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DALLA CINA CON MERAVIGLIA


IL DRAGO E LA FENICE

DA PECHINO A SHANGHAI

 

Xi’an, davanti ai padiglioni immensi che ospitano the pottery warriors, l’esercito di terracotta. Acquisto il catalogo (e le notevoli carte da gioco con immagini delle statue). È in italiano e reca un titolo suggestivo “Il risveglio”. Guardo il nome del traduttore. Diavolo, ma è la nostra guida, Yang Li Guo. Parla un italiano perfetto (“sono laureata in francese, dice, e mi aiuta tantissimo”), mi faccio autografare il libro. Mi chiede: “Tu di dove sei?” e io rispondo che sono di Treviso. “Allora mi saluti Adriano Madaro”. Accidenti, piccolo il mondo. Il professor Madaro, per chi non lo conosce, è sinologo illustre e curatore di fondamentali mostre sulla Cina nella trevisana Ca’ dei Carraresi.
A Xi’an, nel marzo del 1974, un gruppo di contadini stava scavando un pozzo nel tentativo di trovare rimedio ad una terribile siccità. Emerse una testa di terracotta che fu prontamente recata alle autorità locali. E così iniziò la grande avventura che ormai da decenni alimenta l’immaginario di tutto il mondo. Uno di quei contadini, Yang Zhifa, è ancora vivo e dicono che si aggiri da queste parti.
Non sa darsi pace che la sua campagna sia scomparsa per fare posto a questo enorme business culturale, con milioni di visitatori. Firma autografi. Mi piacerebbe incontrarlo ma è qualche giorno che non si fa vedere.
Insomma questo è il mausoleo di Qin Shi Huang, su cui fino al 1974 si favoleggiava come di una leggenda.
Qin Shi Huang (Handan, 260 a.C.-Shaqiu, 210 a.C., letteralmente primo imperatore della dinastia Qing) fu il primo ad assumere tale titolo, dopo aver riunificato nel 221 a.C. tutti i regni in cui era frammentata la nazione. Forse la stessa parola Cina è etimologicamente connessa al suo nome. Fu lui a iniziare la costruzione della Grande Muraglia.
L’imperatore era ossessionato dal mito dell’immortalità. Gli attribuiscono queste parole: “Io ho apportato l’ordine alla folla degli esseri e sottomesso alla prova gli atti e le realtà: ogni cosa ha il nome che le conviene. Io ho distrutto nell’impero i libri inutili. Io ho favorito le scienze occulte, affinché si cercasse per me, nel paese, la droga d’immortalità”.
Una voce che viene da un passato remoto e mette i brividi. Ma è grazie a quella voce che esiste questa meraviglia cosmica. Invece di portarsi nell’aldilà schiavi e concubine vivi (e dunque destinati ad essere immolati nella sua tomba) fece costruire un enorme apparato di persone in terracotta. Peraltro affiorano i dubbi che anche la sua morte fosse accompagnata da cruentissimi sacrifici umani. L’edizione inglese di National Geographic nell’ultimo numero (novembre 2016) dedica un articolo (che riproduco in foto) ai Secrets of the Terra-Cotta Warriors.

 

PECHINO

Nel 1971 Maria Antonietta Macciocchi ci suggeriva che la Cina era vicina. Di ritorno da un viaggio in quel paese scrisse un volume di quasi 600 pagine (Dalla Cina) in cui mitizzava il paradiso socialista. Un’illusione ottica, come poi ampiamente dimostrato. Era la Cina della rivoluzione culturale raccontata certamente con maggior disincanto e più corretta (forse anche più onesta) prospettiva storica da Goffredo Parise (Cara Cina, 1966). Dalle pagine del grande scrittore e giornalista vicentino emerge un popolo povero che sta cercando, attraverso l’applicazione del verbo di Marx e Mao, di togliersi di dosso le incrostazioni culturali che da millenni lo tenevano in catene. Tutto da cambiare. Cultura, scuola, università, spazio dopolavoristico, la quotidianità. E insomma il modo di pensare la vita.
In fondo un popolo che da sempre ha sacrificato la libertà individuale per il bene collettivo. E Mao Tse-tung (ma preferisco chiamarlo più correttamente Mao Zedong) aveva saputo offrire gli strumenti per incanalare questa vocazione. La lezione perentoria di Parise è che quando si accostano una civiltà e una cultura complesse e diverse come quella cinese bisogna farlo senza pregiudizi. Serve dirlo? Lezione validissima sempre.
In questi 15 giorni di Cina, Egle ed io abbiamo vissuto un’esperienza di conoscenza con grande umiltà. E anche con la gioia della scoperta continua.
Ci confrontiamo con un paese dalla ricchezza esplosa all’improvviso. Molti i nuovi ricchi, resta enorme la base poverissima. Per strade moltissime macchine di grossa cilindrata e nuove. L’utilitaria non esiste. Dal macchinone si passa immediatamente alla bicicletta e ai minifurgoni (tipo ape) stracarichi di tutto e in sfida perenne all’equilibrio. E dire che oltre il prezzo del veicolo i cinesi devono pagare salata la targa. Un quiz tv di successo mette in palio proprio targhe di automobili. Ma nelle metropolitane si dorme sui cartoni. Un sottoscala diventa un conteso dormitorio. Non ci sono elezioni, non ci si può collegare a google, non esiste facebook.
Basta un benessere che va diffondendosi (ma lascia sacche enormi) per compensare una mancanza di democrazia, almeno come la intendiamo in occidente?

