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ARMENIA, NAGORNO KARABAKH, GEORGIA

ARMENIA, NAGORNO KARABAKH, GEORGIA

LA TERRA DELLE CROCI DI PIETRA

ALLE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO

La lingua del mio amore è un usignolo,
i suoi capelli sono giacinto.
Piange Sayat-Nova,
è forse un usignolo in esilio?
(Sayat-Nova, Canzoniere armeno)

 

1/PADRE MICHELE

Padre Michele, alto e solenne nel suo saio nero, ha occhi ridenti e neri come il carbone. Lampeggiano sotto il cappuccio e dietro la barba folta.
Vive a Tatev, nido d’aquila che guarda verso la Gola del Voratan. Roccia, un minuscolo villaggio, un complesso monastico che comprende la chiesa dei santi Pietro e Paolo. Accanto, nella chiesa a lui dedicata, dorme surp (san) Gregorio di Tatev (1346-1409), geniale artefice della cultura armena. Un tempo, si lavoravano le olive, come dimostrano i resti di un antichissimo frantoio.
Padre Michele forse nemmeno sa che per raggiungere il suo sperone di roccia si deve prendere una modernissima funivia.
Che parte da Halidzor ed è la più lunga del mondo con i suoi 5,7 chilometri. A bordo si godono paesaggi che sconvolgono e conquistano l’anima. Le mulattiere incidono le montagne, sembrano ferite che stanno rimarginando. Le vallate si diramano in ogni direzione. Si va veloci, quasi 40 all’ora. Scatto foto che a fatica catturano la bellezza solare del luogo.
Il monaco ha appena celebrato un battesimo.
Battesimo adulto. I convenuti, ad un tratto, girano le spalle all’altare e al celebrante. Guardano verso l’ingresso e con un gesto ampio delle mani e di tutto il corpo cacciano fuori e lontano il peccato.
È commozione grande. L’acqua lustrale fa del peccatore di ieri un uomo nuovo ed è segno fertile dell’accoglienza della comunità.
Tutti i gesti sono simbolo. Vengono liberate colombe bianche di pace.
“Ogni momento della mia vita è legato alla tua misericordia”. Così pregano.
La religiosità armena si lega a gesti semplici, efficaci. È pragmatica, se si può dire, intrisa di quotidianità. Fisica, prima che metafisica.
Padre Michele riconosce la nostra guida, Baykar, e alla fine si intrattiene con lui. Domando a Baykar se posso chiedere una preghiera per i miei figli.
Il monaco recita il Padre nostro in armeno e poi impone le mani su Egle e me, invocando l’aiuto di Dio. I nomi di Miriam e Guido risuonano potenti nella sua preghiera. Alla fine gli appoggio una mano sul cuore (non sapevo bene cosa stessi facendo) e lui la accoglie con affetto, la stringe tra le dita ossute.
Baykar traduce: “Signore, io sono solo un povero prete ma questi pellegrini, un padre e una madre, sono venuti da me, perché io raccolga le loro speranze. Ti prego ascoltali”.
La povera e quasi spenta fiammella che è la mia fede ha un brivido. Un contatto forte, una realtà “altra”, la comunicazione diretta con l’invisibile.
Ne sono rimasto scosso, non credevo possibile. Confesso che ho pianto.
Mai provato nulla di simile.
(Ho detto che la nostra guida si chiama Baykar. In realtà dovrei dire professor Baykar Sivazliyan. È turcologo e armenologo insigne, docente di letteratura e lingua armena alla Statale di Milano. Autore di studi e pubblicazioni, è stato chiamato a tradurre i discorsi di papa Francesco durante il suo recente viaggio in Armenia e ha commentato la visita del pontefice per la Tv Vaticana. Avere lui come amico e compagno di viaggio è stato un valore aggiunto, un’amplificazione assoluta di quanto il viaggio ha offerto. Persona alla mano, che si presta ad aiutare anche nelle minime cose. Quando gli ho detto che mi sarebbe piaciuto portare a casa una maglietta della nazionale armena di calcio per mio figlio, ha movimentato un paio di segretarie fino ad indicarmi nientemeno che la sede della federazione armena. E mi ha accompagnato a piedi dall’albergo fino allo shop della federazione. Per quello che sei, grazie, amico mio.)

 

 

2/ ARARAT
IL GENOCIDIO/ LA COLLINA DELLE RONDINI

Siamo in 23. Sbarchiamo (domenica 17 luglio 2016 alle cinque di mattino, sarebbero le tre ma qui si contano due ore in più) a Yerevan, aeroporto Zvartnots. Fa un caldo bestiale, vi ci immergiamo.
Le brume della mattina diradano e Baykar ci indica l’Ararat. Il cucuzzolo coperto di neve. Imponente con i suoi passa 5mila metri. Per gli Armeni è una sorta di punto cardinale.
Non si troverà mai una persona che non ti dirà d’acchito che l’Ararat (qui dà il nome a mille cose, compreso il favoloso cognac nazionale) è armeno ma si trova in territorio turco; che la nazione attuale è appena un decimo della nazione storica.
Che ogni armeno è sopravvissuto a diaspore e dispersioni, a massacri, occupazioni e catastrofici terremoti. Eventi piantati nel sangue, come chiodi inestirpabili.
Soprattutto il sangue armeno è sopravvissuto al genocidio dei primi anni del Novecento.
E sopravvissuto non è la parola adatta. Non si addice ad un popolo dalla così marcata identità culturale. E dunque dall’anima giovane. Proiettata avanti.
Che di fatto qui si identifica con la millenaria scelta cristiana. Gli Armeni infatti dichiararono il cristianesimo religione del popolo nell’anno 301. La tradizione vuole che la Chiesa sia stata fondata dagli apostoli Taddeo e Bartolomeo. All’inizio del IV secolo san Gregorio Illuminatore battezzò il re armeno Tiridate III.

 

 

