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IL CASTRATO DI VIVALDI ALL’ATENEO DI TREVISO

EUNUCHI O CASTRATI?
UN VIAGGIO
NEL SETTECENTO
DELLA MUSICA
E DEI TEATRI EUROPEI

INTERVENTO DEL 27 APRILE 2018

Il tema del castratismo è entrato nella mia vita una decina di anni fa quando fui accostato da un grande musicista e filologo musicale, il maestro Giuseppe Nalin, un oboista che, col suo complesso Sans Souci, ha tenuto la prolusione di un recente anno accademico dell’Ateneo. Nalin mi ha proposto di fare di un castrato il protagonista di un mio romanzo. Proposta fuori di ogni mio progetto di scrittura, ma subito apparsami affascinante e soprattutto intrigante.
Partì, da quella chiacchierata con Nalin, il lungo percorso che mi ha portato a narrare le vicende di Angelo Sugamosto lungo tutto il Settecento veneto, italiano, europeo. Una gestazione lunga, alla fine della quale ho pubblicato Il castrato di Vivaldi (Edizioni del Leone).
Fatica, devo riconoscere, coronata da successo perché il romanzo ha avuto ottima diffusione, è stato nella rosa finalista dello Strega, è stato da me presentato in sedi prestigiose. Tra di esse il convegno tenuto nel novembre 2018 presso il Reale Collegio di Spagna a Bologna a cura del Centro Studi Farinelli. Accanto avevo Patrick Barbier, uno dei massimi studiosi del tema a livello mondiale, e Aris Christofellis, il più grande falsettista vivente, l’unico, forse, che può dare un’idea di come fosse davvero la voce di un castrato.
Mi è necessaria questa premessa per dire che io mi sono avvicinato al tema del castratismo da assoluto neofita. Necessitato, dunque, ad una lunga fase di studio, di approfondimento, di immersione in un mondo che mi era completamente alieno. Ed è precisamente questo il taglio che intendo dare al mio intervento in questo anno accademico dell’Ateneo. Il senso della scoperta di un mondo di immenso richiamo e sostanzialmente ignoto al grande pubblico.
Intanto un po’ di etimo. Dal latino castrare, cioè “tagliare”, “potare”, collegato al sanscrito çastrám, “coltello”, “coltello sacrificale”. È la stessa parola che troviamo in castrum (luogo fortificato), letteralmente “pezzo di terra tagliato via”.
Peraltro il termine castrato, per il suo significato spregevole, fu spesso sostituito da altre locuzioni, come cantori evirati, musici o soprani naturali.
Ma insomma la condizione dei castrati era quella di una “voce da coltello”. Espressione che poteva essere intesa in due modi. Voce frutto di una operazione brutale e voce capace di tagliare l’aria come un rasoio affilato.
La prima cosa di cui ho dovuto rendermi conto è che praticamente mai il tema del castratismo era entrato nella narrativa europea.
Mi muovevo dunque in una sorta di terra di nessuno, un viaggio che mi avrebbe portato a produrre il primo romanzo europeo sull’argomento.
Se ne era occupato Balzac in una sua novella (o romanzo breve), Sarrasine. Il tema del castratismo è tuttavia abbastanza marginale. Al grande francese preme soprattutto raccontare l’imbarazzo di una famiglia che non può dare spiegazioni sulla propria ricchezza perché originata dalla carriera teatrale di un castrato ai suoi tempi famoso ma anche al centro di episodi di cronaca non proprio edificanti.
Di castrati parla anche in un suo romanzetto l’americana Anna Rice, diventata famosa per un libro, tradotto in film, Intervista col vampiro.

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Stefano Dionisi dà il volto a Farinelli nel film Gérard Corbiau (1994) Farinelli, voce regina

Anche il bel film girato nel 1994 da Gérard Corbiau, Farinelli, voce regina (con Stefano Dionisi nelle vesti del castrato più famoso ed Enrico Lo Verso che presta il volto al fratello di Farinelli, il compositore Riccardo Broschi) nasce da una sceneggiatura originale e non da un testo narrativo.
Una seconda cosa mi è stata chiara abbastanza presto: la necessità di distinguere tra eunuchismo e castratismo. Distinzione non sempre accettata dagli stessi addetti ai lavori.
Gli eunuchi (dal greco, εὐνή, “letto” ed ἔχω, “custodisco”) erano coloro che in età prepuberale o puberale venivano sottoposti a interventi più o meno estesi di mutilazione dell’apparato genitale. Perdevano la vis generandi ma, in qualche caso, non la vis coeundi.