Raggiungiamo Pechino via Dubai. Viaggio lungo. Per fortuna la business ti consente di scegliere un film dietro l’altro. Aeroporto immenso, quello della capitale cinese. Per raggiungere il baggage claim ci facciamo qualche minuto su un velocissimo metrò di superficie. All’uscita una folla immensa di addetti al ricevimento. Vedremo mai il nostro “gancio”? Con la coda dell’occhio colgo un cognome che sta correndo su un cartello recato da un affannato autista. Sì, il cognome di mia moglie. Comincia qui un equivoco che ci perseguiterà (comicamente) per tutto il viaggio, dalle reception agli aeroporti. Egle (con la finale “e”) è il maschio e io (che per l’anagrafe risulto Giovanni Battista, finale “a”) sono la femmina.
La strada per Pekino ci mostra subito il biglietto da visita. Un traffico caotico e ingolfato. Nonostante le larghe strade a quattro corsie, muoversi è un dramma, capita di impiegare mezzora per fare pochi metri. Questa è l’ora di punta, poi. Ci raggiunge per telefono la voce della nostra guida, Wang.
Ci tranquillizza in questo contesto assolutamente nuovo (e con grosse difficoltà linguistiche. In inglese il nostro autista sa dire appena sorry. La ripete ossessivamente e ho l’impressione che nemmeno ne sappia bene il significato).
Pechino (o meglio Běijīng, cioè capitale del nord, dopo Nanchino, Nánjīng, capitale del sud) vive sotto un cielo di piombo. Smog. La mascherina sul volto è abbigliamento abituale di molti. Il clima, si dice. Proprio oggi però il New York Times mette in prima pagina una drammatica immagine di operai e operaie cinesi (lo documento in foto) col volto coperto da grandi sciarpe-filtro. Il quotidiano li definisce ecological migrants.
Wang ci dà appuntamento per la sera, nella hall dell’albergo. Così si raduna il gruppo di italiani, giunti a Pechino con itinerari diversi. Sarà un gruppo bello, affiatato, da amicizia presto e subito. Molti i giovani, tre coppie sono in viaggio di nozze. Un piacere immenso stare con loro, scambiare battute ed esperienze. Dell’età mia e di Egle, ci sono due simpaticissimi insegnanti di Martina Franca. Colleghi e coetanei, che vuoi di più?
L’impatto con la cucina cinese è come lo avevo temuto. Il dazio da pagare. Non appetisco nulla e io, che mi adatto a tutto in ogni cosa, per il mangiare proprio non ce la faccio. Pilucco qualcosa ma il piatto resterà quasi sempre vuoto. Non sono solo, grazie a Dio. Antonio, un esplosivo e simpatico ragazzo di Avellino in viaggio di nozze con la sua bellissima Rachele, condivide con me la tragedia. Allora mi rimpinzo a colazione e sopravvivo fino a sera perché in albergo si mangia abbastanza all’occidentale. Perfino la pizza. E una tempura (che in realtà, lo so da me, è giapponese) leggera sullo stomaco come una piuma.
Lo dico subito. Qui ogni cosa che comperi la devi contrattare. Ti sparano dieci per avere cinque. E il maestro insuperabile del contratto è proprio Antonio. Ribatte fino all’ultimo yuan (che si pronuncia iuen, è la moneta internazionalmente nota come renminbi, cioè moneta del popolo). Ed è lui che ci insegna a decifrare i segnali che abbiamo agganciato il nostro venditore. Un artista, Antonio.
La prima sera mi rifugio in un bel piatto di pesce crudo. A letto presto ma non si dorme. L’effetto jet lag è devastante. Ore e ore per prendere sonno. E quando Morfeo arriva cominciano a farsi sentire gli sblink sul cellulare perché in Italia è pieno giorno.
Al mattino (18 ottobre 2016) cambiamo euro in yuan alla reception.
Ti devi abituare: i cinesi sono gentili, seguono la cosa che stanno facendo con te ma… insieme a venti altre. Alla fine ci troviamo il nostro malloppetto di moneta cinese in mano. L’impiegata ha annotato anche i numeri di serie. Ci spiega Wang che lo fanno per mettersi tranquilli da eventuali reclami. Girano banconote false a manetta.
L’acqua è un problema. Wang ammonisce: “Quella del rubinetto va bene per la doccia e per lavarsi i denti, non per bere”. Ci pensa l’autista della corriera. Tre bottigliette da mezzo litro per dieci yuan. Stessa tariffa in tutta la Cina. Quasi sempre naturale e mai gasata. La carbonated non esiste proprio. Per uno come me abituato a bere acqua ghiacciata e con le bollicine non è il massimo.
Visita a piazza Tienanmen, con i suoi 440mila metri quadrati (880 metri da nord a sud e 500 da est a ovest) la sesta piazza del mondo. Il nome significa pace celeste. Qui il primo ottobre 1949 Mao Zedong proclamò la nascita della Repubblica Popolare Cinese. E tutti hanno in mente il ragazzo a braccia spalancate che in questa piazza cercava di fermare i carri armati. Era il 1989 e, ovunque nel mondo comunista, fermentavano grandi cose. Di fatto il 9 novembre di quell’anno cessava di esistere il muro di Berlino.
Oggi piazza Tienanmen è un tripudio di fiori. È appena passato il primo ottobre, anniversario della fondazione della repubblica.
La piazza è luogo di commerci e di piccole contrattazioni. Abbondano i baracchini dei fotografi che per pochi yuan ti fotografano e ti danno la tua foto plastificata o addirittura incorniciata. Qualcuno ha appeso addosso tutto l’armamentario. Macchina fotografica e stampante. Mi dico che, in tempi di digitali e cellulari, di affari ne fanno ben pochi. Mi aiuta a capire Wang, la nostra guida. “Scherzi?, mi dice, qui vengono cinesi che non sanno nemmeno cosa sia un cellulare. Attratti dal mito dell’eroe fondatore, Mao Zedong, un idolo per tantissimi. E alla foto ci tengono”.
Wang è alto e allampanato, 45 anni e due mogli. Vaga rassomiglianza con Rowan Atkinson / Mr. Bean. Figlio di due insegnanti che, durante la rivoluzione culturale, furono “rieducati” in campagna. Molto simpatico, sorride in modo discreto.
Poi la Città Proibita, dominata, all’ingresso, dal grande ritratto di Mao. Fu il fortilizio delle dinastie Ming e Qing.
Fortilizio davvero. Sotto i nostri piedi, apprendiamo, ci sono 15 strati di pietre per paura di attacchi portati attraverso tunnel sotterranei. E di alberi, ottimi nascondigli per i sicari, se ne vedono pochissimi. Per la paura degli incendi erano perennemente pieni d’acqua degli enormi bacini di bronzo. Un tempo erano coperti d’oro ma durante la guerra dei boxer i soldati europei grattarono via con le baionette il metallo prezioso.
Il complesso per quasi mezzo millennio è stato abitazione degli imperatori cinesi e delle loro famiglie. I lavori di costruzione iniziarono nel 1406 e il 1420 e oggi il complesso è composto di 980 edifici divisi in 8.707 camere e copre 720mila metri quadrati.
Passiamo le porte dalle grandi borchie di ottone. Formano quadrati di nove per nove borchie. Nove è il numero fortunato (mentre il quattro è quello sfortunato, negli alberghi il quarto piano non esiste, si passa direttamente dal terzo al quinto) e tutti sfiorano queste semisfere luccicanti.
Alzo gli occhi. Mi colpiscono le sculture sugli acroteri. Draghi e draghetti in fila. Chiude sempre la carpa. Non casuale la dualità drago/carpa. La carpa è simbolo di coraggio e tenacia. Una leggenda racconta di una carpa che riuscì a risalire la cascata situata sulla Porta del Drago, lungo il Fiume Giallo, superando ostacoli e spiriti malvagi. Gli dèi, impressionati da tanto coraggio, la trasformarono in un grande drago.
Divenuta drago, la carpa acquisisce il dono dell’immortalità ed è simbolo di chi aspira a compiere grandi imprese e non teme di affrontare le avversità.
La folla è immensa. Si notano, nei costumi tradizionali, molti visitatori di minoranze etniche. Si vendono “solo” 80mila biglietti d’ingresso al giorno e bisogna prenotare per tempo. Non si finisce di annotare particolari. Le rappresentazioni del drago, simbolo di potenza e, in ultima analisi, del modo di guardare al mondo. Con meraviglia e senso del mistero: corna di cervo, occhi di gambero e via via come somma e sintesi del mondo animale.
E la fenice (fenghuang, in cinese). Ha becco di gallo, muso di rondine, fronte di gallina, collo di serpente, petto d’oca, dorso di tartaruga, gambe di cervo e coda di pavone. Simboleggia i sei corpi celesti, il cielo, il sole, la luna, il vento, la terra e i pianeti.
Davanti ad uno degli edifici principali fotografo una meridiana. Che non serviva a dare l’ora quanto a simboleggiare l’ineluttabilità e la necessità del potere imperiale. Come dire: l’imperatore, come il sole eterno, è frutto della volontà degli dei. Dall’altra parte della piazza, simmetricamente, c’è una nicchia con una bilancia. Altro simbolo: l’imperatore è garanzia di giustizia.
La Città Proibita non appare nello splendore fatto conoscere da Bernardo Bertolucci nel suo film premio Oscar, L’ultimo imperatore. Troppa folla. In compenso… un tizio prende a seguirmi guardandomi male. Mi pare. Invece mi sta facendo la caricatura, su un piattino e con l’ideogramma del mio nome. Pochi centesimi per un bellissimo souvenir.
Fuori, una corte dei miracoli. Bancarelle e venditori degli oggetti più disparati. Una bicicletta è un negozio. Una vecchia contadina sciorina una cassetta da cui fumano pannocchie cotte al vapore. La svuota in pochi minuti.
Appena all’esterno si fa notare (canta, ma forse è playback, ad un microfono amplificato) un mendicante orribilmente mutilato. Il fuoco (un incidente in fabbrica, ipotizza la guida) lo ha privato di un braccio e di metà del viso. Un’ustione terribile. Impressionante davvero come possa essere sopravvissuto. Qualche metro più in là un altro mendicante. Canta anche lui con la sua bocca deformata e ha la stessa identica mutilazione del primo. Allora guardo bene e vedo che sotto una specie di pelle in gomma che lo riveste perfettamente, si muove il braccio buono, quello che dovrebbe essere stato mangiato dal fuoco. Mah!
Nel pomeriggio visita al Palazzo d’Estate, in cinese Yiheyuan, Giardino dell’Armonia Educata. Ci sovrasta la Collina della Longevità e davanti a noi si estende il lago Kunming. Iniziò a costruirlo, nel 1750, l’imperatore Qianlong. Venne creato estendendo uno stagno preesistente per farlo assomigliare al famoso lago di Hangzhou.
Qui aveva la sua residenza estiva Cixi, l’Imperatrice Vedova che vi profuse un patrimonio enorme, stornandolo dal bilancio della flotta. Cixi (Pechino, 1835-Pechino, 1908) era concubina dell’imperatore Xianfeng. Fu madre dell’erede al trono Tongzhi e reggente dell’impero per quasi mezzo secolo, tra 1861 e 1908.
Un’antica massima cinese ricorda che l’imperatore è la nave e il popolo è l’acqua su cui quella nave tiene la sua rotta. Può essere che, qualche volta, il mare in tempesta rovesci la nave. E cioè che il popolo si ribelli. Cixi diede prova del suo carattere autoritario facendo costruire qui una enorme nave di pietra. Per dire che ci sono navi che nessuna tempesta può affondare.
Sul lago Kunming facciamo una breve crociera passando vicino al ponte che lo valica tutto.
Poi visita all’industria che alleva perle di acqua dolce.
È un po’ una maledizione di giri di questo tipo. Siccome tutto è statale i tour operator includono visite a luoghi, ovviamente statali, in cui o paghi per la prestazione o vieni sottoposto a pressioni (qualche volta discrete, qualche volta meno) per l’acquisto.
Luoghi statali ma gestiti privatisticamente. Egle si innamora di due orecchini di perle non coltivate. Appena il capetto del luogo se ne accorge non smette di tampinarla. Arriva a ridurre di due terzi il prezzo di partenza, esorbitante, e a metterci sopra un trattamento antirughe a base di pasta di perle.
Alla sera un piatto che ho apprezzato molto, in un locale tipico. Anatra laccata, cioè cucinata alla fiamma viva e poi spalmata a ripetizione di miele. Te la fanno a pezzi sotto gli occhi e la mangi con una piadina in cui infili anche fettine di porro e cetriolo. Proprio buona. Siamo in una saletta riservata, mentre nella sala grande un cabarettista (?) con una lunga tunica rossa intrattiene il pubblico suonando uno strumento simile alle nacchere. Non lo fuma nessuno. Le sue battute (ovviamente incomprensibili ai nostri orecchi) cadono nell’indifferenza generale.