3/ARMENIA,
TERRA DI PASSAGGIO E FORTE IDENTITÀ

Passaggio obbligato tra Occidente e Oriente, grande porta verso l’India e la Cina, corridoio aperto, anche se impervio e montagnoso, cuscinetto tra potenze politiche contrapposte, l’Armenia è anche oggi prigioniera e senza sbocchi sul mare tra Turchia, Georgia, Azerbaigian e Iran. Nella parte meridionale confina per larghi tratti con l’enigma Nagorno Karabakh. Quasi lo abbraccia.
Ci sono luoghi in cui lo sguardo può spaziare su tre territori nazionali diversi.
Divisa, spartita, riunificata e poi ancora lacerata per infinite volte. Occupata e costretta alla rivolta. Amministrazioni diverse, Nord e Sud, di qua e di là dell’Eufrate con frazionamenti mai stabili. Invasa da sempre. Prima gli Hittiti e i Persiani.
Dario di Persia, per sgretolarne fierezza e resistenza dure come le rocce delle montagne, attorno al 520 aC dovette ricorrere a un generale armeno rinnegato, Dadarshi.
Poi Alessandro, poi i Romani che avevano bisogno di una base sicura nella mai risolta contrapposizione con i Parti. Nel 66 re Tiridate si recò a Roma con uno stuolo di funzionari e servitori così ampio che fu motivo di meraviglia perfino nella città più lussuosa e corrotta del mondo. Rese omaggio e fece atto di sottomissione a Nerone che lo consacrò definitivamente re di Armenia. Arrivarono gli Arabi e i Mongoli. Durante il XVII secolo il paese fu conteso tra Turchi e Persiani.
I massacri di massa cominciarono nell’ultimo decennio dell’Ottocento.
Quasi centomila Armeni furono trucidati dopo l’attentato alla banca ottomana a Costantinopoli che aveva funzione di banca centrale. Nell’agosto del 1896 fu occupata da rivoluzionari armeni che volevano attirare l’attenzione internazionale sulle vessazioni cui la loro gente era sottoposta.
Il primo giorno (17 luglio) è dedicato proprio alla collina del genocidio. La collina di Dzidzernagapert , cioè “il forte delle rondini”. Qui piantano alberi i rappresentanti dei popoli di tutta la terra.
Ho visto quello piantato qualche giorno fa da papa Francesco e quello piantato dal presidente francese François Hollande.
Il monumento è un fiore di cemento, dai petali semichiusi. Ordina silenzio e preghiera. Al centro arde una fiamma, simbolo dell’olocausto.
Per parlare di genocidio, nell’accezione moderna, si pensa a uno sterminio organizzato e pianificato. Difficile pensare, nonostante i negazionismi, che non sia stato così.
L’adiacente museo documenta con una galleria fotografica (a tratti drammatica) la volontà di distruggere un popolo intero. Con l’avvento al potere del partito dei Giovani Turchi, prese corpo un grande progetto nazionalista: unire la Turchia con il mondo turcofono dell’Asia centrale (il Turkestan), creando uno stato immenso che andasse a confinare con lo Xinjiang cinese.

Gli Armeni, cristiani ed indoeuropei, erano un corpo estraneo e ostile. Dunque il primo ostacolo da eliminare.
La notte del 24 aprile 1915 iniziava l’orrendo e sistematico sterminio del popolo armeno nei territori dell’impero ottomano. Come bene racconta Antonia Arslan in La masseria delle allodole (2004, diventato film con i fratelli Taviani).
Un terzo degli Armeni di Turchia (600mila persone) è stato massacrato. Un altro terzo è andato in diaspora.
Lo strumento di morte prescelto furono le cosiddette marce della morte. A centinaia di migliaia morirono di fame, malattia, sfinimento.
Le marce furono organizzate con la supervisione di ufficiali dell’esercito tedesco: difficile pensare che non si sia trattato di una sorta di prova generale.
Non mancarono, ad opera della milizia curda e dall’esercito turco, massacri di massa.
In una sala del museo conosciamo il volto gentile e bellissimo di Aurora (Arshaluys) Mardiganian (1901-1994), sopravvissuta al genocidio, scrittrice e attrice. Dalla sua esperienza nacque un grande libro, Ravished Armenia (1918, diventato film l’anno dopo; il libro non mi risulta tradotto in italiano, ma su youtube è reperibile il film).

 

4/IL VERNISSAGE

Pomeriggio al mercatino che qui si chiama vernissage. In un vicino supermarket cambiamo qualche euro in dram. Mi fanno voglia le tante scacchiere di ogni foggia (ma troppo peso per le nostre valige).
Ripiego su alcuni macinini cilindrici in metallo per la mia raccolta. Lino compera un duduk a doppia ancia. In armeno si chiama anche tsiranapogh, cioè flauto-albicocca. È lo strumento nazionale armeno, sopravvissuto nei secoli. Mix di dolce e aspro insieme, si presta a sottolineare i ritmi e gli impasti della parlata armena. Alla sera mangiamo al Mer Ghyug dove si esibisce un complesso etnico che ha proprio nel duduk il suo protagonista. Ma ci colpiscono anche la matronale suonatrice di arpa e un musicante che padroneggia con perizia estrema uno strumento a corde che non deve essere esattamente facile da trattare. È il tar azero dalle 11 corde e dai 22 tasti. La cassa armonica è piccola ma molto panciuta, a forma di otto.
Gustiamo il brodino di Var che viene preparato in tavola sotto i nostri occhi. Lenticchie, yogurt, aglio, sale e tanto (troppo) pepe.

La serata si conclude in piazza della Repubblica dove, nell’immensa fontana, si moltiplicano i giochi d’acqua mentre gli altoparlanti diffondono musiche che hanno cittadinanza in tutto il mondo. Dall’Inno alla Gioia al Va pensiero verdiano. Una bella immagine da serbare nel cuore.
Ci sediamo in un vicino bar. E Nevio comincia a dire che vuole andare all’Ice, un locale in cui tutto è in ghiaccio.
Non ci andremo mai e mai sapremo se esiste davvero.
Sulla strada del ritorno in albergo incontriamo alcuni mendicanti. Escono dopo una certa ora perché i controlli vengono meno. Un ambulante vende rosari intagliati nel legno di melograno.
Il melograno appartiene profondamente alla simbologia armena, ci accompagnerà ovunque. Significa fertilità e buona fortuna. I semi sparsi durante un banchetto nuziale assicurano alla sposa certezza di figli. Nel 1968 Sergey Parajanov (1924- 1990) ha girato un grande film sulla vita del rapsodo Sayat-Nova e lo ha intitolato Il colore del melograno. Il rosso succo del frutto è la stessa cosa del sangue che sprizza dalla gola dei montoni sacrificati. Anima e respiro dell’Armenia.

 

 

5/GEGHARD/GARNI
ECHMIADZIN

Il secondo giorno (18 luglio) prendiamo il pulmino che ha il suo bel daffare sulle strade accidentate, con buche larghe e profondissime. Il caldo asfissia. Sulla strada per Geghard ci fermiamo per godere il paesaggio da una collina. Davanti a noi l’Ararat. Statua viva scolpita nel sole.
Mi vengono in mente le parole del grande poeta e cantastorie Sayat-Nova (pseudonimo di Harutyun Sayatyan, 1712-1795; A Tbilisi, sua città natale, ne vedremo il semplice monumento): “Il popolo armeno dalla roccia ha creato il pane”.
Tra le rovine di un antico palazzo un quartetto di voci splendide improvvisa un concerto. Sono i Lusaber che ci vendono i loro dischi.
Geghard significa “monastero della lancia” con riferimento all’arma che colpì il Cristo crocifisso. Tradizione vuole che sia stata portata da uno degli evangelizzatori di queste terre, l’apostolo Taddeo. Oggi si trova a Echmiadzin.

Fondato nel IV secolo da san Gregorio Illuminatore vicino ad una polla d’acqua, ospita la Katoghike, la chiesa principale del complesso, costruita nel 1215, dalle splendide sculture sul portale. Sopra di esso è scolpito un leone che attacca un bue, simbolo del potere. A ovest del tempio principale si trova una sagrestia costruita fra il 1215 e il 1225, unita alla chiesa principale. Conosciamo un ambiente tipico delle chiese armene, il gavit (corrispondente in qualche modo al nartece occidentale) che veniva usato per l’insegnamento, per le riunioni e per ricevere pellegrini e visitatori.
E conosciamo anche quell’espressione altissima dell’arte e della religiosità che sono i khatchkar, le croci di pietra il cui numero sul territorio nazionale, a quanto si dice, ammonta a mezzo milione. Ne parlerò più avanti.
La cappella di san Gregorio Illuminatore, un tempo cappella di Santa Maria, fu costruita nel 1177.
Giù della scalinata ci viene offerto il gatà, una focaccia imbottita di miele (una delle industrie nazionali, ci sono arnie ovunque): deliziosa. Mi dimentico i miei zuccheri fuori equilibrio e faccio il bis.
Qualche chilometro e troviamo Garni, col suo tempio simile al Partenone. Si affaccia sullo strapiombo della valle del fiume Azat. Nelle immediate vicinanze sono state riportate alla luce le antiche terme.