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Farinelli era altissimo e bellissimo. Ma non sfuggiva al vetriolo dei caricaturisti. Questa caricatura è di Pier Leone Ghezzi (1724)

“Il fanciullo viene narcotizzato con l’oppio e immerso a sedere in un bagno di acqua molto calda, fino a quando cade in uno stato di completa incoscienza. Quindi si apre lo scroto e si asportano i testicoli”. Troviamo queste prescrizioni in Trattato sugli eunuchi (1707), un manuale che spiegava come procedere alla castrazione.
Si castrava ovunque e da chiunque. Medici laureati, ma anche flebotomi, barbieri, cerusici. A Napoli alcune botteghe dicevano nella loro insegna che “qui si castra”. Mortalità altissima, anche se non abbiamo cifre e statistiche.
Operazioni senza anestetico, come si è detto, e, viste le conoscenze mediche del tempo, con rischio altissimo di infezioni. Le setticemie, una volta insorte, non potevano essere arginate in alcun modo.
La pratica è antichissima, attestata migliaia di anni prima di Cristo in Cina e in Egitto.
L’ablazione delle gonadi porta alla mancanza di testosterone. Pene e prostata rimangono piccoli, la voce si alza invece di diventare grave, non crescono peli e muscoli. Il castrato non è fertile ed è impotente.
Tuttavia altri ormoni di origine surrenale servono a surrogare il testosterone e in questo caso si ha un eunuco che può in qualche misura avere rapporti sessuali. Farinelli era un amante molto ricercato.
Se la castrazione avveniva dopo la pubertà aveva effetti meno drammatici.
Quanto ai rapporti sessuali manca il desiderio ma non la capacità tecnica, la vis coeundi. Angelo Sugamosto, il protagonista del mio romanzo, ha un’intensa vita amatoria e affettiva.
Il castrato / amante era molto ricercato per la lunghezza del rapporto e per l’impossibilità di ingravidare, visto che non c’era emissione di sperma. Senza contare la spinta psicologica. Le dame scaldavano la loro alcova col fenomeno da palcoscenico la cui voce ammaliava tutti, uomini e donne. E tuttavia, nello stesso tempo, era anche disprezzato e spesso irriso in quanto non-uomo.
Ma qui stiamo già nel territorio del castratismo, non più dell’eunuchismo. Perché non parliamo più di castrati che fin dall’antichità avevano un preciso ruolo sociale ma della produzione (per quanto sia brutale dire così) di macchine da spettacolo.
Anche nell’antichità ci si era resi conto peraltro che certi castrati potevano avere possibilità e capacità canore precluse ad altri.
Gli imperatori di Bisanzio avevano alla loro corte una folta schiera di castrati con compiti amministrativi. E abbiamo notizia che, tra di loro, attorno al 400, l’imperatrice Elia Eudossia aveva trovato di che formare un coro affidandone la cura a un maestro eunuco, Brisone.
Dal IV secolo Costantinopoli ebbe un coro di eunuchi. La tradizione prosperò per più di 800 anni ma, dopo l’assedio del 1204, scomparve.
Bisognerà arrivare alle soglie del Seicento per entrare nell’epoca della castrazione finalizzata allo spettacolo musicale.
Il duca di Ferrara Alfonso II d’Este (1533-1597) fu uno dei primi estimatori dei castrati. Heinrich Schütz, maestro di cappella di corte a Dresda dal 1615, aveva castrati nel coro.
Nel 1589 papa Sisto V riorganizzò il coro della Basilica di San Pietro, aggiungendo all’organico i castrati. Risolse così il problema delle voci acute. Alle donne non era permesso cantare (mulier taceat in ecclesia, Paolo, Corinzi 1, 14, 34) e le voci dei falsettisti erano troppo deboli.
Clemente VIII (papa dal 1592 al 1602) nel 1599 ebbe a sentire un castrato umbro, Girolamo Rosini, detto Rosino, e rimase estasiato. Si sbarazzò dei cantori non evirati per sostituirli coi castrati. E l’orchiectomia venne ammessa “al servizio di Dio”. 
Atteggiamento ambiguo quello della Chiesa che ufficialmente condannava il fenomeno ma di fatto lo avallava, lo incentivava e lo sfruttava.
“I papi sono stati i primi che alla fine del XVI secolo hanno introdotto o tollerato nelle loro cappelle i castrati, quando erano ancora sconosciuti nei teatri e nelle chiese italiane. Dopo aver proibito alle cantanti e alle attrici di calcare le scene, dovevano avere completamente perduto il senso della realtà per non rendersi conto che sarebbero stati i castrati ad assumere i loro ruoli. Difendere i papi è dunque impossibile” scrive Peter Browe, gesuita e storico della Chiesa nella sua Storia dell’evirazione (1936).