“Solo se sale sulla Muraglia, un uomo è davvero tale”. Parole di Mao Zedong, che qui, vicino al passo Badaling, luogo del nostro appuntamento (19 ottobre) con la storica barriera, tutti ripetono e scrivono. Anche su un lungo muro. Mi faccio una foto vicino al grande ideogramma in bronzo di Mao.
Fin dal giorno prima Wang ci ripete che c’è un posto dove, prima di scalare la Muraglia, si può tranquillamente fare la pipì.
La pipì? Ma cosa ti interessa la mia pipì? Mistero presto svelato. Per accedere alla toilette si passa attraverso un vero e proprio supermercato del souvenir. Pieno di tentazioni. In realtà tutto il paesotto giustifica la sua esistenza come insieme di empori commerciali grandi e piccoli. Per mio figlio una felpa con la frase di Mao, per mia figlia un foulard multicolore, per me una cravatta. Bellissima ma, diciamo, impegnativa. Non so se la metterò mai. Con la cravatta, un mazzo di carte, tutto immagini del Grande Timoniere.
Siamo a 80 chilometri a nordovest di Pechino e questo è stato, nel 1957, il primo tratto di Muraglia ad essere aperto ai visitatori. Gli occidentali sono pur sempre una rarità e sono in molti a chiederci di fare una foto insieme.
È impressionante vedere la Muraglia seguire i crinali dei monti, vera e propria autostrada che si inerpica su pendii ripidissimi. Si sputa l’anima a piedi. Figurarsi spingendo carriaggi o rivestendo pesanti armature.
La Muraglia è un fiume dalle mille diramazioni. O un ragno con infinite zampe. La lunghezza tradizionalmente accertata di quasi 6500 chilometri, secondo recenti rilevamenti deve essere portata all’incredibile cifra di quasi 8500 chilometri.
Iniziò a costruirla nel 215 a.C. l’imperatore Qin Shi Huang. Abituato evidentemente a pensare in grande perché è lo stesso dell’esercito di terracotta di Xi’an.
Nel pomeriggio visita alla tomba dei Ming.
Le tombe della dinastia Ming (in cinese Míng cháo shísān líng, tredici tombe della dinastia Ming), formano uno straordinario complesso archeologico, 50 chilometri a nord di Pechino. Il sito fu scelto dal terzo imperatore della dinastia Ming, Yongle (1402-1424), il monarca che trasferì la capitale da Nanchino a Pechino. Nel 2008 qui si è disputata la prova di corsa del triathlon femminile ai giochi della XXIX Olimpiade. Si possono visitare la tomba Chang Ling (la maggiore), la tomba Ding Ling, situata nei sotterranei di un palazzo e la tomba Zhao Ling. Si passa da un cortile all’altro sui mirabili tappeti di pietra.
Vi sono certamente altre tombe ma, come ci dice la guida, si aspetta di avere la tecnologia adatta per non rovinare nulla. Ci fa l’esempio dei guerrieri di terracotta che in pochi minuti, dopo essere stati portati alla luce, perdono il loro colore originario.
La necropoli fu scelta in base ai princìpi della geomanzia Feng Shui secondo cui gli spiriti maligni provenienti dal nord dovevano essere deviati su uno specifico territorio a forma di arco, ai piedi delle montagne Jundu, a nord di Pechino. Luogo individuato qui, sul pendio meridionale del monte Taishou (un tempo chiamato Huangtu).
Resto ammaliato dalla vicina Via Sacra, lunga sette chilometri. Ne percorriamo un tratto. Sembra un lungo viale diritto, ma volgendosi indietro ci si accorge di aver compiuto una larga curva. Progettata apposta per imbrogliare gli spiriti maligni che, secondo tradizione, non sanno sterzare.
La Via Sacra ha, ai suoi lati, trentasei statue in marmo bianco di Pechino, risalenti alla metà del Quattrocento. Molti gli animali, in posizione eretta e in posizione di riposo. Tutti con valore di simbolo: leoni (dignità, potenza a guardie delle tombe imperiali), unicorni (contro gli spiriti maligni), cammelli ed elefanti (la vastità dell’impero), cavalli (utili al trasporto imperiale). Poi generali con la sciabola, mandarini e ministri. Alla fine il Qilin, una sorta di chimera. Appare ogni volta che viene al mondo un uomo destinato a far rifulgere la sua saggezza.
Uscendo, una rastrelliera gremita di bigliettini rossi. Si acquistano a una bancarella per pochi centesimi. L’equivalente (molto più poetico, mi pare, fatto oscillare in continuazione dalla brezza) dei lucchetti di ponte Milvio a Roma.
Alla sera Egle ed io passeggiamo per Pechino. Una città rutilante di colori e megaschermi. Ristorantini e grandi magazzini. Tutti marchi occidentali o, comunque, stranieri. Come dice la nostra guida: “Inutile venire a Pechino per pagare di più ciò che già avete a casa vostra a meno soldi”. Meglio ripiegare sui quartieri, come dire, monoprodotto. C’è una via, ad esempio, con tutti negozi, l’uno in fianco all’altro, di strumenti musicali.

