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Dalla selva delle esili memorie

 

 

 

 

 

(EDIZIONI DBS, FELTRE, 2008)

Con una nota di Giuseppe dal Ferro

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DALLA SELVA DELLE ESILI MEMORIE
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Nella poesia di Gian Domenico Mazzocato, scrive Giorgio Bárberi Squarotti, “è il senso di una parola che viene fuori superando barriere enormi di silenzio, come dal fondo dei secoli”. Tempo, memorie domestiche, spazio, paure del quotidiano sono l’impasto di questa poesia “dura, aspra, irta come per una fatica del dire”. Mazzocato raccoglie nella sua selva popolata da esili memorie (fantasmi e corpi vivi ad un tempo) i versi scritti negli ultimi anni. Dopo Il fuoco vecchio e Straniarsi è qui (va ricordata anche la partecipazione assieme ad altri tre poeti a Diapason con variazioni) è questa la sua terza silloge. Poesia impressionistica, poesia della memoria. Mazzocato, che in questi anni si è dedicato soprattutto a narrare la civiltà della sua terra fondando quella che Fulvio Tomizza ha chiamato “la saga dei vinti veneti”, continua a raccontare qui, con coerenza alle sue scelte culturali e valoriali, il perenne straniamento del poeta rispetto ad una quotidianità ostile e indecifrabile. È la difficoltà a individuare il correre di un segno provvidenziale, a riconoscersi un ruolo nella storia. È l’orrore per il male che la abita, è il silenzio del divino. Che può dire e dirsi il poeta? Che può fare? Nulla, se non tracciare un percorso di risalita alla memoria, ai valori da cui viene. Solo una testimonianza, sofferta.

NOTTURNO VENEZIANO

Non è più qui insinua una voce

e il vicolo fu improvvisa suggestione,
un solco scavato, un alveare vuoto
una vena sottile e spezzata
che ancora pulsa

Zampilla una piccola fontana
e l’altoparlante, lontano, insiste
sui prezzi migliori, sulle grandi occasioni

Qui nel vicolo il mare di folla
ha un suo piccolo golfo riparato
un ponte gettato ieri, già sconnesso.
Vira piano la solitudine ma il timone non ha misura

Due fari, dal profondo della notte
frugano case in decadenza
e i muri macchiati

Voglio la dose ha tracciato
uno spray rosso, senza speranza

E se non volessi ricordare? Ma conserviamo
la foto, fattaci di sorpresa.
Lì sorridiamo per caso.

MIO PADRE

E qualcuno, anche in mezzo a noi,
difende la sua fede,
ciò che ricorda e gli si è ingrommato
dentro
senza scelta, irreversibile

Non farò mai testamento
disse con voce ferma
al massimo registrerò una bobina
sul magnetofono.

Per dirti.

E fu tutto allora, per sempre
per tutte le archeologie possibili
di me
per tutti gli archetipi cercati e inseguiti.

Né ancora so

Tanto si è sgretolato il ricordo
da non esistere quasi più
Rinuncia alla memoria, è meglio.

il ricordo resiste come un guscio vuoto
nel gesto di raccogliere da terra
un frusto di pane

memoria scavata, archeologia dei sensi
memoria pietrificata, senza parole

PER ALCUNI AMICI

Nascemmo e fummo già al limite estremo di noi
-fragile il diaframma di anni, sentimenti e giorni
ed esile tra essere e non essere-

E la memoria è una pietra senza radici
dolcemente piegata sul muro basso
che i pruni carezzano
tra gli odori luminosi dell’estate

Fermò il lapicida, su commissione
due cose o tre di noi o forse nessuna

Ora certo siamo al di qua del mistero
e voliamo con piccole ali di luce
sopra il deserto che fummo

nella gioia leggera che siamo

PER GIOVANNI

GIOVANNI NARDI
morto per mare
e mai restituito alla sua terra

Piange ora la memoria di me
con eco sonora in una tomba mai scavata

Ricordo che fummo nebbia tutti
in un giorno di stagione in declino
e cercammo approdo

Fui nebbia anch’io
e scivolai piano nell’acqua
confuso e stupito che i miei piedi contadini
non lasciassero orme

Morì con me Paolo lo stupratore
che nell’ultimo abbraccio
ebbe una carezza sulla mia mano
e Ronnj, il pugile nero venuto da lontano
e poi squarciato
come il ventre della nostra barca

Di loro ho ricordo perché morimmo abbracciati
con gli occhi chiusi, eppure guardandoci
perché l’anima era svelata
e comune e liquida.