Il fenomeno attraversa tutto il Settecento e tutto l’Ottocento e arriva alle soglie del Novecento.
La figura dominante del Settecento fu quella di Farinelli (Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi, Andria, 24 gennaio 1705 – Bologna, 15 luglio 1782).
Che ebbe letteralmente il mondo ai suoi piedi.
Nel 1737 Farinelli è chiamato in Spagna da Elisabetta Farnese, preoccupata per la depressione che attanagliava il marito Filippo V. Il re aveva abbandonato gli affari di stato e dava segni di follia. La voce di Farinelli fece tale effetto su di lui che questi non volle più separarsi dal cantante. Ogni giorno eseguiva le stesse otto o nove arie, tra cui Pallido il sole, dall’Artaserse di Johann Adolf Hasse.
Farinelli riuscì nell’impresa di far uscire il re sofferente dalla sua stanza. Lo fece lavare e radere. Filippo gli corrispose 2000 ducati l’anno, una enormità, con l’unica richiesta di non cantare più in pubblico. Il successore, Ferdinando VI, lo fece cavaliere di Calatrava.
Gli si devono le prime bonifiche delle rive del Tago. Diresse l’Opera di Madrid e spettacoli reali. Fece istituire il teatro d’opera italiano. Collaborò anche con Domenico Scarlatti, compatriota napoletano.
Molto famoso e apprezzato fu anche il Caffarelli (Gaetano Majorano, 1710-1783). Da ricordare Giovan Battista Velluti (1780-1861) e, prima di lui, Francesco Bernardi detto il Senesino (1686-1758). Di un altro grandissimo, Gasparo Pacchierotti, dirò tra poco.
Il fenomeno del castratismo era davvero un modo di essere del tempo, un gusto particolare. Ne è indizio un passaggio della scrittura di Giacomo Casanova. Nel febbraio del 1744 Giacomo Casanova capita ad Ancona (un ritorno, nei suoi infiniti vagabondare e fuggire) dove vive una delle relazioni più borderline.
S’innamora di un castrato, Bellino. Il fiuto di Giacomo: è convinto che sia una donna. Dopo corte serrata scopre che il castrato è davvero una ragazza, Teresa. Teresa è orfana. Per sopravvivere finge di essere quello che non è. Così può cantare nei teatri dello Stato della Chiesa. Come castrato e non come donna (Storia della mia vita, I, XI). L’episodio entrò naturalmente nel mirino di un grande pittore di scene piccanti come Julius Nisle (Stoccarda, 1812- 1850) che ha disegnato 48 scene per l’Histoire di Casanova (litografate da Adolf Gnauth).
Per venire a tempi successivi al secolo d’oro del castratismo, il Settecento appunto, Paolo Pergetti fu l’ultimo castrato a cantare in Inghilterra (1844). Domenico Mustafà (1829-1912), che una celebre foto raffigura a Montecatini con Giuseppe Verdi, fu uno degli ultimi castrati, sopranista apprezzato nel repertorio händeliano. Entrato nella Cappella Musicale Pontificia Sistina nel 1848, ne fu nominato “direttore perpetuo” da Leone XIII. La diresse fino al 1902.
Ma si arriva anche al Novecento. Nel 1922 muore l’ultimo dei castrati della Cappella Sistina, Alessandro Moreschi, nato nel 1858.
Il Vaticano continuò dunque a perpetuare la tradizione dei castrati ben dopo la breccia di porta Pia e il concilio Vaticano I. Non è l’unico motivo per cui ricordiamo l’evirato di Monte Compatri che fu detto l’Angelo di Roma e cantò ai funerali di Umberto I (1900). Fu soprano solista nella Messa da Requiem di Verdi a Ravenna. Abitava a Trastevere in via della Lungara e si spense dimenticato e solo.
E tuttavia è l’unico castrato che ci abbia lasciato una traccia sonora di sé. Nel 1902 giunsero a Roma alcuni pionieri inglesi della registrazione dei suoni per incidere su cilindro la voce del pontefice Leone XIII. Non se ne fece nulla (i motivi non sono chiarissimi, forse la voce del papa era troppo flebile per i primitivi strumenti di incisione) e probabilmente per non andar via a mani vuote, tra il 1902 e il 1904, registrarono 17 brani cantati da Moreschi. 17 incisioni che possediamo e sono reperibili anche in rete. Non danno peraltro, nemmeno alla lontana, idea della magia che poteva venire dalla voce di un castrato. Moreschi appare stanco, decisamente fuori forma e, in tutta onestà, perfino stonato.