Il giorno dopo (20 ottobre) prendiamo l’aereo per Xi’an. Alla fine i chilometri di trasferimento interni a questo subcontinente saranno circa 3500. Ma la mattinata è ancora per Pechino.
La Pechino vecchia, in ricsciò.
Che non è parola cinese. Ricsciò viene dall’inglese rickshaw, a sua volta legata al giapponese jinrikisha, cioè veicolo a trazione umana.
Attraverso i vicoli stretti con i tamburi di pietra sulle strette soglie di casa. Negli slarghi improvvisati supermarket, la strada a fungere da bancone. Il nostro conduttore si fa fotografare volentieri, poi pedala con forza incredibile, urla ai compagni di avventura. Ho la sensazione che faccia tutto parte di una (per carità genuina) messinscena e penso ai pochi yuan che attendono a fine giornata il nostro amico. Visitiamo qualche casa, possiamo entrare nei diversi ambienti. Molti i cortili interni, pieni di animali, soprattutto conigli e ogni specie di uccelli tenuti in gabbia.
La famiglia che ci ospita per un’oretta è convenzionata di certo con la nostra agenzia. In una stanza un ragazzo dipinge con un pennello piccolissimo delle bottigliette dall’interno. Bellissime e multicolori, molto delicate e poetiche, a fregi floreali.
Lì vicino facciamo acquisti attorno a due laghetti suggestivi. Entriamo in un negozio che vende tè di non so quante specie diverse. Ti aprono grandi barattoli, ti fanno odorare, poi tu scegli la confezione (bellissime scatoline in latta) e te la fai riempire. Lì vicino, il posto giusto per i regalini da portare a casa. Segnalibri, portachiavi, carte da gioco particolari, matite.
Il nostro conducente ci aspetta paziente sul lungolago. Altra folle (relativamente) corsa.
Guardo il ricsciò e vedo che non ha freni. Però poco sotto il manubrio corre una corda che viene azionata con un piede. Pigiandoci sopra si bloccano tutte le ruote in maniera magari non dolce ma nemmeno brusca.
Il pullman ci porta all’affascinante e dominante Tempio del Cielo. Siamo nella parte meridionale di Pechino, distretto di Xuanwu. Opera mirabile d’ingegneria costruttiva, tutto in legno e non un solo chiodo. Gli ampi spazi liberi sono percorsi da frotte di scolari vocianti. Basta un fischio del loro maestro per radunarli e metterli in ordine. Ridono, sono bellissimi, ogni scuola con il suo cappellino, quasi un’uniforme.
Tempio del Cielo,Tempio del Paradiso, Altare del Cielo: lo chiamano con questi nomi il complesso di edifici prodotti dalla cultura taoista la cui costruzione iniziò nel 1420. Visitiamo la Sala della Preghiera per i Buoni Raccolti. Immagine della Cina e del fluire del tempo. Le quattro colonne centrali simboleggiano le stagioni e le 12 colonne periferiche i mesi dell’anno. Il trionfo della forma rotonda che si staglia contro il cielo al centro di una scalinata a sua volta circolare. Qui l’imperatore pregava per il buon raccolto estivo. A differenza degli edifici imperiali che utilizzano per lo più tegole di maiolica gialla, simbolo del potere imperiale, negli edifici del Tempio del Cielo è il blu che predomina sui tetti.
Il colore del cielo, appunto. Dove abitano gli dei che l’imperatore prega perché concedano ricche messi.
Il tempo di entrare in una casa del tè. Ci viene insegnato come lo si prepara, come si sceglie un tipo piuttosto che un altro in relazione alla giornata e anche alle malattie del nostro corpo, come lo si suddivide in due ciotoline (la prima per goderne la flagranza, la seconda per bere). Sorbire il tè non sarà più la stessa cosa d’ora in poi, anche nella cucina di casa mia.
Sono molto organizzati. Sparano prezzi altissimi, poi propongono per molto meno una confezione con quattro tipi diversi. Ci mettono sopra una tazza che cambia disegno versandovi dentro acqua bollente. Che altro potrebbe essere il disegno emergente se non la Grande Muraglia?
Come resistere? Comperiamo. Anche se il pacchetto viene completato da una incredibile (e orridamente kitsch) statuetta di bambino che fa la pipì (e dai) versandovi sopra l’acqua bollente che avanza dalla preparazione del tè.
Il sorriso delle ragazze che offrono la lezione sul tè, comunque, giustifica tutto.

