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SANGUE PERFETTO, CHE POI NON SI BEVE

(Purg. XXV, 37)

GIOVEDÌ 9 MAGGIO 2013
GIORNATA DELLA DANTE ALIGHIERI

di
GIAN DOMENICO MAZZOCATO

 ignavi


Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
(Inferno III, 67-69)

Questa conversazione vuole anche essere una proposta di metodo. Una lettura di Dante per temi, per linee verticali. Può essere una buona idea anche per le lecturae Dantis che si fanno a scuola. Oggi ho scelto il tema del sangue, rintracciando tutte le volte che Dante usa questo termine nella Divina Commedia. Possiamo cominciare da una curiosità. Il termine ricorre in tutta l’opera dantesca ma mai nella Vita Nuova. Con i significati stretti e larghi che conserva ancora oggi. La vita, la morte, la discendenza e l’ascendenza (cioè i figli e gli avi). Dunque la continuità e la persistenza di una famiglia. Nel territorio in cui se ne radica il ceppo o, in contrapposizione, lontano da esso. Per esilio o fuga. Il sangue, come vedremo, è segnale prima ancora che simbolo di un comportamento violento. Dunque immagine fisica della crudeltà, dell’odio, della vendetta. Poi, sangue versato nelle guerre e nelle lotte civili (quest’ultimo davvero sangue che urla vendetta al cospetto di Dio). Dunque il sangue si collega alle pene con cui sono puniti molti fra i violenti. E il sangue per eccellenza, quello versato dal Cristo, per fare della Chiesa la propria sposa. Un cenno particolare meritano le teorie scientifiche in auge ai tempi di Dante che legano al sangue il fenomeno della generazione e dunque della stessa continuità della specie umana e delle specie animali. San Tommaso parla nella Summa Theologica di un sangue più puro, per così dire più raffinato da una particolare elaborazione da parte degli organi corporali, che è destinato a confluire nel concepimento di una nuova vita: (sanguis) qui digestione quadam est praeparatus ad conceptum, quasi purior et perfectior alio sanguine (Summa Theologica III, 31, 5, ad 3). Dice anche: femina ad conceptionem prolis materiam ministrat ex qua naturaliter corpus prolis formatur (III, 32, 4, 3). Sono enunciati piuttosto generici e grossolani ma Dante aveva studiato le quattro digestiones che il sangue subisce nello stomaco, nel fegato, nel cuore e nelle singole membra nel Qānūn fī l-ṭibb del filosofo, matematico e fisico persiano Ibn Sinā, alias Abū ‘Alī al-Husayn ibn ‘Abd Allāh ibn Sīnā o Pur-Sina che l’Occidente conosce col nome di Avicenna e che visse tra il 980 e il 1037. Il libro (tradotto non sappiamo bene da chi, forse da Gerardo da Cremona, forse da Gerardo da Sabioneta) era noto a Dante col titolo di Liber canonis medicinae. Libro importante perché sarà il manuale medico più seguito fino al 1700. Per dire. Vi si esaminano le malattie contagiose e le malattie trasmesse tramite i rapporti sessuali, si parla di utilizzo dei test clinici, si affaccia l’ipotesi, evidentemente non sostenibile da adeguati strumenti scientifici, dell’esistenza di microrganismi. Stazio, nel XXV del Purgatorio, quando discute sull’origine dell’anima umana, parla di sangue perfetto (che abbiamo assunto come titolo di questa conversazione) e allude proprio a queste dottrine. Il sangue perfetto è quello che esce dal fegato depurato delle superfluità acquose per andarsi a raccogliere nel cuore. Qui, come leggo nell’enciclopedia dantesca della Treccani, subisce la terza digestio e di qui trasmette nelle membra la virtù informativa che presiede all’assimilazione. Nelle membra il sangue subisce la quarta e ultima digestio grazie alla quale le parti più sottili ed elette del sangue vanno a nutrire i membra radicalia cioè gli organi fondamentali. Da ciò che resta del sangue da questa quarta digestio si genera lo sperma. Il sangue giunge fino ai vasi seminali divenendo bianco da rosso che era e pronto alla generazione. Di qui stilla nella matrice della donna unendosi al sanguis menstruus e dando origine all’embrione. Dante traduce in versi così, affidandosi alle parole del poeta Stazio. Siamo nel canto VII del Purgatorio (seconda cornice, dove i lussuriosi camminano tra le fiamme, segno del peccato che li infiammò e bruciò in vita). 

