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Danilo Mason

Xe tuto de rabaltòn

(di Danilo Mason)

con una presentazione di BEPI DE MARZI
con disegni a china di BRUNO ANTONELLO

 

 

stampato presso le Arti Grafiche Postumia
di san Martini di Lupari (Padova)

Danilo Mason prosegue con queste liriche in dialetto la ricerca già iniziata col suo primo libro SÒTO EL BARCO. Una straordinaria forma di poesia “popolare”, di affabulazione che racconta per favole semplici, nei filò e nei conversari tra amici.
Danilo Mason è persona di grande generosità: i proventi del suo libro vanno tutti in beneficenza (in particolare Mason è impegnato a livello di volontariato nel Terzo Mondo, soprattutto in Mozambico dove a periodi fissi si reca a portare il suo aiuto e il suo lavoro).

Per informazioni: vivinal@libero.it

 

Ho conosciuto Danilo Mason sul finire degli anni Settanta. Vocazione: pilone.

E per dirla tutta, pilone campione d’Italia con il rugby trevigiano, allora targato Metalcrom.

Quello del pilone è un mestiere strano: ti induce a guardare il mondo dal basso verso l’alto ma non ti mortifica mai. Ti costringe a spingere con tutte le tue forze contro un muro ma non ti fa mai sentire inutile o inadeguato. Ti fa vedere i mulini a vento da vicino ma non ti rimprovera se tu scopri di assomigliare a don Chisciotte. Sudore e fatica.

Conditi con qualche incomprensione: “Al mio paese, mi disse Danilo che allora viveva a Cittadella, nemmeno sanno cosa sia un pallone di forma ovale.”

Lo ritrovo ora, con gioia e amicizia grandi, Danilo. Con lo stesso atteggiamento mentale ed etico. Di mestiere, fa sempre il pilone: irruento, generoso, cordiale, totalmente disponibile. Solo che ora, invece di farsi passare un pallone tra le gambe nella fatica di una mischia, scrive versi.

Versi da pilone: schietti, sinceri, che vanno dritti al cuore. Buoni da essere letti ad alta voce, proprio giusti per rinnovare il piacere antico delle nostre terre di ritrovarsi a filò e raccontare il mondo.

Ogni volta che lo si racconta, il mondo, lo si reinventa un po’. Il lavoro di chi scrive è tutto qui. Di suo, Danilo ci mette la schiettezza d’animo, la parola dritta e sincera. C’è, nella sua poesia, un senso robusto e antiretorico delle cose e degli eventi, una capacità di scavare e togliere il di più.

Come fa lo scultore, insomma, che con grande fatica e assoluto rigore asporta, colpo dopo colpo, tutto il marmo per scoprire e portare alla luce l’essenzialità dell’immagine che esso contiene.

Ed era impossibile che Danilo non dedicasse dei versi ad uno sport autentico come il rugby.

Di quello stare insieme passandosi una palla di forma non sferica, Danilo Mason racconta il senso profondo.

Lo stare insieme, appunto, sul prato verde e durante il terzo tempo, l’orgoglio di indossare una maglietta come una seconda pelle, il rispetto dell’avversario, la gioia per la vittoria, il dolore per la sconfitta. Si respira in questi versi il piacere di essere leali ed onesti, il piacere di lavorare.

L’onore di cantare l’inno della tua terra, il brivido di quindici uomini che vanno in campo sentendosi come fratelli, il senso di comunanza che viene dal sapere che tutti devono mettere le mani su quel pallone.

E quel pallone, toccato da tutti e quindi consacrato -come in un rito- dal lavoro comune, viene portato in meta.

Danilo sa bene che nessun sport è, come il rugby, metafora e immagine dell’umana esistenza. Si lavora per uno scopo, se lo si fa insieme l’obiettivo viene raggiunto.

Ci può stare anche la sconfitta, ma anche la sconfitta educa e insegna. E ogni giorno che passa impegna gli uomini e le donne a passare il testimone (come in una gara a staffetta, tanto per restare tra metafore e sport) a chi viene dopo: gli consegna un patrimonio che non è fatto solo di successi, ma di piccole mete raggiunte una dopo l’altra. Mete.

Col suo bel dire chiaro e sonante, Danilo Mason racconta tutto questo. Si tratta di un piccolo/grande patrimonio di sapienzialità  in cui l’evento sportivo diventa simbolo di un percorso esistenziale.

Bisogna ascoltarla, la saggezza del pilone. Perché un pilone è una sorta di paradosso vivente: nasce già vecchio, ma resta eternamente giovane.

 

GIAN DOMENICO MAZZOCATO
(Treviso, 1 dicembre 2004)

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