 

XI’AN

Poi l’aereo (spartano, inutile dire che non alzo nemmeno la stagnola del pasto fornito in volo) per Xi’an. Negli aeroporti i controlli sono estremamente minuziosi. Da altre parti neanche per i voli internazionali.
Condivido, è per la nostra sicurezza. Tuttavia, entrare in crisi, come succede a me, per un temibilissimo flacone di amuchina forse è un po’ troppo. Devo aprirlo e farlo annusare alla giovanissima poliziotta che mi esamina. Ci guardiamo e ci mettiamo a ridere. Meno male. Conosciamo la nostra guida, la bravissima Yang Li Guo che, durante il trasferimento dall’aeroporto, ci informa che per gli standard cinesi Xi’an è una città media, soltanto dieci milioni di abitanti. Questo è un territorio votato alla produzione di grano e alle industrie di pasta. Assaggiata e, devo dire, di ottima qualità.
Xi’an è una delle quattro grandi capitali antiche della Cina. Capitale di ben 13 dinastie tra cui la Zhou, la Qing, la Han e la Tang. Soprattutto è il capolinea orientale della Via della Seta. Dalla parte opposta del mondo il capolinea è rappresentato dalle città di Treviso e Venezia.
Siamo al centro di una grande pianura alluvionale formata da ben otto fiumi, tutti affluenti e subaffluenti del fiume Giallo. Fiumi peraltro inquinatissimi.
La giornata (21 ottobre) dedicata all’Esercito di Terracotta è indimenticabile. La meta delle mete, la storia che emerge dalla notte del tempo e ci avvolge. Una fascinazione assoluta, da sola vale il viaggio.
Si dice che artisti greci abbiano partecipato all’ideazione e alla realizzazione delle statue. L’ipotesi serve a spiegare l’improvvisa apparizione, in Cina, di statue ad altezza naturale di cui non si conoscono precedenti. L’Esercito di Terracotta è dislocato in otto fosse scavate a due chilometri a ovest del sepolcro imperiale di Qin Shi Huang. La più importante è la prima, quella che contiene il grosso dell’armata. 6mila guerrieri e due incredibili carri da guerra, in bronzo dorato, laccato e dipinto.
L’immagine è quella di un lento e inarrestabile affiorare. Forse il sottosuolo contiene ancora molti tesori e l’esercito di archeologi ha anni e anni di lavoro davanti.
Il sito è circondato dal solito mare di bancarelle. Poi Casa della Giada.
Qui vanno per le spicce, qualche minuto di informazione e poi cercano di venderti qualsiasi cosa. Ci sono in verità oggetti bellissimi, statue preziose, frutto di un lavoro lunghissimo e paziente. Nulla che si possa portare a casa, comunque. Gli addetti ti stanno addosso, anche se in modo discreto. Un po’ troppo, a dire il vero. A me le imboscate non piacciono mai.
Poi la Pagoda dell’Oca Selvatica, tra la Torre della Campana e la Torre del Tamburo, uno dei simboli della città e dell’intera Cina.
Tradizione narra che il Buddha, mentre volava nel cielo in forma di oca, cadesse ai piedi di un monaco. Non cibo ma fonte d’insegnamento.
La pagoda, ora in restauro, fu eretta nel 652 d.C. dall’imperatore Tang Gao Zong per ospitare 1300 sutra, cioè i libri sacri che il monaco Xuan Zang aveva portato dal suo viaggio in India.
Il pomeriggio lo possiamo nel fantasmagorico centro della città.
Percorriamo la via che corre tra la Porta della Campana e la Porta del Tamburo. Immersione totale. Qui tutti vivono in strada. Negozi e bottegucce che offrono spuntini (e cene) di ogni tipo. Squartano montoni lì, appesi agli alberi della via e li riducono a pezzetti da infilare sugli spiedini e cucinare al momento sulla brace. Le pasticcerie esibiscono due ragazzotti che con poderose mazze di legno spianano il caramello e, uno dietro l’altro, quattro o cinque banconi offrono peperoncino in mille modi diversi. Una mola lo frantuma in continuazione.
Da un’altra parte si tostano le noci in una miscela di sabbia e sale. Su una rastrelliera fanno bella mostra granchi e polipi appena fritti, appesi così, a portata di mano. Sembrano ragni sul muro. La folla è pigiata pigiata ma, strombazzando in continuazione, si fanno largo in continuazione gli scooter più ammaccati che abbia mai visto. Trasportano passeggeri e ogni cosa sfidando le leggi degli equilibri universali.
Ogni tanto qualche negozio più vasto, con tutti i generi alimentari ordinati su scaffali. Un bambino mi porge la mano e io faccio per stringergliela. Subito i genitori si affrettano a immortalare il momento con i cellulari. In una viuzza laterale comperiamo una valigia per metterci un po’ delle cose che abbiamo preso qua e là. Paghiamo col valore di una decina di euro, preghiamo che tenga almeno fino a casa. Reggerà.
A proposito del traffico. In Cina vige una sola regola sulla precedenza, anche ai semafori. Va di diritto a chi se la prende. Attraversare le strade per un pedone è molto, molto più rischioso che un’arrampicata sulle salite stroncagambe della Grande Muraglia. Insomma, l’anarchia assoluta. E non abbiamo visto che un solo, piccolo tamponamento in tanti giorni. Eppure in questo contesto, il nostro autista parcheggia due minuti il pullman in sosta vietata per aspettarci e becca una multa. Nei paraggi c’è l’albergo del presidente delle Filippine, in visita ufficiale al governo cinese. Beh, forse serve mostrare muscoli ed efficienza. Ovvio che facciamo una colletta per pagare la multa al povero autista.
Alla sera facciamo conoscenza con un’usanza molto praticata da queste parti. Le sale dei teatri diventano ristoranti. A noi capita di unire questo e quello. Nel senso che prima mangiamo (una serie interminabile di ravioli con ripieni diversi e cotti al vapore, io proprio non li appetisco) e poi godiamo un suggestivo spettacolo di musiche e danze risalenti alla dinastia Tang. Con strumenti d’epoca: il taishôgoto e il koto (sono arpe orizzontali), il kochyoho (un flauto) e varie percussioni. Spettacolo a sé lo fa un flauto verticale (chiedo lumi e mi dicono che è un “flauto di Pan”, ma non assomiglia alla siringa del fauno mitologico) che imita la voce degli uccelli.
Le danze riportano all’esplosione di colori della primavera e dell’estate come immagine del ritorno alla vita dopo la stagione morta.
La mattina successiva (22 ottobre) ci aggredisce la desolata bellezza delle mura dei Ming. Piove a dirotto e la lunga via sulle mura appare lucida con le sue pietre scure e popolata solo da qualche imperturbabile jogger in allenamento.
Sempre sotto la pioggia, all’interno del suk, visitiamo la Grande Moschea, proprio al centro della città. È uno dei luoghi di culto islamici più importanti della Cina. I lavori di costruzione cominciarono nel 742 d.C., durante l’impero di Xuanrong della dinastia Tang. Nei secoli vennero apportate modificazioni e aggiunte.
È una moschea senza minareto e, anzi, ha mutuato schemi e tipologie dell’architettura cinese. Siamo proprio nel cuore del suk, cioè il grande bazar dalle centinaia di negozi e negozietti. Purtroppo i vicoli sono ridotti dalla pioggia a ruscelli che ci infradiciano i piedi. Va bene anche così.