Sangue perfetto, che poi non si beve
da l’assetate vene, e si rimane
quasi alimento che di mensa leve,
prende nel core a tutte membra umane
virtute informativa, come quello
ch’a farsi quelle per le vene vane.
Ancor digesto, scende ov’è più bello
tacer che dire; e quindi poscia geme
sovr’altrui sangue in natural vasello.
Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme,
l’un disposto a patire, e l’altro a fare
per lo perfetto loco onde si preme;
e, giunto lui, comincia ad operare
coagulando prima, e poi avviva
ciò che per sua matera fé constare.
                     (Purgatorio XXV, 37-51)

Il termine sangue ricorre complessivamente 47 volte nella Divina Commedia, 54 volte se si tiene conto delle parole derivate. 20 volte nell’Inferno cui bisogna aggiungere il sanguigno con cui Francesca racconta il suo dramma; il sanguinenti del canto dei suicidi con riferimento alle rotture del cespuglio; il sanguinoso mucchio con riferimento al massacro di Francesi compiuto dagli abitanti di Forlì; e infine la sanguinosa bava che riga assieme alle lacrime i tre mostruosi volti di Lucifero. Il termine occorre 17 volte nel Purgatorio. Inoltre abbiamo sanguinando, usato con grande forza in accezione transitiva, quando Bonconte di Montefeltro bagna col suo sangue il campo dopo la battaglia di Campaldino; il sanguinoso con riferimento al comportamento di Fulcieri da Calboli che fu podestà a Firenze nel 1303 e si fece strumento delle vendette dei Neri contro i Bianchi E 10 sono infine le occorrenze nel Paradiso cui aggiungiamo l’affettuoso sanguis meus con cui Cacciaguida saluta il suo discendente Dante nel XV canto. Potremmo osservare, anche se il dato è in sé poco significativo, che il termine dirada le sue occorrenze mano a mano che ci si allontana dalla terra e dal suo pesante fardello di peccato. Potremmo anche aggiungere che in Paradiso, pur essendoci, come detto, 10 occorrenze soltanto, troviamo anche un passaggio in cui il termine occorre ben tre volte in pochi versi con effetti di senso davvero notevoli. È rima difficile. Tanto è vero che troviamo il termine a fine verso in If VII, 80 dove rima con langue e angue; in Pd XVI, rima soltanto e ancora con langue. E ora andiamo ad esaminare qualcuno di questi luoghi.

Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
(Inferno III, 67-69)

La nostra parola fa il suo esordio nel canto III dell’Inferno, il canto che ha il suo incipit nelle parole dure che Dante vede scritte sulla porta dell’Inferno. Siamo tra gli ignavi e il poeta vuole sottolineare la brutalità del luogo e, in qualche modo, far capire quale lettura ci si appresta ad affrontare. Vedrà il lettore dolori immondi, pene incredibili, pene infinite, frantumazioni della immagine (positiva o negativa che sia) di cui i personaggi hanno goduto nella loro vita terrena. Ecco dunque le vespe e i mosconi che tormentano la turba in movimento dei dannati costretti ad inseguire l’insegna e la bandiera, come mai avevano voluto o potuto fare in vita.

E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.
                                  (Inferno VI, 64-66)

Qui il termine viene usato nel significato concretissimo di “scontro decisivo” e si trova al centro di una terzina che vuole raccontare il degrado e lo stravolgimento del mondo. Siamo nel VI canto, il cerchio dei golosi e il canto politico, come in ognuna delle tre cantiche. Chi parla è il misterioso Ciacco. Misterioso perché non sappiamo chi egli sia (è probabile che non sia il Ciacco dell’Anguillaia di cui ci parla Boccaccio in Decameron IX, 8) e nemmeno che origine abbia il suo nome (Ciacco è forse il corrispettivo del francese Jacques ma non lo possiamo affermare con certezza). Ebbene Ciacco profetizza lo scontro tra Bianchi e Neri. Tra Cerchi (chiamati “selvaggi” perché sono di origine rurale, contadini inurbati, una delle cause del peggioramento sociale in Firenze come dice spesso Dante) e Donati sarà lotta aperta e i primi cacceranno i secondi. Si allude ad uno scontro avvenuto il primo di maggio del 1300 dopo il quale la situazione diventerà ingovernabile e precipiterà.

Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;
                        (Inferno VII, 77-81)

Canto VII, Dante e Virgilio scendono nel quarto cerchio dove avari e prodighi spingono pesi enormi facendoli rotolare col petto. Sono divisi in due schiere che, quando si incontrano, si ricoprono di ingiurie rinfacciandosi gli uni gli altri le colpe commesse. Fatica vana la loro, così come in terra erano state fatiche vane l’accumulo da una parte e lo sperpero dall’altra. In questo contesto Virgilio spiega a Dante che cosa sia la Fortuna. È lei, ministra del volere di Dio, che trasferisce i beni inconsistenti da un popolo all’altro, da una famiglia all’altra senza che l’uomo vi si possa opporre. Dunque ancora un’accezione nuova del nostro termine. Qui sta per “casata”, “dinastia”. Invece nel canto IX, “sangue” va oltre il proprio significato preciso e sta soprattutto come connotazione coloristica, volutamente brutale e degradata. “Animalesca” sarebbe il termine esatto. È il sesto cerchio, quello degli eresiarchi, e i nostri due mistici viandanti sono nei pressi delle porte della città di Dite. All’improvviso Dante vede una torre sulla cui cima si agitano tre furie infernali, sono le Erinni cui la gerarchia infernale affida la custodia di quelle porte. Sono le dee della vendetta e della discordia. Il sangue qui è una sorta di belletto, di unguento spalmato sul volto.

E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
                       (Inferno IX, 34-40)

Il sangue si fa fiume. Canto XII, settimo cerchio, primo girone. Nei flutti rossi e ribollenti del Flegetonte, sono immersi i violenti contro il prossimo. In vita sparsero il sangue altrui, ora vi nuotano, vi annaspano, vi soffocano. Se cercano di uscirne sono bersagliati dalle frecce dei centauri. Anche qui degrado orribile, cui concorre la presenza dei centauri stessi, mezzi uomini e mezze bestie, rappresentazione corporea della violenza. Questo sangue, che invade il panorama e l’orizzonte, torna più e più volte nel canto. Una rappresentazione quasi feroce che si conclude con il guado di questo fiume orribile.

 Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per violenza in altrui noccia».
                                     (Inferno XII, 46-48)

 Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille».
                                   (Inferno XII, 73-75) 

Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ‘l gran centauro disse: «E’ son tiranni
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.
                                (Inferno XII, 103-105)

 Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.
                        (Inferno XII, 124-126)

 Rappresentazione di rara potenza nel canto XIII. E anche qui l’esplorazione di un lato nuovo, di un aspetto inedito della nostra parola. Siamo tra i suicidi. E, ricordate?, su invito di Virgilio che gli dice “devi farlo tu perché se te lo racconto io tu non potresti mai crederci”, Dante allunga una mano e spezza il ramo di un pruno. Non stilla resina, non cola linfa. Esce sangue ed escono parole. Dunque sangue come misteriosa linfa di quel suicida che ha rinunciato al suo corpo ed ora è abbassato ad una forma di vita inferiore. E sangue come prodromo della parola. Siamo davanti, io credo, ad una delle tante immagini cristologiche disseminate qua e là da Dante. Sangue versato e parola che rivela sono un tuttuno.

Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ‘l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
                            (Inferno XIII, 31-36)

E poco più in là, con simbologia cristologica ancora più evidente:

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.
                             (Inferno XIII, 40-45)

Verso la conclusione del canto ancora una associazione di sangue e parola:

Quando ‘l maestro fu sovr’esso fermo,
disse «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».
                       (Inferno XIII, 136-138)

Nel canto XVII (settimo cerchio, terzo girone) parlando degli usurai, Dante cita un fiorentino della famiglia ghibellina degli Obriachi che individua con lo stemma impresso sulla borsa: un’oca bianca. Ma quella borsa è rossa. Non sarà solo il colore, certo, ma anche il sangue spremuto dagli strozzini alle loro vittime.

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,
mostrando un’oca bianca più che burro.
                                     (Inferno XVII, 61-63)

Sangue come sede dei sentimenti, come veicolo delle emozioni. E forse anche come termometro delle emozioni stesse. Canto XXIV (ottavo cerchio, settima bolgia). Qui sono puniti i ladri, costretti a stare in mezzo ai serpenti, immagine della loro natura subdola. Anzi, i serpenti li avviluppano e li legano. Spettacolo così schifoso che a Dante si sciupa il sangue.