A mezzogiorno sosta al Mer Taghe, un ristorante siriano che serve pizze. Nulla a che fare con Napoli ma è deliziosa, a metà strada con la piadina, quella imbottita di finocchiella.
Visitiamo Echmiadzin, il Vaticano armeno in quanto sede del catholicos, il capo della Chiesa apostolica, nota anche col nome di Vagharshapat. La cattedrale è, nella leggenda, legata a una visione di san Gregorio Illuminatore: Cristo scende dal cielo e colpisce il suolo con un martello d’oro. Lì sarebbe sorta la cattedrale. Di qui il nome: Echmiadzin significa “il luogo dove discese l’Unico Figlio”.
Nella vicina chiesa di santa Hripsimè, Baykar ritrova un suo vecchio amico, padre Anania, che parla un perfetto italiano, studiato in Arezzo. Ci offre il vino locale e una fresca bibita a base di acqua e limone.
Hripsimè e Gayanè (trasparente derivazione dal latino Gaia) sono due sante molto venerate perché si collocano alle radici del cristianesimo armeno. Il martirologio armeno comprende solo una quarantina di santi (neanche da farci il calendario, come precisa la nostra guida che, tra l’altro, ha dato proprio il nome di Gayanè a sua figlia).
La tradizione narra di 35 nobildonne romane (per Hripsimè è stata proposta la derivazione da Crispina) fuggite in Oriente per conservare il loro voto monastico. Hripsimè fu oggetto delle attenzioni di Tiridate III († 330), rifiutò e fu martirizzata con le compagne. La Chiesa armena festeggia le martiri in due giorni successivi, il lunedì e il martedì dopo la festa della Trinità.
Alla sera, un ristorante georgiano ci fa conoscere i kinkali, grandi agnolotti che vengono serviti sia lessi che fritti. Contengono brodo e carne e si mangiano tenendoli sospesi con la forchetta davanti alla bocca, aprendo un piccolo foro sul fondo e succhiandone il contenuto.
Deliziosi per chi li apprezza. Non io.

 

6/KHOR VIRAP/ NORAVANK/MOMIK
LA STONEHENGE ARMENA
KHNDZORESK/ STEP’ANAKERT

Il terzo giorno (19 luglio) ci porta a Khor Virap (in armeno “prigione/pozzo profonda”, forse perché questo è il luogo in cui san Gregorio Illuminatore fu imprigionato per tredici anni), nei pressi del confine con la Turchia, lungo il fiume Araks. Vediamo le terre di nessuno sulle diverse tracciature dei confini. Vediamo lo splendore del monte Ararat. Dopo quella prigionia san Gregorio Illuminatore battezzò re Tiridate III spalancando all’Armenia le porte del cristianesimo. Il pozzo della prigionia dà i brividi, ci si può calare. Fuori del monastero sta venendo alla luce Artashat , capitale del regno d’Armenia per quattro secoli a cavallo dell’avvento dell’era volgare.
Poi Noravank, un monastero che risale al XIII secolo, vicino alla città di Yeghegnadzor, in una gola del fiume Amaghu, molto profonda e caratterizzata dalle pareti rosso mattone. Ospita un edificio sacro a due piani dedicato a santa Astvatsatsin, la Madre di Dio in armeno. Al secondo piano si accede grazie a una stretta scala di pietre sporgenti sulla facciata.

Qui ha lavorato Momik Vardpet (n. 1260? – m. 1333/1339), nato nel villaggio di Ulghiur, amanuense, miniaturista, scultore e architetto che operò al servizio della dinastia degli Orbelian. L’ultimo giorno visiteremo il Matenadaran, il museo dei manoscritti di Yerevan, che ospita un vangelo da lui illustrato nel 1302.
Un piccolo khatchkar dedicato alla memoria di Momik (sarebbe morto qui precipitando da un’impalcatura) dice: “Cristo ricordi e benedica l’anima di Momik”.

Ci arrampichiamo (il pulmino ansima) ai 2700 metri del Vayot Dzor Marz, un valico che è luogo di passaggio obbligato per chi va verso il Nagorno Karabakh ed è popolato da un mercatino di frutta, ortaggi e miele.
È alta montagna.
Ma tra specchi d’acqua e colline, il paesaggio è dolce anche se selvaggio. Quasi scozzese, mi viene da pensare.

Raggiungiamo il sito di Zorats Karer (conosciuto anche come Karahundj o Carahunge, definito con qualche enfasi la Stonehenge armena): 220 blocchi di basalto (alcuni hanno un foro) alti fino a tre metri, disposti in cerchi o in file e risalenti alla media età del bronzo. Le ipotesi vanno dalla necropoli all’osservatorio astronomico.
Non che io ne capisca molto, ma, a lume di naso e avendo seguito molte lezioni del più grande archeoastronomo moderno, Giuliano Romano, a me sembra un calendario: gli allineamenti tra punte dei megaliti, fori e corpi celesti dicevano la stagione dell’anno. O no?

Una puntata veloce alle grotte scavate nell’arenaria vulcanica di Khndzoresk, col suo ponte sospeso sulla vallata. Sul fondo della gola si vede la vecchia chiesa, immutata nel tempo. Si vorrebbe scendere ma non c’è il tempo.
In tarda serata approdiamo a Step’anakert, la capitale del Nagorno Karabakh. La strada è tortuosa, tutta curve.
L’autista fa lo slalom tra le buche. Per stomaci forti.
Dopo le pratiche di frontiera (non si è mai tranquilli quando ti ritirano il passaporto per ridartelo il giorno dopo) arriviamo nella piccola capitale Step’anakert. È già buio.
Ai margini del viale degli Azadamartik (lottatori per la libertà), tutto imbandierato, lo scopriremo al mattino successivo, sorge il simbolo di questo popolo in guerra.
Non un’immagine di forza o violenza, ma il volto di una nonna e di un nonno. Metafora della tradizione e dell’antica sapienzialità da trasmettere ai giovani. In pace, se possibile.
Qui ci faremo la foto di gruppo. Obbligatorio.
E ci rendiamo conto che essere qui è un privilegio, un’occasione unica. Non si vedono molti turisti in giro, anzi. Un motivo di più per dire grazie al nostro professor Baykar Sivazliyan.