 

GUILIN

Nel pomeriggio aereo per Guilin, una delle città cinesi più pittoresche. Il nome significa foresta di cassia. Si dice che le montagne e i fiumi in Guilin siano i migliori sotto il cielo. Città piccola per lo standard cinese, neanche 700mila abitanti. Il nostro pilota deve essere fresco di scuola guida perché il carrello dell’aereo picchia di brutto sulla pista. Ci accoglie Elena (ci dà un nome occidentale) la nostra nuova guida. Simpatica e imperiosa. Non le si disobbedisce. Alle bancarelle davanti alle quali non si può comprare, non si compra e basta. Si tira dritto, dietro la bandierina ad asta telescopica. Parla benino, come il traduttore di google. Alcune sue frasi diventeranno un tormentone del viaggio. “Tanto stupendi lachetti”. Che sarebbero i laghetti. E ci accoglie anche il profumo asprigno degli alberi di osmanthus. Inconfondibile. Qui ne miscelano le foglie oblunghe col tè per dargli un gusto particolarissimo.
In albergo si mangia all’occidentale. Che Dio benedica i cuochi.
Passeggiata sul lago vicino con sullo sfondo due pagode illuminate. Parte del nostro gruppo si è staccata a Xi’an per raggiungere Shanghai, ma è ferma da ore in aeroporto. A Shanghai imperversa un terribile tifone. Speriamo in sorte migliore perché di lì a poco toccherà a noi.

Il 23 ottobre è il giorno della crociera sul fiume Lijang tra pianura e montagne. Un nastro sinuoso, come lo descrivono i depliant. Lungo 437 chilometri, nasce dai monti Mao’er e, a Wuzhou, sfocia nello Xi Jiang, che è a sua volta uno dei tre immissari del Fiume delle Perle. Qui si pratica la pesca con il cormorano. Se qualcuno vuole a sera ci sarà una esibizione di pescatori. A pagamento. Nessuno vuole.
Il nostro battello ci fa scendere per quasi un centinaio di chilometri fino alla cittadina di YangShuo.
Elena, la guida, scandisce il nome dei posti più suggestivi, dettati magari da una particolare conformazione dei monti o da qualche macchia sulle pareti a strapiombo. Ecco lo Zoccolo di Capra, ecco le Colline dei Nove Cavalli. Mi sforzo ma non vedo alcun cavallo sulla parete del monte sotto al quale passiamo. Ci vuole dolce fantasia. Fantasia cinese.
Il fiume è solcato da tempo immemorabile da zattere a fondo piatto. Solo che ora le canne di bambù sono state sostituite da più leggeri e meglio lavorabili tubi in pvc. Con l’aggiunta di un motore a bilanciere per ridurre al minimo l’impatto dell’elica sull’acqua. Di tutte le dimensioni. Per pescare e per portare passeggeri.
I battelli turistici hanno la cucina sul retro, a poppa. E che servano cibo fresco non vi è dubbio. Ogni tanto si accosta qualche imbarcazione e vende all’istante pesci e granchi appena catturati. Si contratta, si esibisce la merce, si paga. Pochi minuti.
La città in cui sbarchiamo è YangShuo, nota per essere una delle capitali del tarocco. Tarocco ormai è una parola internazionale, come pizza e maccheroni. Elena ci spiega come avviene la cosa. Da qui partono in continuazione degli emissari dotati di macchine fotografiche che si recano soprattutto ad Hong Kong per registrare le immagini dei vestiti di moda o per acquisire orologi o altri oggetti. Naturalmente c’è una gerarchia interna al tarocco. Perché ci sono i taroccatori onesti che fanno le cose per bene e quelli che tirano via.
In una delle stradine laterali vedo molti gruppi di cinesi intenti a uno dei passatempi nazionali, il gioco delle carte. Praticano un gioco che si fa in tre, ma al tavolo (o sul muretto o per terra, con o senza un tappetino, insomma va bene tutto) siedono in quattro. Il quarto fa da arbitro per le controversie e tiene il punteggio. Giocano con movimenti a scatti, a volte qualche mugugno. Non sorridono mai. Chi perde paga la cena agli altri. Dunque si gioca per sopravvivere. Usano carte strette e lunghe, senza figure e contrassegnate solo da ideogrammi. Al primo rivenditore me ne procuro un mazzo. Mai visto niente di simile.
Passiamo la serata nel mercatino aperto fino a mezzanotte, dietro al nostro albergo. Qui ci sono anche molti artisti bravi a incidere pietra o a dipingere sassi. Con loro non si contratta. L’arte non è mercato.

 