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Gaspare Pacchierotti

Ritorno a parlare di un grandissimo, forse superiore allo stesso Farinelli, Gasparo (o Gaspare) Pacchierotti (o Pacchiarotti, 1740-1821), originario di Fabriano e padovano di adozione. A lui mi sono fortemente ispirato per la figura del mio Angelo Sugamosto.
Gasparo dorme alla periferia di Padova, in località Mandria, nella cappella di quella che è ora villa Pacchierotti Zemella. Per me è stato un grande onore essere invitato a presentare il mio romanzo in questo gioiello cinquecentesco il 28 ottobre 2017, ospite dell’attuale proprietario, il barone Silvio Alberto Zemella.
Si diceva della preminenza assoluta di Pacchierotti nella schiera dei castrati. Basti pensare che fu Asterio in L’Europa riconosciuta (di Antonio Salieri su libretto di Mattia Verazi) che inaugurò la Scala di Milano il 3 agosto 1778. E fu Alceo il 16 maggio 1792, festa della Sensa, ne I giuochi d’Agrigento (di Giovanni Paisiello su libretto di Alessandro Pepoli) all’inaugurazione della Fenice di Venezia. Insomma i due più importanti teatri lirici d’Italia (e dunque del mondo) furono inaugurati da lui con due opere scritte e tagliate sulle sue capacità canore.
Gioachini Rossini ebbe a dire “Datemi un Pacchierotti e scriverò anche per lui”. Il grande pesarese non fu l’unico testimonial eccellente di Gasparo. “Sei conversazioni di musica con questo grande artista valgono più di tutti i libri che si possono leggere sull’argomento” scrisse Marie-Henri Beyle, cioè Stendhal, in Rome, Naple et Florence en 1817.
1817, un anno cioè in cui Pacchierotti era già in pieno declino e tuttavia ancora folgorante. Il ricordo di Stendhal è altissimo e struggente.
Vale la pena di ricordare il passaggio per esteso.
“La sera, vado nel palco di Pacchierotti a parlare dei bei giorni della musica: mi racconta che a Milano gli facevano ripetere fino a cinque volte lo stesso pezzo. Ha ancora tutto il fuoco della giovinezza: si sente che l’amore è passato su quest’anima, e, come sapete, è un castrato. Ha avuto la ricercatezza di portare qui i più bei mobili di Londra. Il suo giardino all’inglese proprio nel centro della città, fra Santa Giustina e il Santo, possiede la torre in cui il cardinal Bembo passò i più begli anni della sua vita (…) Quest’anima che scoppietta in tutti i gesti di Pacchierotti, e che, a settant’anni, lo rende ancora sublime quando si degna di cantare un recitativo, si fa un po’ beffe della teoria. Ho imparato di più in fatto di musica, in sei conversazioni con questo grande artista, che in tutti i libri del mondo: è l’anima che parla all’anima”.
Dunque Stendhal ci dice che l’anima di Pacchierotti scoppietta. Qui pétille è l’espressione francese. Di fatto così ricca che è intraducibile. Vale “brillare”, “scintillare”, “scoppiettare”. Vale anche “frizzare” (lo champagne petille, ad esempio).

