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Cesare Rigato

IL RUMORE DELL’UOMO

(di Cesare Rigato)

 

Raccontarsi in versi.
Dire la propria vita, proporre una esperienza esistenziale complessa, trasmettere i valori che l’hanno ispirata.
È la scelta bella (ma impegnativa) compiuta da Cesare Rigato che in questa silloge poetica fa confluire con intelligenza e sensibilità il senso del “suo” tempo e la fisicità dei “suoi” luoghi. Imprenditore che ha molto viaggiato, impegnato nel mondo dello sport, dell’associazionismo, del volontariato, l’autore ha un messaggio -importante anche se sommesso come è proprio del dire in versi- di bontà e speranza da proporre.
È la proposta di una avventura esistenziale a molti volti. Il lettore troverà liriche in italiano, nel dialetto della sua terra, in tedesco.
Come diceva un poeta latino, una persona ha tanti cuori quante sono le lingue che parla.
In queste pagine il “cuore” di Rigato palpita con forza. Vibra.
Trasmette emozioni.
La sua terra, i suoi “altrove”.
Vale la pena di seguirne il ritmo.
IL RUMORE DELL’UOMO è il primo volume di liriche di Cesare Rigato che ormai da una
ventina di anni va annotando pensieri e riflessioni conferendo loro il nitore del verso.
L’autore è nato a Spresiano -pochi chilometri da Treviso- dove ha vissuto a lungo e tuttora
risiede.
Dalla sua “piccola patria” Rigato si è allontanato spesso per lunghi viaggi e soggiorni
all’esterno, sospinto dalla sua attività imprenditoriale.
Ha arricchito così il suo bagaglio culturale e umano nei contatti con persone, mentalità, problematiche, civiltà diverse.

Io possiedo tre cuori
perchè parlo il latino, il greco, l’osco.
(Quinto Ennio)