SHANGHAI

Il giorno dopo (24 ottobre) prendiamo l’aereo per Shanghai, la nostra ultima tappa. Il trasferimento interno più lungo. Ci aspetta la nostra guida, Maurizio. Anche per lui un nome occidentale, quello cinese assomiglia troppo a una nota marca di telefoni. Maurizio parla a raffica, usa i verbi all’infinito, ma è efficace quanto basta.
Shanghai è il futuro? Beh, di sicuro questa è una megalopoli di 25 milioni di abitanti che non ha grandi problemi di congestione e traffico. Il contrario di Pechino, insomma. La qualità della vita (ma il metrò è pieno di clochard) pare discreta. Ma…
Maurizio ci indica grandi cartelli dagli ideogrammi rossi sulle facciate delle vecchie case. Stanno a significare che quella casa è venduta. Dovessimo tornare qui tra sei mesi non la vedremmo più e dovremmo alzare gli occhi davanti ad un grattacielo in avanzata costruzione. Convincere i proprietari delle vecchie case è facilissimo. Saranno loro regalati tre ampi appartamenti nel grattacielo che sta per nascere più parecchie migliaia di yuan, attorno ai centomila. Di che vivere di rendita per generazioni. Rifiutare è indecente. Però in questo modo Shanghai sta cancellando tutta la propria storia, pezzetto dopo pezzetto. Va bene?
L’autostrada dall’aeroporto è tranquilla, trafficata ma scorrevole. Shanghai ha risolto molti problemi di traffico precludendo l’autostrada superiore (dunque un’autostrada a due piani) alle macchine con targa di altre città nelle ore di punta. Sotto corrono le macchine con targhe aliene. Ci sono poliziotti che fermano gli intrusi.
La città con i suoi mille grattacieli è già davanti a noi. Incrociamo la monorotaia del treno magnetico che può raggiungere i 600 chilometri orari. I 33 chilometri del percorso aeroporto-città vengono coperti in sette minuti alla velocità media di 250 chilometri all’ora. Una meraviglia che però comincia a essere marginale perché alla stazione d’arrivo poi servono altri mezzi per raggiungere punti vitali della città. E così il tempo guadagnato va perduto.
Il pomeriggio è di sole. Dapprima passeggiata in quella grande arteria che è la Nanchino Road. Ampia e con slarghi continui. Apoteosi del consumismo occidentale. E anche qui segni dei tempi. I bidoni della spazzatura sono il tamburo di un improvvisato percussionista ma anche la miniera in cui un vagabondo cerca qualcosa da riutilizzare. Ci facciamo fotografare davanti all’ideogramma della città.
Poi trascorriamo il resto del pomeriggio sull’ampia passeggiata del Bund, il viale lungo la riva sinistra del fiume Huangpu. Davanti abbiamo il quartiere degli affari di Pudong. La parola Bund deriva da una espressione anglo-indiana che significa rive della baia fangosa.
Si ergono alcuni degli edifici più alti del mondo. La Shanghai Tower (632 metri, il grattacielo più alto della Cina e il secondo al mondo), lo Shanghai World Financial Center (492 metri, secondo grattacielo più alto della Cina e sesto al mondo), la Jin Mao Tower (421 metri, terzo grattacielo della città). Lo Shanghai World Financial Center ha la forma di un apribottiglie. Più a sinistra l’avveniristica torre della televisione. Uno del nostro gruppo suggerisce che assomiglia al pinnacolo di un albero di Natale. Ha proprio ragione. Qui con lo spettacolo delle luci notturne, deve essere una meraviglia. Facciamo progetti per la serata.
Sul Bund si passeggia con piacere. Si fanno incontri. Egle si fa fotografare con un monaco tibetano.
Poi posa immancabile con l’enorme toro in bronzo, simbolo di forza e fecondità. Il Bund è fiancheggiato da numerosi edifici coloniali di stile tipicamente europeo. A cavallo tra 1800 e 1900 il Bund era il simbolo dell’occupazione straniera. Sarà uno dei maggiori centri finanziari in Asia fino alla rivoluzione del 1949. Spicca il Palazzo della Dogana (1927). L’orologio e la campana sono, in piccolo, copia del Big Ben.
In Cina si mangia presto, alle sei. Ci adeguiamo perché vogliamo raggiungere il centro. La stazione del metrò è appena fuori la porta del nostro albergo. È il mezzo migliore per spostarsi, agile, veloce, praticamente a costo zero. La biglietteria è automatizzata, basta toccare sui pannelli luminosi la stazione di partenza e quella di arrivo.
Nel metrò domina il volto di Dante Alighieri, naturalmente grazie all’ultimo film tratto dai libri di Dan Brown. Sbuchiamo proprio sotto la torre della televisione che fa spettacolo a sé con le sue fantasmagorie di colori in continuo cambiamento.
Decidiamo di salire sulla Jin Mao Tower, che non è la più alta, ma ha una caratteristica unica. È a forma di pozzo e, dall’ultimo piano, si può buttare l’occhio nella vertiginosa profondità. C’è uno shop con la possibilità di comperare cartoline e i famosi bigliettini rossi da appendere in ricordo. Io acquisto un mazzo di carte con le immagini dei grattacieli.
A tarda notte, in camera, mi accorgo che siamo senza acqua. Mi viene in mente di aver scorto a due passi un market aperto 24 ore. Mi butto una felpa sul pigiama e nella hall dell’albergo vedo qualcosa che forse non dovrei vedere. Da un ascensore secondario escono alcuni personaggi ben vestiti con codazzo di splendide donne. Giovanissime. Ridono, una precipita dai chilometrici tacchi a spillo, non si regge in piedi. Ma va tutto bene e io rientro in camera con le mie bottigliette di liquido vitale.

Il giorno dopo (25 ottobre) la Shanghai che sopravvive ai grattacieli. Nella città vecchia, un’isola assediata da un mare di costruzioni moderne, vi è il bazar con i suoi 350 negozi. E, proprio al centro di questo, il Giardino del Mandarino Yu. Un piccolo universo in cui convivono, in perfetto equilibrio, piante, animali e minerali. Ammiriamo la Squisita Roccia di Giada, quasi tre metri e mezzo per cinque tonnellate. Si dice che fosse destinata al palazzo imperiale di Pechino, ma la barca che la trasportava affondò. Fu recuperata e portata qui.
Il giardino venne creato nel 1599 da Pan Yunduan per allietare la vecchiaia del padre Pan En, un alto ufficiale. Tuttavia i costi della realizzazione finirono col rovinare la famiglia.
Più volte danneggiato e ristrutturato, oggi il Giardino del Mandarino Yu occupa una superficie di due ettari su cui trova posto una trentina di padiglioni con corridoi, scale, collinette, ponti e specchi d’acqua abitati da una miriade di enormi pesci rossi. Il pavimento presenta singolari mosaici su tessere che sporgono dal terreno: vi si passeggiava a piedi nudi per massaggiare le piante dei piedi. Davanti ai nostri occhi il Padiglione delle Tre Spighe di Grano, il Padiglione dei Diecimila Fiori, la Sala che annuncia la Primavera, lo Studio dei Nove Leoni, la Sala della Magnificenza di Giada, arredata con mobili in legno di palissandro dalla dinastia Ming.
La successiva visita al museo della seta ci riserva una non piacevole avventura. Detto che è la solita cosa per farti comperare qualcosa, che della lavorazione della seta si vede ben poco e che notiamo una brutta riproduzione in arazzo dell’ultima cena di Leonardo (!), all’uscita il nostro pullman evidenzia i segni di un piccolo incidente. Niente di grave, ma la portiera non si apre più e noi abbiamo tutto dentro. Inoltre dobbiamo raggiungere l’albergo per il pranzo. Qualche acrobazia per tirar fuori zainetti e borse e ristorante raggiunto in taxi. Uno dei taxi si perde, ma per fortuna io ho già raccolto i numeri di cellulare di tutti e in qualche modo ci ricompattiamo. Meno bene va al nostro autista che perde la giornata e deve pagare danno e taxi. Gli mettiamo in mano qualcosa, mortificati per lui.
Al pomeriggio passaggio in Piazza del Popolo, dove vediamo il museo che Egle ed io siamo intenzionati a visitare il giorno dopo. E poi il Tempio del Buddha di Giada.
Si tratta del più importante tempio buddhista di Shanghai, nel settore nord-ovest della città. Attinge sia alla dottrina della Terra Pura, sia a quella Chán, entrambe tradizionali dottrine del buddhismo Mahāyāna.
Si racconta che, durante l’impero di Guangxu (dinastia Qing, 1875-1908), Huigen, un monaco del Monte Putuo, una delle quattro montagne sacre del buddhismo cinese, si recò in Tibet. Poi entrò in Birmania dove un benefattore, Chen Jun-Pu, gli fece dono di cinque statue del Buddha in giada. Nel 1882 Huigen ne lasciò due a Shanghai, un Buddha tempestato di pietre preziose e un Buddha disteso al suo ingresso nel Nirvana. Il tempio contiene oggi anche una statua molto più grande del Buddha disteso, in marmo.
Nel 1966, durante la rivoluzione culturale, i monaci sopravvissero vendendo prodotti artigianali. Salvarono il loro tempio esponendo sulle porte fotografie del presidente Mao.
Resto molto colpito dalla visione orrorifica del divino. I Quattro Custodi hanno volti terribili.