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Dunque Angelo Sugamosto.
Viaggia (e talora fugge) per tutta Europa. Il suo primo maestro è un liutaio di Venezia, dalla bottega del quale approda nella casa di Vivaldi e della sua protetta / pupilla / amante Anna Girò. Conosce i Tiepolo, Goldoni e poi, via via in giro per il mondo, Casanova ed Händel.

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Georg Friedrich Händel in una caricatura che ironizza sul suo trasporto per la buona tavola

A Parigi, dove deve vivere nascosto per paura di ritorsioni, in quel mondo in cui nemmeno i gendarmi osavano ficcare il naso che è la Senna dei barconi, dei ravageurs, dei contrabbandieri, delle prostitute, dei fuoriusciti e perseguitati politici, conosce il più celebre travestito del tempo Charles-Geneviève-Louis-Auguste-André-Timothée d’Éon de Beaumont (1728-1810). Diplomatico, spia, soldato, avventuriero e massone. Visse la prima metà della vita da uomo e l’altra metà da donna. Nel 1756 aderì alla rete segreta di spie chiamata Le Secret du Roi che lavorava agli ordini diretti di Luigi XV. Travestito da donna fu agente segreto alla corte degli zar di Russia. Celebre il suo duello in vesti femminili col cavaliere de St George nella londinese Carlton House. L’evento, accaduto il 9 aprile 1787, fu ritratto in un quadro di Charles Jean Robineau.
Anche lui uno sbandato. E portatore di una sessualità difficile da gestire.
Durante una serata di confidenze, cerca di creare un’immagine per la comune condizione di rifiutati dalla società, eppure da essa considerati utili.
Dice a Sugamosto: “Come dall’altra parte di un ricamo, di un tappeto, di un arazzo. Il loro rovescio. Se guardi sotto l’immagine nitida del ricamo, vedi fili disordinati, aggrovigliati. Ma sono, anche quei fili, un’immagine. Se li guardi con pazienza ci scopri un ordine, i riferimenti alla figura che sta dall’altra parte. Comprendi che quel disordine in realtà è un ordine. La figura nitida e ben formata ha bisogno del groviglio che le sta sotto”.
Insomma le sessualità difficili da vivere come necessità per la (buona) coscienza della borghesia e della nobiltà. Castrati e travestiti per il benessere e gli alibi dei benpensanti. Disprezzati e sfruttati. Tenuti ai margini e depositari di un ruolo preciso all’interno della società. L’ipocrisia come sistema.

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Georg Friedrich Händel

Questo è invece il passo in cui si narra l’incontro tra Vivaldi e Carlo Goldoni.
“…Antonio Vivaldi. Sotto la palandrana si vedeva la camicia sporca e in disordine. E quel rosso macchiato di grigio dei capelli scompigliati e arruffati, come la chioma di un albero spazzato dal vento d’autunno. Candelabri di ogni foggia un po’ ovunque e grandi ceste piene di candele, integre o ridotte a mozziconi. In un angolo, dentro ad una tinozza, la tonaca da prete e qualche camicia. Dappertutto bottiglie di liquidi colorati, verdognoli e rossi, celesti o neri. Su un paio di vasi Angioletto riuscì a leggere l’iscrizione. La theriaca, il farmaco costoso e dalla preparazione lunghissima, che in tutta Venezia, tre farmacie soltanto, autorizzate dal governo, potevano produrre. Certo serviva al maestro per i suoi terribili e improvvisi attacchi d’asma.

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Il cavaliere d’Éon affronta un duello in vesti femminili contro il cavaliere de St George nella londinese Carlton House (9 aprile 1787, quadro di Charles Jean Robineau)