Fu come scivolare lungo il ristoro
di un pianto lungamente atteso
e rifondare noi stessi
sulle palafitte del tempo disseccato
e riscoperto eterno

PER GIUSEPPE

BORDIN GIUSEPPE
di anni 72
strappato all’affetto dei suoi
dopo lunga malattia

Ti ringrazio Signore per questa prova di dolore

Il prete e mia moglie mi misero in bocca queste parole
che abitarono per un’eternità
tra pensieri e rantoli estremi
-brevi e vicini-
incagliate senza speranza nel labirinto della paura

Il mio sangue piuttosto
urlava e chiedeva perdono
tra gli ultimi grumi vivi

Ora qui non dorme Eleonora
con cui una sola volta ho peccato
nei suoi vent’anni e nei miei cinquanta o quasi
dopo sei mesi di desiderio mio e suo inconfessato

E ho consumato in fretta
la mia anima diversa ed estranea
il mio io sperduto
e turgido e smarrito
tra i solchi lunghi e uguali che furono mia vita

Qui Eleonora non dorme
né io so quale destino l’abbia presa o domata

Così sono venuto solo, Signore
logoro e aperto in ogni fibra
schiantato dal mio soffrire

PER ITALO

ITALO BARRO
di anni 54
tornato dal Belgio
a morire nella sua terra

Nessuno può negare, spero,
che 54 anni siano pochi per morire:
ma chi può fare i conti in tasca al destino?

La miniera è una terra che vibra
e tu ne ascolti con paura i sussulti vivi.
La miniera è un muro nero da spingere avanti senza fine
facendone briciole di continuo
e da gettare dietro le spalle.
La miniera è un modo di vivere senza sole
ed è una bestia aspra e ruvida
che continuò a mangiarmi anche quando ne riemersi

Sentivo però l’anima intatta e solare
e tornai qui a morire tra le stagioni del granoturco
e i rumori impercettibili del mosto.
Non mi lamento.
Ho liberato la mia anima come un aquilone
e ho trovato speranza
e la mia porzione di eternità.

Non so cosa pensa però, qui vicino a me
Ortensio, dagli occhi neri
che era il bello del paese
e aveva ancora il volto di un bambino.
Mezzo se l’era già mangiato la guerra d’Albania
e quel che di lui restava
-aveva ancora il volto di un bambino-
abitava inquieto e pauroso
nella casa di sassi, tirata su con rabbia
fino al soffitto, in pochi giorni.

Sua moglie lo vegliò disperata e lucida
in sei giorni di agonia
caduto dalla moto dopo un giorno di cantiere.
Che pensa Ortensio, il bello
delle due figlie che ha lasciato?

Che pensa
dei suoi trent’anni bruciati in una sera
tra i ciottoli di una strada troppo lunga
al margine della sua vita senza domani?

Non so cosa pensa Ortensio, il bello
-nel suo viso attonito di fanciullo
troppo presto colto in fallo-
ma prima o poi
troverò un attimo di eternità

e glielo chiederò.

NOTA A IMMAGINI DEL REGNO

di Giuseppe dal Ferro

Al di là della quotidianità e dell’incalzare dei giorni, la vita spietatamente ripropone ad ogni angolo, all’uomo di tutti i tempi, il mistero che solo nella religione acquista significato.
I versi tesi e suggestivi di Gian Domenico Mazzocato sono intuizione di questo mistero, che si ricompone in una profonda religiosità.
Sono parola che rinuncia ad essere se stessa per divenire acqua trasparente, invisibile, tale da consentire un contatto con il greto del fiume per lo più sconosciuto.
Il respiro dei versi è universale: nel leggerli mi sembrava di cogliere una umanità inconsapevolmente unita nella ricerca dell’ignoto: l’induista in attesa della rinascita ultima (una sola volta e definitiva) il quale ritiene centrale nella vita attraversare il guado; il taoista preoccupato di trovare l’immortalità sulla montagna, dove vivono gli spiriti (lungo il cammino sul taglio del monte); l’uomo secolarizzato dell’occidente insofferente degli archetipi della vita, consapevole perché vivere è mistero e l’andare un barcollare incerto.
È la sofferenza degli uomini, il camminare a tentoni angustiato dal perché?, l’aprire il costato con l’arma selvaggia e irridente per trovare una risposta.
Questo cammino angosciato all’incontro col fallimento del crocifisso, dischiude la porta del Regno e con essa scopre la speranza: vincerò.
Il mistero allora si fa intelligibile e, in un incalzare di Se il padre esiste…, dilaga sulle cose trasformandole in amore, in guida, in occhio veggente, in simpatia universale per il mondo: Sarò vento col vento, voce sonora e inascoltata, voce ebbra di ricordi.
In questo senso, ed è forse la chiave dell’intuizione poetica, la memoria carica di dolore e di morte si fa con la fede intuizione prospettica, traboccante di speranza e gioia.