La Cina è un grande paese, noi ne abbiamo assaggiato una piccolissima porzione.
La sera, in albergo, bisogna cominciare a fare le valige perché domani sera comincia il ritorno. Ci guardiamo negli occhi con malinconia. Sono stati giorni intensi e siamo stanchi. Ma vorremmo che questa avventura non finisse mai. I cinesi sono un grande popolo, lavoratore, disponibile, affabile. Ci mancherà questo clima.
Però il giorno dopo abbiamo ancora una cosa bellissima da fare. Una conclusione degna. Ne voglio parlare con molti dettagli perché è l’ultima Cina che possiamo fotografare e portarci nell’anima. Ed è una Cina grande, dalla storia splendida, dall’arte e dai gusti raffinati.

Il 26 ottobre spendiamo i pochi centesimi che consentono al metrò di portarci in Piazza del Popolo e al museo cittadino. In realtà un museo della civiltà cinese. Un cilindro di pietra bianca, della serie “sembra mille volte più grande dentro che fuori”. Ingresso gratuito, si paga solo l’audioguida in uno scorrevole italiano. Catalogo ricco e molto curato, in più lingue ma non in italiano. Manca purtroppo un indice analitico dei nomi.
Controlli minuziosi con metaldetector all’entrata. Temo che, come in aeroporto, ci facciano buttare le bottigliette d’acqua. Invece i poliziotti, quasi sempre giovanissimi, ci dicono “drink” e poi, comprendendo che siamo italiani, sorridono e dicono “bevi”. Sì, insomma, ci fanno bere un sorso d’acqua per accertarsi che nella bottiglia non vi siano liquidi utili a recare danni.
Le sezioni del museo sono dodici, quattro su ognuno dei tre piani. Gli antichi bronzi cinesi, la scultura (soprattutto steli e molte raffigurazioni del Buddha), le ceramiche, la pittura, la calligrafia, l’affascinante rassegna di sigilli (capisci perché su mille bancarelle insistano a incidere il sigillo con l’ideogramma del tuo nome su un blocchetto di pietra), le antiche giade, i mobili di epoca Ming e Qing, l’arte e i costumi delle minoranze etniche, la numismatica, l’oggettistica in lacca, le tappezzerie e i ricami. Una tredicesima sezione è dedicata alle sculture in vari materiali, dal legno al corno di rinoceronte.
La sezione dei bronzi presenta oggetti di raffinata bellezza. Una brocca per contenere vino, a forma di animale, risale alla dinastia Shang, 13 secoli prima di Cristo. I grandi bacili e incensieri e le serie di campane, con tanto di colonna sonora che te ne fa sentire il concerto. La perfetta intonazione veniva data dosando la fusione di aculei e spuntoni sulla superficie. Quasi 800 anni prima di Cristo.
Le ceramiche sono una gioia per gli occhi, autentici capolavori. Documentata in modo chiaro ed efficace la trasformazione della terracotta nella cosiddetta protoceramica e poi nella ceramica vera e propria. Pezzi di straordinario impatto.
Ma dove mi si svela un mondo nuovo sul quale dovrò acquistare libri e documentarmi è la sezione dedicata alla scrittura e alla pittura. La prima cosa che si apprende è che non vi è confine tra l’una e l’altra. Scrivere è dipingere e viceversa. Con stili che si differenziano nei tempi e ne rispecchiano il gusto e anche le necessità di comunicazione.
Di Mi Fu (1051-1107), calligrafo e pittore famoso, si diceva che scrivesse come le fate danzanti in maniche lunghe. Mi viene in mente lo spettacolo visto qualche sera prima e le lunghissime maniche di seta leggera delle ballerine. Zhao Gou (1107-1187) non passava giorno senza esercitarsi nella scrittura.
È con Zhao Mengfu (1254-1322) che la scrittura assurge a forma d’arte assoluta. Anche con effetti sorprendenti e surreali come la “scrittura folle” di Zhu Yunming (1460-1526). Confesso che la pittura cinese mi era sempre sembrata una pittura di maniera. Già con l’infarinatura che ricevo qui capisco meglio. Mi catturano i paesaggi lacustri di Wen Zhengming (1470-1559), i drammatici paesaggi montani di Wang Jian (1598-1677), le dilatate e poetiche visioni di una dinastia di pittori, i quattro Wang (Shimin, Hui, Yuanqi vissuti tra la fine del 1500 e gli inizi del 1700. Il capostipite è, appunto, Jian). Ecco le malinconiche vedute monocromatiche di Gong Xian (1618-1689). L’artista in cui calligrafia e pittura diventano un unicum inestricabile e di invasivo fascino è Zheng Xie (1693-1765). Orchidee e canne di bambù sono insieme pittura e ideogrammi. Singolare personaggio questo Zheng Xie, creatore di un nuovo stile di scrittura ispirato proprio alle forme delle orchidee. Nato in una famiglia poverissima, fu magistrato nella provincia di Shandong. Ma non gli andava di ingraziarsi le alte sfere e criticò aspramente il tenore di vita degli ufficiali dell’esercito, preferendo dedicarsi alla cura dei poveri e dei senzatetto. Dovette dimettersi e si ritirò a Yangzhou dove entrò a far parte di un gruppo di intellettuali noto come gli Otto Eccentrici, una sorta di Scapigliatura che si opponeva in blocco alle convenzioni estetiche del tempo.

Fuori del teatro la pioggia battente ci lascia un po’ di respiro. Di padiglione in padiglione il tempo è trascorso senza che ce ne accorgessimo. È già tardo pomeriggio. Egle ed io decidiamo che anche quegli ultimi minuti vanno spesi guardando. E ci facciamo un panino su una panchina che abbiamo asciugato in qualche modo. Poi albergo e aeroporto. Ci aspettano le nove ore di volo verso Dubai (quanto abbiamo ballato, da farci venire lo stomaco sotto la lingua) e le sei verso Venezia. Grazie Cina.

 

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