Noi discendemmo il ponte da la testa
dove s’aggiugne con l’ottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta:
e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.
(Inferno XXIV,78-84)

Il canto XXVIII si apre con un piccolo enigma. Dante ci preannuncia sangue e piaghe. Sembra un normale panorama di pene infernali. Invece scopriremo presto che anche qui ferite e sangue si caricano di un significato ulteriore. Qui sono puniti i seminatori di discordie. Discordie religiose e dunque promotori di scismi; discordie politiche e dunque iniziatori di guerre civili. E allora quelle lacerazioni sono immagine stessa del male compiuto in vita, delle separazioni provocate. Come se non bastasse un demonio infierisce con la spada e riapre in continuazione le ferite.

 Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?
                          (Inferno XXVIII, 1-3)

Più in là, nello spasimo delle mutilazioni, urla Mosca dei Lamberti. Il quale consigliò alla famiglia degli Amidei di rispondere ad un torto subito uccidendo Buondelmonte dei Buondelmonti. Evento da cui nacquero lotte tra famiglie che si propagarono per decenni. In quell’occasione Mosca tagliò corto dicendo che una cosa, una volta compiuta, il suo scopo lo raggiunge sempre.

 E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
sì che ‘l sangue facea la faccia sozza,
gridò: «Ricordera’ti anche del Mosca,
che disse, lasso!, “Capo ha cosa fatta”,
che fu mal seme per la gente tosca».
                (Inferno XXVIII, 103-108)

Sangue e Purgatorio. Sentiamo (canto V, antipurgatorio, schiera dei negligenti morti di morte violenta) l’emozionante racconto di Jacopo del Cassero, il nobile guelfo di Fano che fu vittima delle vendette di Azzo VIII, signore di Ferrara. I sicari dell’estense lo raggiunsero a Oriago, vicino a Mira, mentre era in viaggio verso Milano dove avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di podestà. Il movimento è drammatico. Un assassinato che riferisce in presa diretta la propria morte.

Quindi fu’ io; ma li profondi fóri
ond’uscì ‘l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov’io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che m’avea in ira
assai più là che dritto non volea.
Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,
quando fu’ sovragiunto ad Oriaco,
ancor sarei di là dove si spira.
               (Purgatorio V, 73-81)

Il sangue in sul quale io sedea: ricordiamoci che è un anima che sta parlando. Quando dice “io”, vuol dire “io, anima”. Dunque il sangue in cui l’anima di Jacopo, sedea, aveva sede, cioè. E qui “sangue ” sta a dire ancora qualcosa di diverso. È il principio vitale, la vita stessa che fugge dalle ferite che gli sono inferte. Subito dopo, con movimento analogo, Buonconte di Montefeltro, ghibellino di Arezzo, racconta la propria morte avvenuta durante la battaglia di Campaldino, cui probabilmente partecipò lo stesso Dante. Siamo alla confluenza del torrente Archiano nell’Arno, cioè dove il suo nome diventa vano.

Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
                  (Purgatorio V, 73-81)

Torna il foro, lo sgorgare del sangue e si aggiunge quella immagine da brivido, della carne che rimane sola, abbandonata cioè dall’anima. Nel canto VI troviamo “sangue” nell’accezione di discendenza. Annoto che è forse questa l’accezione più frequente. I personaggi parlano del proprio sangue e vogliono indicare i propri discendenti, gli eredi. In senso ampio, la famiglia. È l’invettiva di Dante che mena colpi duri sia al papato che all’impero per la disastrosa situazione politica e sociale. Si rivolge ad Alberto d’Asburgo eletto imperatore nel 1298 e ucciso nel 1308 da Giovanni duca di Svevia, rimproverandogli di non aver mai voluto scendere in Italia.

O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!
                                (Purgatorio VI, 97-102)

Simmetricamente nella prima cornice, dove si muovono lentamente i superbi gravati da pesi enormi, “sangue” vale ascendenza, antenati della propria famiglia. Parla Omberto Aldobrandeschi, esponente di una potente famiglia grossetana. Era morto nel 1259 forse a Campagnatico combattendo contro i senesi, forse ucciso da sicari sempre di provenienza senese. Il tema dell’antico sangue. 

Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se ‘l nome suo già mai fu vosco.
L’antico sangue e l’opere leggiadre
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno
e sallo in Campagnatico ogne fante.
                       (Purgatorio XI, 58-66)

E tra gli esempi di superbia punita , scolpiti su lastre di marmo su cui Dante e Virgilio camminano, ecco la scena truculenta di Tamiri, la regina degli Sciti che uccise Ciro re di Persia per vendicare il proprio figlio. Ne gettò il capo mozzo in un otre pieno di sangue. Qui diventa strumento e anche immagine ed emblema di una selvaggia vendetta.

Mostrava la ruina e ‘l crudo scempio
che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
«Sangue sitisti, e io di sangue t’empio».
                               (Purgatorio XII, 55-57)

Nel canto XIV (seconda cornice dove gli invidiosi si reggono a vicenda e hanno gli occhi cuciti da filo di ferro) affiora il tema del sangue brullo, cioè del degrado e della decadenza delle grandi famiglie, da cui non germogliano più virtù, buoni progetti e buon agire. Parla Guido del Duca, della famiglia ghibellina che dominava Bertinoro, e presenta il suo compagno Rinieri di Calboli, podestà guelfo di Parma.

Questi è Rinier; questi è ‘l pregio e l’onore
de la casa da Calboli, ove nullo
fatto s’è reda poi del suo valore.
E non pur lo suo sangue è fatto brullo,
tra ‘l Po e ‘l monte e la marina e ‘l Reno,
del ben richesto al vero e al trastullo;
ché dentro a questi termini è ripieno
di venenosi sterpi, sì che tardi
per coltivare omai verrebber meno.
                     (Purgatorio XIV, 88-96)

Il sangue, il sangue tout court, il sangue per definizione è quello del Cristo, versato per sposare la Chiesa, versato per salvare l’umanità. Ed è anche il sangue che Giuda vende ai carnefici del Cristo. Incontriamo (canto XXI, quinta cornice dove avari e prodighi giacciono bocconi, mani e piedi legati in punizione per non aver usato il proprio corpo a fin di bene) il poeta Stazio, l’autore della Tebaide e dell’Achilleide, che presenta sé stesso. Tra parentesi, qui ci imbattiamo in uno degli errori gravissimi di Dante che attribuisce origini tolosane a Stazio che invece era di Napoli. Era invece di Tolosa Stazio, il retore.

 «Nel tempo che ‘l buon Tito, con l’aiuto
del sommo rege, vendicò le fóra
ond’uscì ‘l sangue per Giuda venduto,
col nome che più dura e più onora
era io di là», rispuose quello spirto,
«famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
dove mertai le tempie ornar di mirto.
Stazio la gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma.
                         (Purgatorio XXI, 82-93)

Infine il Paradiso. Paradiso sì, ma il sangue tiene tutta la sua valenza di ruvido contatto con la realtà. Il sangue del nemico, il sangue versato in battaglia, in altri termini la morte violenta, la contrapposizione e la crudeltà. Tanto sangue, così copioso che non si potrebbe misurare. È il sangue versato dal malvagio vescovo di Feltre Alessandro Novello, un trevigiano, che nel 1314 consegnò al vicario angioino e pontificio di Ferrara alcuni fuoriusciti ferraresi che furono decapitati. Si trattava di ghibellini che si erano rivolti a lui chiedendo asilo politico, ricevendone invece un brutale tradimento. Parole di Cunizza da Romano, la sorella di Ezzelino.

Piangerà Feltro ancora la difalta
de l’empio suo pastor, che sarà sconcia
sì, che per simil non s’entrò in malta.
Troppo sarebbe larga la bigoncia
che ricevesse il sangue ferrarese,
e stanco chi ‘l pesasse a oncia a oncia,
che donerà questo prete cortese
per mostrarsi di parte; e cotai doni
conformi fieno al viver del paese.
                       (Paradiso IX, 52-60)

In questo stesso canto Folchetto di Marsiglia parla della propria nascita e la perifrasi con cui indica la città in cui è nato, cioè Marsiglia, ha al proprio centro una immagine di sangue. Il riferimento è alla strage compiuta dal cesariano Bruto, dopo un lungo assedio e un terribile saccheggio. Questa memoria e la fotografia di un’intera insenatura invasa e fatta calda dal sangue versato, è funzionale alla descrizione del personaggio, tutta in bianco e nero, a contrasti forti. Dapprima trovatore di grande fama, nel 1205 Folchetto diviene addirittura vescovo di Tolosa ed è poi uno dei capi della cruentissima crociata contro gli albigesi del 1231.

