata da quattro sezioni, dal titolo Pequod, che è poi la nave baleniera di Moby Dick, il famoso capolavoro di Herman Melville.
Qui, attorno, o meglio dentro questa nave egli scrive una storia tesa a cercare una verità, a cercare Dio, a cercare un difficile ritorno.
Una ballata sulla vita, sul dolore e sulla felicità.
Le parole sono affidate a Giona il profeta ebraico dell’Antico Testamento, che vacilla sulla baleniera e si consegna alle intemperie e ai salti della vita, e che è pronto a calarsi nella più profonda controversia, nella più agitata giornata delle decisioni, così delineate in questi bei versi: Tra fessura e fessura / dorme il tempo, sogna. / Giona, profeta maledetto // È stanco come un ubriaco. / Ma folle è il mare, furibondo, / oscilla ampio e terribile / il bompresso come mai è accaduto. / Bussa morte alla lurida cabina, / Giona sceglie l’abisso. / Solo oblio di sé gli è consentito.
Giona, il profeta maledetto che affronta il buio dell’abisso, ma pronto a raccontare il luminio del vento, così come il nostro autore, vigile e austero, sulla nave della vita sta a segnalarci il tintinnio dei nostri giorni.

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ANTOLOGIA

POETICA
(a Blaise Pascal, Mario Luzi e Nelo Risi)

Mario, poeta gotico
rievocò con gratitudine
Blaise, il più ateo fra i teologi.

Inaccessibile segreto degli eventi,
la fine o il principio,
cerchio ampio dell’universo,

attrae e divora e disperde
eterno abisso o nulla,
un punto e l’infinito
a separare vita e morte.

“Arida era in me la sorgente,
disse con voce di pietra,
poi amai Blaise e rinacqui.
Fui ancora poeta”.

Vento rugge entro le vele,
(“Ma se l’universo è buio e non ha punti,
chiesi ad altro poeta antico,
che vale un verso?”)
cuore nel mare profondo,
occhi dal timone alla stella polare.

“Scrivere è un atto politico”
sentenziò duro.
Poi abbassò la voce, sorrise.
“La poesia, ragazzo, è l’unico modo
per raccontare la vita
seguendo il suo ritmo”.
Si accese ancora un sigaro
Nelo, il cineasta visionario.

LIBERTÀ
Se fragile sia il tempo
o battito
qui è memoria.
Luminosa e dolce è la mia tenda
e aperta.
Aspetto ore e anni
e molti amici.
Il sorriso e il dolore.

Ma nessuno, nessuno
osi fissare il prezzo di ogni mio giorno.

A MIRIAM

Come puoi dire che il mio cuore è vuoto?
Ha solo bisogno di essere riempito.
Sete, attesa.

L’assenza è un tempo rubato,
ma da molto ho smesso
di dipanare il labirinto del destino.
Se sia gioco o giro largo
o elusione delle domande ultime.

Valgono le porte che apriamo
però
e, a far bene i conti, l’universo tutto
è labirinto.
Non ha bussola
o approdi o rotte possibili,
nord e sud, il sotto e il sopra.
“Non vi è diritto né rovescio
né muro esterno né segreto centro”
suggerisce Jorge Louis,
smagato sapiente
disilluso profeta senza sogni.

Allora, amore mio,
è cieco il bivio giorno dopo giorno.
Ma lo affrontiamo tenendoci per mano.
E questo davvero conta  e dura
perché entrambi sappiamo
che il labirinto vero
(quello da cui non si evade
quello crudele e tragico)
non ha muri ed è il deserto.

ELEGIA PER GENOVA

Moncherino di strada
addita il vuoto.
Baratro e abisso di noi,
ciò che abbiamo ignorato.

Sangue non pulsa più,
case morte
vuote di uomini
scavalcate dal correre folle.

Biografia di noi
tutti.
Morti per un azzardo del caso.
O vivi,
fardello di memoria e rimorso.

ELEGIA PER TREVISO

Qui, prigioniero e straniero a me stesso,
precario
ti penso vuota, mia città
mio grembo, mia tenera culla.

Mio gioco, mia scuola
in vicoli angusti,
dilatati, tuttavia, e praterie.

Solitudine intride l’andare lento
di Sile e Cagnani.
Ti amo, mio luogo
di silenzio, plumbeo mantello
e fragile.

Le chiese e le piazze,
Tomaso l’immenso
e come ti vide Dante
liquida e luminosa,
altera e dolce.

Osterie mute
silenzio antico e fondo
canta nelle piazze
flebile, nitido
respiro secolare.

Il mistero della storia
che siamo e per sempre.
Ponte de pria
che vuol dire pietra.
Che resiste. Ti amo.

DOPO

Stenderemo le ali sul diluvio,
su ciò che resta.
Noi rami oscillanti.

“Abbatti la tua casa, ti dico,
e costruisci una nave”
implorò Gilgamesh,
lì sulle rive sonore d’Eufrate.
Parlava al re sumero,
attorno aveva deserto.
Poi l’universo implose.

Ma all’alba del settimo giorno
liberò la colomba.
      Non trovò dove posare e tornò.
Liberò la rondine
      e anche il suo volo fu vano.
Poi Gilgamesh liberò il corvo.
 Si rifocillò, finalmente,
 e non fece ritorno.

Dai nostri corpi
sporgeranno le schegge dell’anima.
La parte viva di noi. E bella e vera.

EXPLICIT

Versi ho raccolto, sparsi nel cuore
fuoco vecchio forse,
forse muto popolo dei sogni
al risveglio.

Odisseo si svegliò, miserabile,
marina azzurra di Itaca,
non più re, rughe di pietra,
strage nel cuore.
Disse a Femio, l’aedo:
“Alza forte i tuoi canti
che non si oda l’agonia dei Proci.
Copri la morte”.
Obbedì l’antico rapsodo.
Cantò il sangue, cantò il ritorno.

Poi scagliò la cetra lontano,
con dolore.
Erano soli il re e il poeta,
sul mare fulgido e canoro.
“Mio signore, disse,
ho rallegrato il convito dei tuoi nemici.
Ma risparmia la mia vita”.
Tremava la voce del poeta.
Odisseo accennò col capo, pianse.

Parole che i poeti non dicono
(non sanno, non osano),
canti non sgorgano.

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