NOTA DELL’AUTORE

Ho raccolto in Dalla selva delle esili memorie alcuni dei versi che ho scritto dopo il mio Straniarsi è qui, che risale agli anni Ottanta. Alcuni si configurano nella species del frammento, altri cercano di comporsi in una geografia più ordinata e riconoscibile nella struttura del poemetto.
Alcune sono liriche d’occasione. Per esempio Rustico trevigiano ha accompagnato alcune incisioni raffiguranti antichi e cadenti casali trevigiani: una immagine che ha condensato anche dopo di allora alcune mie emozioni e guidato qualche itinerario del ricordo.
Immagini del Regno sono segno e frutto di inchiesta e ricerca. Inesauste, inevase, vorrei dire fallimentari e inconcludenti. Perchè in realtà non si smette mai di cercare e il senso dell’inchiesta non risiede nell’oggetto o nell’obiettivo, ma nello stesso cercare.
L’isola del pensiero è catalogo di memorie sparse. O meglio, un tentativo di catalogare. Come accade del resto con Per alcuni amici che è sintesi di alcuni incontri (virtuali? fittizi? Io credo che nulla diventi più vero di tutto ciò che è invenzione e poi scrittura) con storie possibili. Dico così: una prova di racconto in metrica.
In Alla ricerca dell’airone rosso narro come si può scendere verso la foce di un fiume (il placido Sile, nel mio caso) e in realtà cercare una pausa.
In generale le liriche appartengono -trama e ordito- al tessuto dell’ansia e della paura che contraddistingue l’immagine della selva o, se si vuole, del labirinto, del viaggio.
E continuo qui, in qualche modo, l’inventario degli oggetti incontrati nello straniamento delineato nelle altre mie sillogi.

NEL PROFONDO DELL’ANIMA
di Mario Cutuli

L’hanno chiamata “impressionistica”. Della “memoria”…
La poesia di Gian Domenico Mazzocato non parla. Evoca. Non insegna. Suggerisce. Non propone. Ricerca. Attinge da un mondo lontano. Arcano eppur reale. Remoto eppur vicino. Intimo. Profondo. Dove alloggiano nomi e volti che la polvere non ha mai coperto, che il tempo non ha mai cancellato. Che ha custodito. Geloso. Dove “umanità lacerata pesa sempre anche nel ricordo”. Dove “rotola da lontano questa sincroniadiacronia di diaspora nascosta e quotidiana”. Dove vivono passioni sopite. Dove “nel tiaso dei ricordi” pullulano frammenti di vita mai spenti. Attimi di storia che di colpo riaffiorano nitidi ma impalpabili “come isole di bruma emerse dal silenzio”. Incapaci però di decifrare se “navigare sia solo o anche andare lungo le vie del mare verso Ilio”. “Dalla selva delle esili memorie”, D. B. S. editore, dopo le fortunate “Il fuoco vecchio” e Straniarsi è qui”, conferma la nota costante di una poetica che rivive con pressoché totale disincanto, un mondo impenetrabile se non proprio ostile. Una quotidianità ove “vivere è mistero e l’andare un barcollare incerto”.
Perciò la fuga nella memoria o forse l’improvviso destarsi di essa “quando il pensiero allenta la guardia”.
Esile come “il solco del nostro transito”. Come la vita “febbre sotterranea e misteriosa” che la parola tenta di decifrare allacciando legami al di là del tempo e dello spazio. Ricomponendo fili spezzati. Ristabilendo armonie che la quotidianità ignora.
Magia della parola. Anche quando è capace di alludere soltanto. Anche quando anch’essa sperimenta la difficoltà di dipanare il groviglio di quella “ebbrezza senza confini e improvvisa”, di quel “male inguaribile e pieno” che si chiama vita. Di quello “oscillare periodico” nel quale si consumano, inesorabili, i nostri giorni in un continuo interrogarsi. In un inarrestabile cercare oltre l’apparente evidenza, oltre “la cecità di oggi”, per approdare nel “tempo senza tempo”, oltre la “Porta del regno” dove anche il mistero acquista un senso e l’angoscia si ricompone.
Versi davvero intensi quelli di Gian Domenico. Specchio dell’anima. Forti eppur sommessi. Solenni ed intimi allo stesso tempo. Testimoni di un sofferto procedere a ritroso dal presente per riappropriarsi di uno spazio che non è spazio. Quello della coscienza. Che come linguaggio conosce soltanto quello loquace del silenzio.
Una ricerca, quella di Mazzocato, che è la ricerca di tutti. Per comprendere. Per raccontare la vita.

VITA DEL POPOLO, TREVISO, 20 DICEMBRE 2008

 

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