 

7/NAGORNO KARABAKH, IL PAESE DEI SOLDATI BAMBINO
GANDZASAR/TIGRANAKERT
AMARAS
TNJRI E IL PLATANO PIÙ VECCHIO DEL MONDO

Il quarto giorno (20 luglio) incontriamo l’enigma Nagorno Karabakh, un non paese che pure esiste e possiede anima e identità.
Sulla strada per Gandzasar e Tigranakert veniamo fermati per qualche minuto. Si sta concludendo una esercitazione di guerra. Sui crinali delle colline intorno, si vedono sagome-bersaglio di carri armati. Si spara. Quando la strada si riapre al traffico, incrociamo i camion carichi di soldati.
Sorridono e salutano agitando le braccia. Sono ragazzini.
Forse sono figli delle pulizie etniche degli anni Ottanta e forse nemmeno ricordano il conflitto combattuto tra il gennaio 1992 e il maggio 1994 contro l’Azerbaigian. Qualcuno di loro era appena nato quando, il 6 gennaio 1992, venne ufficialmente proclamata la repubblica nel dissolvimento dell’URSS e sulla base del principio di autodeterminazione dei popoli.

Nemmeno 200mila persone in una regione aspra. L’Azerbaigian vuole questo territorio e tecnicamente vige ancora la condizione di guerra. Il “cessate il fuoco” è spesso violato da entrambe le parti.
Enigma, appunto. Tragico.
Che si riflette perfino nel nome. Che è russo (gorno, montuoso), turco (kara, nero) e parsi (bakh, nero). Ma la gente si sente armena e chiama il proprio paese Artsakh (termine antichissimo, forse addirittura urarteo).
Cultura armena in un territorio ambito dagli Azeri. Repubblica autoproclamatasi tale ma che, in un gioco di delicati equilibri, nessuno riconosce.
Forse perché va a tutti bene così. Ma che l’equilibrio sia precario è evidente. Basta una scintilla.
La prima meta è il monastero di Gandzasar (è parola armena che significa “montagna del tesoro”) vicino al villaggio di Vank, nella regione di Martakert. Qui ebbe sede il catholicosato di Aghvank della semiautonoma Chiesa armeno-albana dal XIV secolo fino al 1836 quando quest’ultima venne definitivamente unita alla Chiesa apostolica armena.

Ora è sede dell’arcivescovo armeno dell’Artsakh. Il complesso, difeso da mura, sorse nel 1216, sotto il patronato del principe armeno di Khachen, Hasan Jalal-Dawla. La cattedrale è dedicata a san Giovanni Battista. Il tamburo della cupola presenta bassorilievi che raffigurano la crocifissione, Adamo ed Eva. Nel novembre del 2015 qui è stata inaugurata una sezione Artsakh del Matenadaran, la raccolta di codici e manoscritti custoditi a Yerevan.
Sul piazzale antistante un saltimbanco sbarca il lunario eseguendo evoluzioni su un vecchio, pazientissimo ronzino.
Tigranakert è la Tigranocerta dei Romani. Qui nel 69 aC Lucio Licinio Lucullo sconfisse Tigrane, re di una Armenia che allora si estendeva fino al Mar Caspio a est, fino alla Cappadocia a ovest, fino alla Giudea a sud. È una delle quattro città fondate da Tigrane il Grande (140-55 aC) e l’unica venuta alla luce. Ne visitiamo la piccola porzione di tessuto urbano scavato e il museo archeologico percorso dalle rondini, perfettamente a loro agio tra i reperti antichissimi.
È poi la volta di Amaras, tra i più antichi siti cristiani. Lo storiografo armeno del V secolo Fausto di Bisanzio ci narra che san Gregorio Illuminatore fondò all’inizio del IV secolo una chiesa che sarebbe diventata il monastero di Amaras. L’avrebbe portata a compimento il vescovo Grigoris, suo nipote. E qui, attorno al 406, Mesrop Mashtots (361-440), l’inventore dell’alfabeto armeno, fondò la prima scuola che usò il nuovo tipo di scrittura.
Per secoli fu la sede del catholikosato di Aghvank. Ma soprattutto qui dorme san Gregorio Illuminatore, catholicos della chiesa d’Albània e martire. La sue spoglie mortali riposano sotto l’abside della chiesa del XIX secolo. Il complesso è protetto da mura alte fino a cinque metri con torrette ai quattro angoli.
C’è anche l’appuntamento naturalistico.

A Tnjri (nei pressi del villaggio Skhtorashen) entriamo dentro (proprio dentro, c’è posto per una trentina di persone) il platano (platanus orientalis) più vecchio del mondo. Ha messo radici e ha cominciato a crescere qualche anno prima della nascita di Gesù. Quel botanico valentissimo che è Dino sale in cattedra (si fa per dire: le sue parole hanno il taglio e la classe del grande divulgatore) e ci spiega che un albero vive nella sua parte esterna anche se la parte centrale si è dissolta. 44 i metri quadri della cavità e 1400 i metri quadri coperti dalle chiome dell’albero.

 

8/TATEV/LAFUNIVIA PIÙ LUNGA DEL MONDO
IL KHATCHKAR SISMOGRAFO
JERMUK

Se i mongoli invasori sono terremoto.
Il quinto giorno (21 luglio) siamo a Tatev, luogo di fede e civiltà.
Vi si giunge grazie alla Wings of Tatev (Ali di Tatev), coi suoi 5,7 chilometri, dal villaggio di Halidzor al monastero, la più lunga funivia del mondo, primato sancito il 23 ottobre 2010 con l’iscrizione al Guinness dei record. Il Sandia Peak Tramway di Albuquerque (New Mexico, USA) misura 4, 467 chilometri. Nel punto più alto la cabina viaggia a 320 metri dal suolo.
Nel XIV e XV secolo il monastero, rifiorito grazie agli Zakarian e agli Orbelian, è stato sede di un’università che ha fatto progredire scienze, religione e filosofia. E ha fornito un contributo fondamentale alla difesa del patrimonio culturale grazie alla riproduzione di libri e allo sviluppo dell’arte della miniatura.
Tatev visse il suo periodo più fecondo nel XIV secolo grazie a due eccezionali uomini di scienza: Hovhan Vorotnezi (1315-1388) e Grigor Tatevazi (di Tatev cioè, 1346-1409). Vorotnezi studiò nell’università di Gladzor che nel 1338 venne trasferita nel monastero di Hermon e poi nella provincia di Vorotan, vicino a Tatev. Nel 1384, su iniziativa degli Orbelian, l’università venne spostata nel monastero di Tatev. L’allievo più brillante di Vorotnezi fu Grigor Tatevazi che ne prese il posto alla morte. Gli fu dato il titolo di Yerametz, “tre volte grande”. Grigor è sepolto nella tomba monumentale adiacente alla chiesa dei santi Pietro e Paolo, di fronte all’entrata della chiesa di san Gregorio. Il matenadaran (biblioteca) e il manoscriptorium (il monastero ha posseduto un patrimonio di migliaia di manoscritti) si trovano di fronte al campanile (raro vederne in Armenia) sul lato opposto del cortile.
A colpire il visitatore è il khatchkar (qui, tra grandi e piccoli, si perde il conto) collocato su una colonna, accanto alla tomba di san Grigor. Era, si dice, una sorta di sismografo perché le sue vibrazioni annunciavano il terremoto.
Ma “sentiva” anche le onde e le scosse dei cavalli mongoli spinti alla conquista. Tamerlano fu da queste parti dopo il 1380. Il terreno tremava all’incedere inarrestabile della sua cavalleria.
Qui è avvenuto il nostro incontro con padre Michele. Ho voluto narrarlo all’inizio, per sottolineare che è stato il momento alto del viaggio.
Notte a Jermuk, stazione termale in auge al tempo dei soviet. L’albergo che ci ospita doveva essere il buen ritiro di molti gerarchi. È semplicemente sfarzoso e conserva i tratti dell’antico splendore. Prima dell’arrivo in albergo, il suggestivo salto d’acqua nel canyon formato dall’Arpa.