E lì, davanti a Angioletto, Anna Girò, la sua donna. Era solo con lei.
La voce più famosa di Venezia.
“Il maggio scorso ero al San Samuele. In loggione. Siete stata una Griselda stupenda, le vostre arie del primo atto, Brami le mie catene e Ho il cor già lacero non le potrò mai dimenticare. E quella del terzo atto, poi, Son infelice tanto, la conserverò sempre nel cuore.”
Angioletto vide che la donna era compiaciuta, perfino un po’ sorpresa della sua memoria. Era nel fulgore dei suoi 25 anni e gli occhi verdi frugavano con malizia l’interlocutore. Pugnalate al cuore. Girò abbassò lo sguardo con un sorriso. Angioletto desiderò la donna con una intensità che non aveva mai provato nell’attesa degli arrivi di Lizia, la zingara cimariota. Fissò il candore del suo collo, tornito come quello di una statua greca, e il suo meraviglioso decolleté, su cui spiccava un filo di corallo, rosso come il rubino.
“Oh, ma io non ne ho merito, sapete. È il maestro che si preoccupa di ogni cosa. Scrive la sua musica per me. Per i personaggi femminili mi taglia addosso le note come un vestito. E si inquieta quando questo o quell’impresario non mi scrittura per opere che non sono sue, ma che hanno parti che sembrano scritte apposta per me.”
“Già, ma la voce e il talento sono vostri.”
“Ma godere dell’attenzione, della stima e delle premure di Antonio Vivaldi è importantissimo. Voi l’avreste dovuta vedere la scena in questa stessa stanza, quasi un anno fa, a novembre.”
“Quale scena?”
“Non siate impaziente. Eravamo in piedi, un po’ a disagio. Io, mia sorella Paolina e Carlo Goldoni. Avete sentito parlare vero del dottor Goldoni?
“Certo, è il giovane teatrante che ha rappresentato con tanto successo quella sua tragicommedia, il Belisario.”
“Beh, avreste dovuto essere qua. L’unico seduto, era lui, Vivaldi. Ansimava, sapete, la sua ristrettezza di petto. Da mesi il maestro si rigirava tra le mani il libretto della Griselda di Apostolo Zeno. Non sapeva da che parte prenderlo. Griselda dovevo essere io. Su questo non si discute. Ma quelle arie… no, via, non erano tagliate per me. Troppo cantabili, per me il maestro voleva un’aria d’azione. Capite cosa voglio dire, vero? Un’aria che rivelasse la passione, ma senza essere patetica. Goldoni lo ha convocato lui, Vivaldi, proprio dopo il trionfo del Belisario, per vedere di aggiustare il testo. Ma dopo averlo visto e squadrato da capo a piedi, ha scosso la testa. ‘Un ragazzo, è solo un ragazzo. E mi pare pure viziato, capriccioso’ ha biascicato. A mezza voce, ma credo che il signor Goldoni abbia inteso benissimo. Impossibile che uno così giovane potesse conoscere le regole e i trucchi per infilare le mani sul libretto di un gran mestierante come Apostolo Zeno. Goldoni lo stava a guardare. Sorrideva e taceva. Poi disse che voleva il libretto e Vivaldi a obiettargli che non poteva, che doveva ancora lavorare tanto sui recitativi, che non gli era possibile privarsene chissà per quanti giorni. Me la rivedo quella pantomima. ‘Il libretto e il calamaio’ precisò Goldoni. ‘Quanto alla carta…’ e si mise una mano in tasca estraendone una lettera, scritta solo sul verso. Posò la pagina bianca sul tavolo e, sempre in piedi e un po’ ingobbito, prese a scrivere di getto. Ogni tanto tamburava le dita sul legno del tavolo per vedere se il ritmo tornava.”
“E il maestro?”
“Beh, questa è la cosa più ridicola. Non sapeva che partito prendere ed era sicuro di avere di fronte un piccolo e presuntuoso smargiasso. Prese il breviario e cominciò a leggerlo, a mezza voce, forse anche per disturbare il dottor Goldoni che invece continuava a sorridere e a lavorare in silenzio sul suo foglio. Vivaldi col libraccio nero del breviario andò a sedersi a quella piccola scrivania, vedete, lì nell’angolo, sotto il lume. Ogni tanto alzava gli occhi per gettare uno sguardo su Goldoni che scriveva in fretta. Mi sarebbe piaciuto che quella scena durasse tutta la mattina, ma non furono che pochi minuti. In capo a una mezzora, Goldoni prese a sventolare il foglio per asciugarlo e, poi con passi misurati, andò a metterlo sotto il naso di Vivaldi. Aveva in volto un’aria di sfida, ma bonaria e sorridente. Il maestro con la destra reggeva alto e quasi affettatamente, proprio tra naso e occhi, il breviario come se fosse la sua unica preoccupazione. Con la mano mancina afferrò il foglio, un gesto sgarbato quasi a volergli concedere niente più che un’occhiata distratta. Il tanto che bastava per aver agio di liquidare il vanitoso che voleva gareggiare col grande Zeno. ‘Ho cercato di cogliere l’essenza, il sentimento dell’aria cantabile e, senza dimenticarmene, l’ho trasformata in un’aria d’azione, di passione, di movimento. Come volevate, spero’, sussurrò Goldoni. Vivaldi lesse, prima di malavoglia, con una piega di disprezzo agli angoli della bocca. Poi sempre più coinvolto. Strabuzzò gli occhi e dopo due minuti io avevo già in mano il testo per provare. ‘Trasferitevi qualche giorno qui da me, assassineremo il libretto dello Zeno in lungo e in largo, come e quanto ci piacerà. Lo faremo a brandelli, se sarà necessario. Gli tireremo fuori le budella. E verseremo tutto il sangue che serve. Sarà il più efferato, crudele e meraviglioso dei delitti’, sorrise furbescamente a Goldoni. Era commosso. Lo abbracciò ed è nata un’amicizia.”