Si respira, nella lirica di Cesare Rigato, un senso robusto -fisico e metafisico insieme- degli oggetti e del loro stare nel tempo e nel fluire degli umani eventi. Ciò che cade sotto i nostri sensi è sempre indizio di una presenza, ma anche allusione a un altrove, a un altro da sé.
Da leggere con attenzione questo Il rumore dell’uomo, da dosare e centellinare. Da tamisare (che bella questa parola in lingua veneta, quanto più suggestiva della sua traduzione, setacciare) verso dopo verso, sillaba dopo sillaba. Non perché ci sia sabbia e ci siano pagliuzze d’oro, ma perché le emozioni di questa poesia pulita, serena, spessa, riflessiva arrivano da molte parti e confluiscono in uno scorrere che è impetuoso senza mai travolgere.
È questa la cifra poetica di Rigato, poeta forte ma non invasivo. Discreto ma coinvolgente. Insomma il poeta bussa ed è molto difficile non aprirgli la porta.
Leggo una delle liriche più alte della silloge, Ceppo, e vi trovo vigore vicino ed echi lontani. La brace si anima / nel lento riscaldar della mente / che accumula pensieri / di queste stanche mani, dice il poeta. Da una parte ci riporta alla mente il ciocco pascoliano (là dove il poeta ricorda che il ciocco arse, e fu bevuto il vino / arzillo, tutto) dall’altra concentra e condensa attorno al ceppo stesso un universo di pensieri e pulsioni emotive: E fiamma e uomo / arrovellano, / specchiandosi l’un l’altro, ceppo e pensiero. Difficile trovare parole meglio scandite, più essenziali e scabre. Insomma più vere.
Parole che danno il senso autentico allo stare su questa terra, a piantare i nostri semi, a veder mettere rami e radici a quella pianta che siamo noi stessi. Foglie e corteccia, linfa e ricerca della luce.
Si trova tutto questo nella poesia di Rigato, legata a doppio filo a tali tematiche di fondo.
Quando evoca il mistero evocatore del fuoco in un microcosmo vicino popolato di folletti e fate, presenze aliene e tuttavia vicinissime, percepibili. Quasi prolungamento ed espansione dei nostri stessi pensieri: il legno scoppietta / a musicar le misteriose danze, / …/ A vegliar, l’esercito di stelle.
O quando, pur in sofferenza per il vento che soffia e incalza, la luce del cielo / mi apre la mente. Perché è vero che c’è dolore in questo trascorrere dei giorni, ma del vento bisogna saper cogliere anche il buono e il bello: sgombra il cielo, apre la porta alla luce.
Rigato enuncia, del resto, il suo credo di parole e versi già nella lirica proemiale in cui si rivolge alla sua Musa e le chiede aiuto per quello che, nella vita, vuole fare: la ricerca, tra tanti, di qualche giorno felice e del frutto donato.
Il frutto arrivato ad essere maturo. Serve pazienza, un po’ di filosofia e buon senso, come si suol dire.
Si può (si deve) crescere anche in giorni scanzonati, quando non ti rodono il tarlo del pensiero e la sensazione del tempo che passa. Quando non ti accorgi ancora (perché non hai esperienza sufficiente) che il Tutto in un poco è condensato. I sentieri della memoria che conducono al presente, a ciò che siamo come risultato di un percorso, di un itinerario che era inimmaginabile prima che lo iniziassimo Ma è decifrabile ora che ci giriamo indietro.
Anzi, decifrare è fondamentale. Dare un senso a quel bellissimo condensarsi del tutto in un poco. Come dire? Il mondo sul palmo della mano, ma non per caso. Perché abbiamo saputo sintetizzarlo noi con pazienza e magari sbagliando molto.
Il poeta prova a dire la sua, a cercare un senso. Rigato lo fa con intelligenza e sensibilità perché la sua vita lo ha portato su molti lidi e lo ha aiutato a costruire un messaggio di speranza, una apertura perenne sul futuro.
Senza dimenticare che la vita rimane un gran bel mistero e che il pozzo da cui beviamo per dissetarci, da cui attingiamo ricordi, nel quale gettiamo sguardi sperando di cogliere un barbaglio di luce sulla superficie profonda dell’acqua, resta pur sempre immagine poderosa di un insondato io.
A leggere il quale Rigato usa i suoi tre cuori, per usare una bella espressione del poeta latino Quinto Ennio vissuto tra terzo e secondo secolo prima di Cristo. Cioè ci parla in tre idiomi diversi. La lingua della sua “piccola patria” veneta, cioè Spresiano. La lingua colta della scuola e dei libri, l’italiano. E infine la lingua del suo viaggiare, il tedesco. Mi spiace: non conosco la lingua di Goethe e Thomas Mann, ma sono sicuro che il risultato complessivo è quello di una superiore unità in cui i punti di osservazione si moltiplicano e resta tuttavia immutata la ricerca di un centro, di un punto di gravitazione cui fare riferimento.
Mi servirebbe molto spazio per dire le annotazioni che mi sono fatto leggendo Rigato.
Per esempio la sua capacità di fare silenzio attorno a sé (leggo in Ascolto: Come scrigno prezioso / racchiudi tempo e storia, / e unisci tutti gli erranti / alla ricerca dell’Essere) e mettersi in sintonia con le voci enigmatiche della natura, cogliendone anche i messaggi più impercettibili (leggo ancora in Vento: cambi strada e ti nascondi / ma hai spazzato le nuvole, ammucchiato sparse foglie).
Per esempio quanto sia acuta la sua sensibilità nell’avvertire (e riferire) la fragilità del tempo e il desiderio insito in ogni uomo di fermarlo (leggo in Utopia: Salgo il cielo senza fine / … / E sentire il picchettío del picchio, / … / contare il cadere dei rami / … / e su tutto fermare il tempo).
Per esempio come Rigato sappia bene raccontare in dialetto e sbozzare situazioni andando oltre il quadretto convenzionale (leggo Sùcaro caramèo in cui il dramma della guerra e la minaccia della morte si impastano con i sapori e gli odori della inconsapevolezza fanciulla).
Per esempio le suggestioni colte evocate. Una lirica come Grava rimanda direttamente a I fiumi di Giuseppe Ungaretti. E la capacità di farsi contemplatore assorto. Si legga, in modo esemplare, la nitida Magnolia stellata. E poi: il ruolo musicale che giocano rime, assonanze e consonanze in questa poesia.
E tuttavia preferisco fermarmi a sottolineare come Rigato dia il meglio di sé quando riscopre miti, figure, situazioni della cultura contadina.
No, contadina è riduttivo. Direi agreste, popolare, rurale. Ho letto con dolcezza infinita il suo San Martino, quando si immerge panicamente nel fluire della memoria intrisa di odori e sapori: Bruma che si adagia / su fredda, stanca erba prima, / e foglie qua e là migrate, / da rèfoli balzani d’aria fine.
Mi sembrano costruzione e immagini esemplari.

GIAN DOMENICO MAZZOCATO
(Treviso, luglio 2009)

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