Ad un occaso quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond’io fui,
che fé del sangue suo già caldo il porto.
Folco mi disse quella gente a cui
fu noto il nome mio; e questo cielo
di me s’imprenta, com’io fe’ di lui;
ché più non arse la figlia di Belo,
noiando e a Sicheo e a Creusa,
di me, infin che si convenne al pelo;
né quella Rodopea che delusa
fu da Demofoonte, né Alcide
quando Iole nel core ebbe rinchiusa.
                           (Paradiso IX, 91-102)

Ed ecco il tema, portante nel Paradiso anche se già annunciato precedentemente, del sangue sponsale. Matrimonio difficile perché la sposa, la Chiesa, degenera spesso. Si prostituisce, si distrae, perde di vista i propri scopi. E allora, con il linguaggio tipico dei mistici (diletto, sposa, alte grida, disposò e, appunto, sangue) ecco l’annuncio dei due principi che Dio manda sulla terra per fondare due ordini che saranno traccia da seguire, colonna e pilastro, strada maestra: Francesco e Domenico.

 La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogne aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,
però che andasse ver’ lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida
disposò lei col sangue benedetto,
in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.
L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapienza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.
De l’un dirò, però che d’amendue
si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
perch’ad un fine fur l’opere sue.
                   (Paradiso XI, 28-42)

Il tema del sangue sponsale circola anche sottotraccia. Ascoltiamo queste parole. È il canto XXVII che registra il passaggio di Dante dall’ottavo cielo, quello delle stelle fisse, al nono, il Primo Mobile dove, distribuite in nove cerchi di fuoco, sono schierate le gerarchie angeliche.

 Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio, che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,
fatt’ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa».
Di quel color che per lo sole avverso
nube dipigne da sera e da mane,
vid’io allora tutto ‘l ciel cosperso.
             (Paradiso, XXVII, 22-30)

È san Pietro che parla del proprio successore (ricordiamo che si tratta di Bonifacio VIII) come di un usurpatore che ha trasformato il luogo del martirio del primo papa in una cloaca dove scorrono il sangue delle discordie e il marciume della corruzione. In un panorama che dovrebbe suggerire ascesi ed estasi, Pietro pronuncia parole durissime e perfino triviali. Il contrasto è fortissimo proprio perché persiste nella nostra memoria l’immagine del sangue versato da Cristo e diventato linfa e sostanza della nuova alleanza. Poco più in là Pietro si infervora ulteriormente e, per tre volte in pochi versi, rievoca il sangue del proprio martirio, il sangue di altri papi martiri e poi, in durissima contrapposizione, la rappresentazione tragica dei papi odierni che quel sangue dei martiri bevono. Parla di Guaschi (con riferimento al guascone Clemente V, sul trono di Pietro dal 1305 al 1314) e di Caorsini (con riferimento a Giovanni XXII, papa dal 1316 al 1334, originario di Cahors). Sono i papi a Dante contemporanei che per così dire accompagnano la stesura del poema.

«Non fu la sposa di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
per essere ad acquisto d’oro usata;
ma per acquisto d’esto viver lieto
e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.
Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
d’i nostri successor parte sedesse,
parte da l’altra del popol cristiano;
né che le chiavi che mi fuor concesse,
divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;
né ch’io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond’ io sovente arrosso e disfavillo.
In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua sù per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perché pur giaci?
Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi!
               (Paradiso, XXVII, 40-60)

Il sangue sponsale è una cosa sola con quello dei martiri che combattono per la diffusione della parola di Cristo, come ci fa sapere Beatrice nella sua catechesi a Dante (Canto XXIX, nono cielo).

Non vi si pensa quanto sangue costa
seminarla nel mondo e quanto piace
chi umilmente con essa s’accosta.
                 (Paradiso, XXIX, 91-93)

L’ultima citazione del termine è proprio nel segno del sangue sponsale nel contesto coreografico e grandioso della candida rosa e della folla immensa dei beati. È l’incipit del canto XXXI in cui Dante cerca di reggere allo spettacolo solenne e sublime dell’Empireo.

In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa;
                            (Paradiso, XXXI, 1-3)

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