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Antonio Vivaldi

Infine Händel, conosciuto a Londra.
Angelo Sugamosto è raccontato come un eroe dolente. Che per tutta la vita cerca qualcuno che scriva un’opera in cui lui possa riversare il suo dramma di uomo privato della possibilità di avere una famiglia. Tradito dai suoi genitori.
Ha trovato una vicenda biblica che raffigura la sua storia personale, quella di Iefte il Galaadita così come la leggiamo in Libro dei giudici, 11 e 12. Iefte sacrifica la propria figlia per uno sciocco voto fatto in battaglia. Dio non interviene a fermare la mano orribile di un padre che uccide la propria carne come è avvenuto nella vicenda di Isacco e Giacobbe. Sugamosto spera che Händel possa aderire alla sua richiesta.
Questo l’incontro fra il grande genio e il castrato.
“…Il labirinto di scale, corridoi, mezzanini era, se possibile, ancora più intricato di qualsiasi altro teatro Angioletto avesse mai visto. Il valletto li guidò in silenzio e poi, davanti ad una porta, fece cenno di fermarsi e attendere.
Bussò discretamente, risuonò la voce possente di Händel.

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Carlo Goldoni

La stanza era molto grande, luminosa. Il maestro stava seduto davanti ad un cembalo, le mani sulla tastiera, la testa un po’ inclinata in avanti. Le spalle alla porta.
Si girò verso i nuovi venuti. Li guardò con i suoi occhi scavati, incorniciati da ciglia grosse e folte. Le pupille apparivano offuscate e tuttavia mobilissime, a loro modo luminose, capaci di sprizzare lampi.
Era alto, corpulento. Angioletto pensò che se lo avesse visto seduto ad uno dei tavoli della taverna, magari con un boccale di sidro davanti, avrebbe stentato a distinguerlo in mezzo agli altri e ad attribuirgli le doti sublimi del suo genio.
Il volto largo, il naso grosso e carnoso, molto arrossato. Le labbra sottili, le gote robuste, due rughe profonde ai lati della bocca.
Händel aveva gettato la sua parrucca bianca su una sedia e appariva quasi completamente calvo. Indossava una sottomarsina di seta nocciola e calzoni dello stesso colore, dalle guarnizioni dorate.
Nella stanza si avvertiva odore di fumo. Angioletto e DePomilio avevano appreso dalla lettera di Gioacchino Conti che il maestro era un furioso fumatore di pipa. Vi si attaccava soprattutto nei momenti di depressione e di malinconia che negli ultimi tempi si erano fatti molto frequenti.
Conti li aveva anche avvertiti che non ci sarebbero stati problemi di comunicazione visto che il maestro parlava correntemente tutte le lingue europee.
Händel li fece sedere accanto a lui. Interrogò Angioletto, lo ascoltò con pazienza. Poi lo fece cantare. Volle sentire anche come suonava l’oboe. Il colloquio durò due ore. Händel vi pose fine alzandosi in piedi. Sembrava davvero un uomo grossolano, così, senza parrucca e con i vestiti un po’ spiegazzati.
Pose una mano sulla spalla di Angioletto.
“Siete una persona colta, avete avuto ottimi maestri. Possedete una splendida voce, ben calibrata e modulata, di buon impasto. Con toni gravi molto personali. Il vostro amico dottore vi ha curato molto bene. Tuttavia non riacquisterete mai la potenza e la forza che avevate prima di ammalarvi, da quello che riesco ad arguire. Io vi posso aiutare. Vi farò seguire da chi vi potrà sostenere nello svolgere opportuni esercizi. E i miei agenti vi troveranno scritture adatte ai vostri mezzi. Non sarete un protagonista, ma potrete lavorare molto bene. Non sono tempi facili per nessuno. L’anno scorso ho rappresentato a Dublino il mio Messiah, cui ho lavorato perfino con violenza e rabbia tanto da concluderlo in una ventina di giorni appena. Lì un trionfo, un delirio. Ma qui a Londra… è vero che re Giorgio si è commosso e ha voluto ascoltare in piedi tutto l’Alleluia. È vero che il pubblico lo ha per forza imitato. Ma incontrare il gusto e il gradimento della nobiltà, beh amici miei, è tutta altra cosa. In ogni caso io perdo qualche battaglia, ma mai la guerra. Questa è la mia fede ed è anche la mia filosofia. Il Te Deum che ho composto per la vittoria del nostro re a Dettingen ha abbattuto più di qualche muro.”
Gli occhi bianchi ebbero un fremito, le labbra si fecero ancora più sottili. Respirava forte, rumorosamente. Ci mise qualche istante per calmarsi. Sorrise.
“Se volete farmi compagnia a pranzo…”