 

9/SELIM/IL CARAVANSERRAGLIO
NORATUS, MADRE DI TUTTI I KHATCHKAR
SEVANAVANK/HAGHARDZIN

Sesto giorno (22 luglio), il giorno del caravanserraglio, passo di Selim.
Mandrie al pascolo, tenute d’occhio da un pastore a cavallo. Ha il volto bruciato dal sole. Giovane, ma le rughe gli scavano la fronte. Regge in mano una lunga verga e non si nega al fotografo. Sorride, con una sigaretta all’angolo della bocca.
Attorno ad una sgangheratissima Lada (quante ne corrono da queste parti, bagagliaio aperto e pieno di mille cose diverse, bombole del gas bene in vista) due venditori hanno messo su un mercatino di souvenir… e di grappe. Contenute in taniche di plastica trasparente, incuranti del sole a picco. Qui si fa liquore con tutto (corniolo, albicocca, prugna, pesca e pera selvatica), ma la più gettonata è una grappa che si distilla dalle more del gelso bianco. Buona ma esiziale.
Il caravanserraglio del passo di Selim è il meglio conservato dell´Armenia, ristoro e ricovero sulla Via della Seta. La struttura di basalto è formata da un vestibolo e da un salone che ospitavano i membri della carovana e i loro animali.
Si vedono, scavati nella pietra, mangiatoie e abbeveratoi. Un’iscrizione sull´architrave ne data la costruzione al 1326-1327. Fu portata a termine qualche anno dopo dal principe Cesar Orbelian e dai suoi fratelli durante il regno del khan Abu Said Bahadar “dominatore del mondo”, ultimo khan colto dell´impero mongolo.
I due bassorilievi della facciata (animale alato e toro) sono gli stemmi degli Orbelian. Distrutto fra XV e XVI secolo, è stato restaurato negli anni Cinquanta del secolo scorso.
Poi ci dirigiamo a Noratus, nella regione di Gegharkunik, sponda destra del fiume Gavaraget.
La madre di tutti i khatchkar.
Più di ottocento, di ogni epoca, molti anche moderni.
Qui hanno lavorato e sviluppato la loro arte grandi maestri come Kiram, Melikset, Khachatur, Avanes, Akob, Nerses, Hovhannes. Vi è un altro luogo che ospita khatchkar, Jugha (più di 2700!). Ma è territorio azero e questo simbolo della cultura armena è sottoposto a sistematica distruzione.
La tradizione è precristiana e si ricollega alla consuetudine di scolpire steli con figure di drago (vishap). Fu poi coltivata e incentivata dalla cultura urartea.
L’arte del khatchkar è il contributo più originale del popolo armeno al patrimonio culturale mondiale. In principio si usava il legno, poi (tra V e VII secolo) si passò alla pietra. Venivano scolpite le cosiddette “croci alate”. Il loro sviluppo portò alla creazione di un nuovo tipo di stele monumentale che raggiunse il suo apice tra IX e X secolo.
Si possono percorrere diversi itinerari, ben guidati dalle esaurienti didascalie tradotte anche in italiano, grazie ad un intervento del consolato italiano.
Poi verso il lago Sevan, monastero di Sevanavank. È noto anche come Mariamashen, cioè “costruito da Mariam”, moglie del principe di Syunik Vassak Gabur e figlia di re Ashot I Bagratide. In realtà pare che sia stato Gregorio Illuminatore a stabilire qui, sulle rovine di un tempio pagano, un primo eremitaggio agli albori del cristianesimo armeno. Comprende due chiese: surp Arakelots (santi Apostoli, con dedica anche a surp Karapet, san Giovanni battista) e surp Astvatsatsin (santa Madre di Dio).
Il Savanavank fu un famoso centro di scrittura dedito alla copia e alla decorazione dei manoscritti.
Durante il regime sovietico il monastero venne chiuso e la chiesa di S. Astvazazin fu demolita (con il materiale fu costruita, si dice, una casa di riposo a Sevan). Disastroso anche il terremoto del 1936. Dagli anni Novanta il monastero ha ripreso a rifiorire come centro religioso e culturale e come seminario.
Visitiamo infine il complesso religioso di Haghardzin che ospita i sepolcri di alcuni Bagratididi e ha una storia recente bella e confortante.
Completamente in rovina, attirò qualche anno fa l’attenzione dello sceicco Bin Mohammed Al-Qasimi, sovrano di Sharjah, che mise a disposizione il denaro necessario al restauro. Così, nel 2011, sotto il catholicosato di Karekin II, come si apprende da una targa, il recupero poteva dirsi compiuto.
Il complesso ha avuto una lunga fase di formazione tra X e XIV secolo soprattutto per merito della dinastia dei Bagratidi. L’edificio più grande è la chiesa di san Astvatsatsin. Sulla facciata orientale un gruppo scultoreo mostra due monaci che presentano al sovrano il modellino della chiesa. Tra di loro una colomba, segno di pace e speranza, con le ali spiegate. Un bassorilievo ricorda poi il patronato dei fratelli Zakaryan.
Splendidamente recuperato il grande refettorio a volte, fino a pochi anni fa rovinato non solo dall’incuria degli uomini ma anche dall’umidità che ha richiesto uno speciale intervento su muri e pavimenti per aerare l’ambiente.
Più antica è la chiesa dedicata a san Gregorio Illuminatore. Visitabile anche la cappella dedicata a surp Stepanos che risale al 1244.

 