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Domenico Mustafà conversa con Giuseppe Verdi a Montecatini

Raccolse la marsina che aveva gettato su una sedia e la indossò senza abbottonarla. Si mise sotto il braccio l’ampio tricorno. Chiamò il valletto e gli pose una mano sulla spalla. Scese le scale con sicurezza. Una volta all’aperto camminò spedito.
Mangiarono in una taverna dietro al teatro. Il valletto si fermò sulla porta, in attesa.
Avventori di ogni tipo, di tutte le classi sociali. Alcuni tavoli, disposti lungo la parete opposta all’ingresso, erano occupati dai giocatori di backgammon. Tiravano silenziosi i dadi e si guardavano negli occhi. Avevano movimenti svelti. Ai muri erano affisse delle stampe con scene che ritraevano rappresentazioni musicali. Gli odori unti della cucina e denso fumo di pipa impregnavano l’aria.
Händel si diresse con passo tranquillo verso un tavolo d’angolo. Chiaro, il suo posto riservato. In realtà sfiorava sedie e tavoli. Solo allora Angioletto e DePomilio realizzarono che si stava orizzontando, che si muoveva a tentoni.
Händel fissò il suo sguardo senza luce negli occhi di Angioletto.
“Ascoltate e guardate. Meglio che potete e più che potete. Con ogni fibra dei vostri sensi. Gli inglesi non conoscono l’arte del perdono. E in cima ai più imperituri e coriacei disprezzi mettono gli estranei che non sanno parlare bene la loro lingua. Più ancora odiano chi la parla con inguaribile e irrecuperabile accento straniero. In compenso sono dei grandi moralisti e per questo, a dispetto dell’imperante perbenismo di maniera, amano i castrati e chi, come me, scrive musica per loro. Vi sembrerà un paradosso ma è così. A teatro gli eroi, gli dei e anche i tribuni e i comandanti di Roma antica recitano la parte della virtù. E la virtù non conosce il tempo, non invecchia, è eterna e perennemente giovane. Come la voce angelica dei castrati. I modelli, gli esempi, i costumi integri stanno fuori del tempo. Fuori del fluire dei giorni e delle stagioni: resistono ai secoli, devono recitare la loro eterna lezione, suonano la tromba della verità attinta presso Dio stesso. Proprio come le voci degli angeli.”
Si stese sul petto un enorme tovagliolo bianco, coprendo con cura tutti gli svolazzi dello jabot.
Una cameriera dall’ampia scollatura depose sul tavolo le portate.
L’appetito di Händel era formidabile, addirittura terribile. Da bestia. Riempì fino all’orlo la coppa di vino di Borgogna, nero come il sangue. Si gettò con avidità su una coscia di montone che sapeva di brace, di erba e di selvatico. Riprese a parlare solo quando ebbe finito. Ruttò con fragore gettando la testa indietro.
Nemmeno a Sugamosto e DePomilio mancava l’appetito”.

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Alessandro Moreschi, l’ultimo castrato della cappella Sistina

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