10/GOSHAVANK E IL PRETE ECOLOGISTA
TBILISI E MTSKETA
SANTA NINO E LA CROCE DEI CAPELLI
MONASTERO DI JVARI

Settimo giorno (23 luglio), strada per Tbilisi.
La prima tappa è al monastero di Goshavank.
Gosh è un villaggio minuscolo, appena mille abitanti. Qui operò Mkhitar Gosh, contribuendo alla ricostruzione, dopo il terremoto del 1188, del vecchio monastero di Nor Ghetik tra XII e XIII secolo. Impressionante il muro megalitico vicino alla chiesa. Ma ad accoglierci è la severa statua in metallo (piombo?) nero di Mkhitar che regge in mano la bilancia della giustizia. Mkhitar Gosh (1130-1213) è stato un insigne studioso, giurista, scrittore e filosofo. Baykar ci dice che nei suoi scritti si trova un modernissimo atteggiamento ecologista in quando questo ecclesiastico si preoccupava di salvaguardare specie in estinzione. Come giurista fu redattore di codici di diritto civile e canonico così autorevoli che furono adottati anche fuori dell’Armenia. Perfino Sigismondo il Vecchio lo adottò nel 1519 per la Polonia dove rimase in vigore fino al 1772. Raccoglitore di favole popolari, ha contribuito in modo originale e determinante alla salvaguardia della cultura armena, grazie anche al supporto dei principi Zackareh e Ivane Zakarian che ne avevano intuito il valore.
Accanto alla porta della chiesa un sublime khatchkar che sembra un tessuto lavorato a merletto.
La dogana con la Georgia è una sofferenza. Bisogna scendere, mettersi in fila ed esibire i passaporti ad uno ad uno, poi passare il confine con il proprio bagaglio in mano. Che ovviamente deve essere scaricato e subito dopo ricaricato sui pulmini. Sotto il sole implacabile. Operazione che richiede qualche tempo e tanta pazienza. E distrugge le valige, impilate e pressate che neanche un torchio. Proprio una rottura.
Però…
Strade migliori, niente buche. Viabilità decisamente diversa dall’Armenia e anche il tenore di vita appare nettamente più alto.
Tbilisi, città vecchia di Mtskheta, in riva al Kura (è l’antico nome turco, ma qui lo chiamano Mtkvari).
Gustiamo una deliziosa zuppa di fagioli rossi, piatto che purtroppo non ci sarà più imbandito.
Mtskheta è uno dei più antichi centri della Georgia, a lungo capitale del regno di Georgia (III secolo aC-V secolo dC). Visitiamo la cattedrale di Svetitskhoveli (XI secolo), dedicata ai Dodici Apostoli.
Qui sotto, vuole il mito, è sepolta la tunica di Cristo, acquistata da Elioz, un ricco rabbino che la portò a Mtskheta. Sua sorella Sidonia la indossò ma ne morì. Non fu possibile sfilarle la veste e così, tunica e donna, furono sepolti insieme. Il luogo preciso della sepoltura fu presto dimenticato. Lo ritrovarono gli operai che cercavano di infiggere nel terreno una colonna per il nuovo tempio. La colonna dunque poggerebbe dritta sulla veste che rivestì il Cristo. Attorno ad essa fiorirono miracoli. Svetitskhoveli significa proprio “colonna che genera la vita”.
Giorno di matrimoni. Vestito bianco all’occidentale per la sposa, ma costume tradizionale con tanto di daga nel fodero per gli uomini.
Mtskheta è tuttora la sede della Chiesa apostolica autocefala ortodossa georgiana.
La cattedrale è circondata da ampi spazi. Vicino a una parete laterale notiamo una croce dai bracci inclinati verso il basso.
È quella croce a farci conoscere la santa nazionale, santa Nino (296 ca-338 /340). Fu lei ad introdurre il cristianesimo in Georgia. Le notizie su di lei sono leggendarie.
Pare che, al suo arrivo a Mstkheta, abbia guarito Nana, la regina di Iveria convincendola a convertirsi. Suo marito Mirian III si fece battezzare in seguito ad un episodio di caccia. Sorpreso dalle tenebre, si trovò a vagare per la foresta, sperduto e senza idea di dove trovar rifugio. Pregò allora il dio di Nino e ritrovò la strada.
Nino guarda dalle icone che la raffigurando con sguardo dolce e consapevole. Ha lunghe trecce. Perché fu proprio usando i suoi capelli che legò due rami di vite per farne una croce. Sbilenca, unica.
Le vicende di quei due rami tenuti insieme da una treccia sono testimonianza chiara delle traversie subite da queste terre. La croce è stata spostata, nascosta, regalata, reclamata, contesa.
Ora si trova vicino, nella cattedrale Sioni di Tbilisi.
Ascensione al vicino monastero di Jvari (monastero della santa Croce). Fu qui che, all’inizio del IV secolo, santa Nino, innalzò una grande croce su quello che era stato un sito pagano.
Troviamo chiuso, ma si gode il grandioso panorama della vallata in cui è annidata Tbilisi. E, proprio alla base dello strapiombo, il Mtkvari riceve le acque dell’Aragvi. Le correnti, nel sole abbagliante del meriggio, hanno colori diversi. Il fiume lento (così suona l’etimo georgiano del nome) che riceve i suoi tributari e si avvia verso il mar Caspio. Quasi 1500 chilometri dalla valle del Kars Upland, nel Piccolo Caucaso in cui nasce, alla foce. Una visione, un tempo lungo. Quasi immobile.
Alla sera è nostra ospite, amica personale di Lino e una figlia in Italia, l’architetto Rusudan Lordkipanidze, prima ambasciatrice georgiana in Italia, rettore dell’università di Tbilisi, consigliera del ministro degli esteri georgiano. Un onore.

 

11/ BOBDE E SIGHNAGHI
RE VACHTANG, IL GIGANTE
TBILISI DI NOTTE

Ottavo giorno (24 luglio) al convento di Bodbe. Partenza per Sighnaghi, uno tra i più piccoli borghi della Georgia con appena 2000 abitanti, ma anche una delle capitali religiose perché vi sorge il monastero di Bodbe che ospita le spoglie mortali di santa Nino.
Questa è anche la città dell’amore, nota perché nella Casa Rosa ci si può sposare senza formalità a qualsiasi ora del giorno. Un po’ come la scozzese Gretna Green.
Davanti alla tomba della santa Nino c’è una fila ininterrotta di fedeli.
L’ambiente è angusto, si entra a uno o due per volta. Il tempo di una preghiera e di un bacio alla pietra che sigilla il sarcofago e via. Se provi a fotografare ti tirano per un braccio. Giusto. Meglio così.
All’esterno il convento di suore attivissime e fervorose nelle faccende quotidiane. Lo shop è gestito da una suora arcigna che non parla. Calcola in silenzio prezzi e cambi di valute facendo correre le dita su una tastiera. Vende i consueti oggettini e icone stampate di nessun valore per cui chiede una spropositata cifra in dollari. No, grazie.
All’esterno aiuole fioritissime e multicolori. Una gioia per gli occhi.
E festa per Enza e Dino che, ovunque vadano e ovunque si trovino, raccolgono semi per progettati trapianti nel giardino di casa. Dino, tra qualche ora, scoverà alcuni papaveri da oppio. Come faccia…
Al mercatino di Sighnaghi (solita paccottiglia per turisti) Egle trova uno scialle niente male. Affare fatto, si contratta un po’.
Dalla fortezza, nella parte alta della città, lo sguardo spazia sulla pianura caucasica fin quasi al mar Caspio.
Nel pomeriggio passeggiata per Tbilisi. A zonzo per Erekle II e la vecchia Leselidze street.
Ci sorveglia, severa ma protettiva, la statua equestre di Vakhtang Gorgasali (440- 502), il re-fondatore della capitale e della Chiesa georgiana. L’elmo è una testa di lupo come indica, in persiano, il soprannome. Vakhtang individuò il luogo (una fonte termale) della futura città inseguendo una preda durante la caccia.
Il re-gigante. Così alto che solo pochi cavalli lo potevano reggere. Nel senso che i suoi piedi toccavano terra.
Ecco il monumento a Sayat-Nova (miserello in verità, un liuto da trovatore intrecciato ad una pianta di melograno, però l’idea non è male), le vie strette della città vecchia con i locali popolati di appassionati del narghilè (se ne vedono di monumentali), i mercanti di tappeti (a poter portar peso in aereo ci sarebbe da far affari), il patriarcato con san Giorgio nello stemma. Chiesa ricca si direbbe.
Poi la torre dell’orologio, puntellata da un’imbarazzante e massiccia putrella di ferro. Lo scadere delle ore è segnato dall’uscita, nella parte alta, di una processione di pupazzi. Alla base sono murate piastrelle con i tipici colori e disegni dei tessuti caucasici.
E poi il grande ponte avveniristico sul Kura, solo pedonale. È il ponte della Pace, location-calamita per molte coppie di sposini.
Davanti brilla al sole una costruzione in metallo, una sorta di argenteo tubo contorto. Doveva essere una stazione dei treni, ha finito per diventare un auditorium. Chi la trova bellissima, chi fucilerebbe l’architetto. De gustibus.
Vorremmo salire alla fortezza in teleferica. Ma la coda è lunga, rimandiamo a dopo cena.
Durante la quale gustiamo uno dei piatti nazionali georgiani, il khachapuri, una deliziosa focaccia farcita di formaggio fuso.
Vale la pena di aspettare e salire col buio. Lo spettacolo della città dall’alto toglie il fiato. Mi è costato fatica superare il terrore di questo stare sospesi nel vuoto in una palla di plastica trasparente in balia del vento. Ma sono felice. Ho il cuore largo e innamorato.
Scendiamo a piedi. Ci fa da guida Hratchya, il responsabile dell’agenzia che ha curato la nostra logistica e i trasferimenti nei tre paesi che abbiamo visitato. Persona eccezionale e colta, generosa, disponibile, paziente. Non avesse voluto strafare in qualche occasione…
Hratchya ci fa scendere dalla parte del vertiginoso canyon scavato nei secoli dalle sorgenti di acqua solforosa che alimentano i bagni turchi. Un luogo inatteso, proprio nel cuore della città, e sorprendente. Siamo nel quartiere turco. Qui, alle terme di Abanotubani, venivano Alexandr Dumas e Pushkin.
A proposito. A me Abanotubani richiama qualcosa. Del resto il nostro Abano è connesso con una radice indoeuropea antichissima, ap, acqua. Dunque… Nessuno ha mai pensato a un gemellaggio?

 

12/HAGPAT
I FRATELLI MIKOYAN
SANAHIN

Nono giorno (25 luglio), monastero di Hagpat, vicino alla città di Alaverdi. Ad accogliere il visitatore due enormi fedi nuziali intrecciate. Qui sarebbe morto Sayat-Nova impegnato, monaco tra i monaci, nella difesa del monastero dai Persiani. Fondato dalla regina Khosrovanuysh, moglie del re Bagratide Ashot III, attorno al 976, si affaccia a mezza costa, sul fiume Debed. La più grande chiesa del complesso è la cattedrale di surp Nishan, probabilmente iniziata nel 976. Un affresco dell’abside raffigura Cristo Pantocratore. Una piccola chiesa è dedicata a san Gregorio. Risale al XIII secolo santa Astvatsatsin. Notevoli anche qui i khatchkar.
Ritorno alla storia contemporanea col museo dedicato ai fratelli Mikoyan, a Sanahin. Un monumento, un MiG da toccare con mano e la casa natale dei due.
Ci accoglie una signora simpatica ma imbufalita dal fatto che il suo museo sta per essere statalizzato. “Fotografate fin che volete, ringhia, tra poco non si potrà più”.
Il più vecchio dei Mikoyan, Anastas Ivanovič (1895-1978), è stato politico di primo piano, tra l’altro presidente del praesidium del soviet supremo dell’URSS. Prese parte ai negoziati che portarono al patto Molotov-Ribbentrop del 1939, frutto della volontà staliniana di cercare un accordo con Hitler. Suo fratello Artëm Ivanovič Mikojan (1905-1970), assieme a Mihail Iosifovič Gurevič, costruì una serie di caccia per l’aviazione sovietica. Tra di essi il micidiale MiG-31 che entrò in funzione nel 1982 (ma il primo volo avvenne il 16 settembre 1975 ) e tanto preoccupò gli Usa.
Il vicino monastero di Sanahin è un notevole complesso di edifici sacre e tombe. Il nome allude al fatto di essere “più vecchio” del vicino Haghpat. Le gallerie medievali erano utilizzate come aule scolastiche. Il centro è l’antica (risale al 928) chiesa di surp Astvatsatsin. L’adiacente gavit è del 1211. A Sanahin fu creata nel 1062 una grande biblioteca.
Tombe ovunque, a fare da pavimento. Si torna a essere terra, ad essere calpestati anche se in vita si è stati ricchi e potenti. Su alcune pietre tombali è inciso un grande omega che spesso assume tratti antropomorfi e allude alla fine ma anche all’infinito.
Notte a Vanadzor.

 

13/LE API E IL MIELE DELL’ALTIPIANO
I MOLOKAN
IL GIARDINO DELL’ALFABETO
AMBERD/SAGHMOSAVANK


Decimo giorno (26 luglio) di corsa. Altopiani caucasici di nuovo verso Yerevan. Distese verdi, dolcemente collinose. La strada non pesa. Torna l’immagine delle mille e mille arnie.
Chiedo uno stop per qualche fotografia. Conosciamo una anziana signora che vive in un carrozzone (sarebbe un po’ come una roulotte, vah) in cui cucina, mangia, dorme. Tiene anche qualche animale da cortile, una gabbia di conigli. Sbircio dentro e scorgo un incredibile letto di ottone dalle alte testiere. Che incongruenze.
Passiamo vicino ai villaggi di Lermontovo e Fioletovo, le ultime enclave russe in Armenia. Sono i Molokan (da una radice slava, la stessa che si trova in mleko, latte, l’inglese milk), gente di origine russa dall’antico e autonomo credo cristiano. Si sono stabiliti in Armenia due secoli fa. Dopo i tempi della repressione culturale e nonostante le difficoltà economiche, convivono ora in armonia con gli Armeni. Orgogliosi della loro lingua e delle tradizioni. Famosi per i loro estesi orti. Un tempo i villaggi erano 22 e la popolazione ammontava a parecchie migliaia. Ora restano solo 450 persone, soprattutto anziani. Qualcuno sussurra che vivano, come certe comunità americane, senza elettricità e in difficile comunicazione con l’esterno. Non è così. Il dramma è che si vanno estinguendo.
Maciniamo strada. Dintorni del villaggio Artashavan, ai piedi del Monte Aragats.
L’altissima croce di metallo fatta di tantissime croci più piccole. Poi il giardino con le lettere dell’alfabeto armeno, creato nel 2005 in occasione dei 1600 anni della sua invenzione ad opera del monaco, teologo e linguista Mesrop Mashtots.
Baykar ci fa da consulente e ognuno si fotografa accanto alla sua iniziale.
Si sale (che strade, quanto tortuose) ai 2300 metri del complesso fortificato di Amberd, versante meridionale del monte Aragats, vicino al villaggio Buyrakan. Domina le profonde valli scavate dai fiumi Amberd e Arkhashian, affluenti del Kasakh. Avamposto di difesa fin dall’età del bronzo.
Incrocio una vecchia Lada (colore indefinibile, forse ocra, forse giallo) che sbuffa sui tornanti ma non molla. In cima, vicino alla fortezza, scarica di tutto. Perfino rosse bombole di gas per alimentare altre vetture. Il bagagliaio è pieno di verdure, sul tetto si erge una fascina di legno. Che qui è combustibile prezioso. Non ci sono alberi e non è infrequente vedere cumuli di sterco di vacca messi a seccare al sole per poi essere bruciati.
Nel pomeriggio visita al monastero di Saghmosavank, tra i più affascinanti complessi monastici d’Armenia, cinque chilometri a nord di Hovhannavank, sulla riva destra del Kasakh. La chiesa principale del complesso è surp Sion, eretta nel 1215 dal principe Vace Vaciutyan.
Il complesso monastico comprende un gavit del 1250 e una piccola chiesa dedicata a surp Astvatsatsin (1235).
La sera siamo di nuovo a Yerevan, nel nostro hotel-base, il confortevole Ani Plaza (anche se bisticciamo di continuo con la tessera magnetica in ascensore. Quisquiglie).

 

14/I MANOSCRITTI DEL MATENADARAN
ZVARTNOTS

Undicesimo giorno (27 luglio). Il ritmo rallenta. Egle ed io vaghiamo per le vie di Yerevan. Ci fotografiamo vicino a mostri metallici ultratecnologici e a una fontana con i segni zodiacali.
Visita al Matenadaran, la collezione di manoscritti antichi in lingua armena e in altre lingue (censite 2mila lingue diverse). Conta più di 17mila manoscritti e circa 100mila documenti di archivio, medievali e moderni. In esposizione il meglio del meglio, abbiamo una giovane guida che parla un italiano perfetto. Luminose, divine miniature. Se si vuole fotografare bisogna pagare un paio di migliaia di dram, neanche cinque euro.
Io preferisco comperarmi (una quarantina di euro) il catalogo (in francese).
I documenti riguardano tutte le branche del sapere. Dalla geografia alla storia, dalla medicina (e anatomia umana e animale) alle scienze naturali. Fino alla teologia. Meravigliosi, l’eldorado del sapere. Il Matenadaran è la più imponente raccolta di materiale del mondo armeno. Seguito dalla collezione del monastero dell’Ordine Mechitarista di San Lazzaro degli Armeni a Venezia (4mila manoscritti).
Una vetrina esibisce il codice più grande e il più piccolo. Non so come. L’accostamento mi fa capire che il Matenadaran non è un museo. È la casa del popolo armeno.
Generazioni che hanno difeso la loro identità scrivendo, copiando, sviluppando, tramandando. E avvertendo il bisogno di illuminare la scrittura con miniature che respirano come affreschi. Il Matenadaran è il luogo del genio, della sapienzialità che si è stratificata nel tempo, della proposta viva che ancora oggi viene fatta al futuro. Il Matenadaran è carne, è anima.
Poi monastero di Zvartnots, in armeno “angeli del cielo”, vicino ad Echmiadzin. Fra il 643 e il 652 il catholikos Nerses III il Costruttore, fece costruire la maestosa cattedrale di San Gregorio nel luogo in cui sorgeva un tempio dedicato al culto solare e legato alla dominazione urartea. Nel 930 la chiesa venne distrutta da un terremoto. Gli scavi per riportarla alla luce iniziarono solo nei primi anni del Novecento: emersero le fondamenta della cattedrale, i resti del palazzo del katholikos e una cantina.
L’archeologo che iniziò gli scavi,Toros Toramanian, ipotizzò che l’edificio dovesse avere tre piani. Ipotesi oggi abbastanza accettata.
L’ultima cosa che facciamo è recarci nei locali della federazione di calcio armena per acquistare la maglietta. Ha sulle spalle il nome del più famoso giocatore armeno, il centrocampista Henrix Hamleti Mxit’aryan, di recente approdato al Manchester United di José Mourinho per più di trenta milioni di euro. Cifra che da queste parti ne fa una sorta di imperatore. Forse un alieno.
Nel vicino vernissage spendiamo le ultime dram. Un centrotavola coi caratteristici motivi e i rutilanti colori delle tovaglie e dei tappeti caucasici.
Ultima notte e poi Venezia, via Vienna.

 

CURIOSITÀ 1/MACCHINE E MEZZI DI TRASPORTO

Certo non sono la regola, ma i vecchi macinini girano ancora. La vecchia Lada diventa banco di mescita di tante grappe diverse.

 

CURIOSITÀ 2/IL POZZO DEL PANE

In Armenia non si fanno panini, ma involtini. Si usa infatti un pane che è una fine sfoglia. Si farcisce e si arrotola. In un locale ho potuto vedere come si fa. Ci sono dei pozzi in mattoni, fondi forse un metro e mezzo. Le pareti sono arroventate dal fuoco vivo e dalle braci del fondo. Si stende su un cuscino di tessuto la sfoglia, poi con rapido gesto la si “incolla” alle pareti del pozzo. Pochi secondi, una spruzzatina d’acqua e il pane in pagina si stacca. Pronto e flagrante.

 

CURIOSITÀ 3/MUSICA ETNICA

Per tutti i gusti. Moltissimi locali presentano gruppi che eseguono musica etnica. Qualcuno ibrida con sonorità e ritmi moderni. Ma nel complesso la musica è forte segno d’identità. I giovani la ballano e coinvolgono i meno giovani.

 

CURIOSITÀ 4/PIGIATURA ORIZZONTALE

A Mtskheta, in un locale dove pranziamo, trovo una cosa mai vista. Un tino per la pigiatura orizzontale. Praticamente un tronco scavato e leggermente inclinato per consentire il deflusso del mosto da uno scarico, chiuso da un grossolano zipolo. Si salta la tecnologia delle doghe e non si spande una goccia.

 

CURIOSITÀ 5/LE API DELL’ALTIPIANO

Gli altipiani caucasici sono abitati da un esercito di apicoltori. Uomini e donne. Ognuno vive isolato in un carretto coperto dentro e attorno al quale fa tutto. Circondato da arnie. Una industria vera e propria. Il miele è buonissimo e di sicuro non contiene fitofarmaci.

 

CURIOSITÀ 6/IL GECO DI STONEHENGE

Visti a Zorats Karer, tra i monoliti della cosiddetta Stonehenge armena. Dinosauri sopravvissuti, imperturbabili.

 

Hanno detto il vero i grandi maestri, saggi tra i saggi:
“Ho creato un giardino, la rosa l’hanno colta i malvagi”.
La fatica ho sofferto. Gli estranei hanno avuto la gioia,
dall’avversario ci giunsero questi inganni, ad uno ad uno.
(Sayat-Nova, Canzoniere armeno)

Armenia-0130

IL VIAGGIO È STATO ORGANIZZATO
DALLA FONDAZIONE FEDER PIAZZA DI TREVISO
(segreteria@fondazionefederpiazza.org)
NELLA PERSONA DEL PRESIDENTE GIANNI TOSELLO
(COADIUVATO DA GIORGIO FORLIN E NEVIO SARACCO).

LA GUIDA DEL GRUPPO È STATA AFFIDATA
AL PROFESSOR BAIKAR
SIVAZLIYAN

I 23 PARTECIPANTI:
LAURA E GIANNI, FIORELLA E GIANNI, MARIANTONIETTA E PIETRO,
ENZA E BERNARDINO (DINO), GIGLIOLA E STEFANO,
EGLE E GIAN DOMENICO,
MARIA PIA E LIVIO, ELEONORA E ANTONIO,
FRANCESCA E PAOLA,
GIORGIO, LINO, SOLIDEO (NEVIO), MONICA,
BAYKAR.

 

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