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Puglia 2013
DOLCE, ASPRA TERRA DI ULIVI

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ANNIBALE A CANNE
BARLETTA E IL COLOSSO
TRANI, CATTEDRALE SUL MARE
BARI, TERRA DI SAN NICOLA
EGNAZIA, CROCEVIA DI CIVILTÁ
MARTINA FRANCA, ALBEROBELLO, OSTUNI,
TRA MARTINO E ORONZO
LECCE, PIETRA BAROCCA
CALIMERA E OTRANTO,
SAN BRIZIO E IL CASTELLO
GALLIPOLI E IL MALLADRONE
MASSAFRA E MOTTOLA,
DIO NELLA ROCCIA
TROIA, ROSONE DI MERLETTO

Dopo il Gargano, visitato tanti anni fa (ai nostri esordi da camperisti, veri neofiti) la Puglia della piana salentina. Bari la grande, Lecce la barocca, i tanti centri minori che Egle, la mia ineguagliabile navigatrice, ha individuato con le loro curiosità, le peculiarità, le bellezze.

Partiamo domenica 20 luglio nel pomeriggio. Per la notte ci fermiamo a Marotta (propaggine sull’Adriatico di Mondolfo, provincia di Pesaro e Urbino) dove è segnalata un’area sosta. Ci mettiamo il naso per constatare l’evidenza: l’area è di fatto un campeggio. I segnali sono inequivocabili: stanzialità, tendalini fuori, addirittura qualche veranda, tavolini e sedie. Ovviamente non c’è un posto libero (oltre al nostro, c’è anche il camper dei nostri amici Edda e Danilo). Indecente. Chissà come fa l’amministrazione comunale a tenere gli occhi chiusi. Non va. Un servizio che diventa un disservizio, un privilegio per furbetti. Notte d’inferno vicino al fracasso di una discoteca, in un parcheggio a due metri dalle rotaie del treno.

CANNE DELLA BATTAGLIA
Al mattino riprendiamo la A14. Prima uscita pugliese a Canosa. Meta Canne della Battaglia. Il mio lavoro di traduttore di Tito Livio mi ha portato a studiare a lungo la situazione bellica che, nel quadro della seconda guerra punica, condusse Annibale, agosto del 216 a.C., ad affrontare per lo scontro decisivo un esercito in cui Roma aveva riversato ogni sua risorsa. Il genio militare di Annibale ebbe il sopravvento: schierò al centro le truppe mercenarie, più deboli e meno motivate. Si lasciò sfondare e poi rinchiuse a tenaglia i Romani che si trovarono a combattere sui fianchi e non lungo la linea di fronte cui erano preparati. Sbaragliati, il disastro definitivo. Annibale arrivò a due passi da Roma e vide che, sulle, mura le operazioni di sentinella erano lasciate a vecchi cadenti dalla barba bianca. Usavano l’asta della lancia come bastone per appoggiarsi. Sarebbe bastato al grande Cartaginese allungare una mano per prendere Roma. Lo avesse fatto, noi non parleremmo questa lingua e il destino dell’intera Europa sarebbe stato irrevocabilmente diverso. Tito Livio non ci dice perché Annibale non prese la città indifesa. Possiamo supporlo: voleva sfruttare a Cartagine il peso politico di una grande vittoria. Dall’alto della collina che domina la piana e sui cui insisteva il centro storico di Canne, guardo verso il mare e penso all’altra grande omissione dello storico Tito Livio: non ci dice se la battaglia è avvenuta sulla riva destra dell’Ofanto o sulla riva sinistra. La strada che ci conduce al piccolo museo è un viottolo tra gli ulivi. Il biglietto è gratuito. Notiamo una cosa che sarà una costante di questo nostro giro in Puglia: ovunque ci sono dei leggii e delle esaurienti didascalie che spiegano storia e condizioni dei singoli siti. La visita alle rovine del borgo antico è suggestiva. Davanti a noi la piana immensa che 22 secoli fa risuonò del fragore di una battaglia tremenda e decisiva.

 

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Le rovine di Canne Antica e la piana dell’Ofanto

 

BARLETTA
Prendiamo la statale 93 in direzione Barletta. Anche questa è molto stretta ma praticabilissima. Ogni movimento è accompagnato dal frastuono di milioni di cicale impazzite per il caldo. Barletta, città della celebre disfida. Qui il 13 febbraio del 1503, 13 cavalieri italiani, guidati da Ettore Fieramosca (un monumento ricorda Massimo d’Azeglio che ne narrò, in un romanzo di grande successo popolare, le gesta), sconfissero 13 cavalieri francesi inaugurando così il periodo di dominazione spagnola. La Piazza della Sfida non mi pare così ampia da poter ospitare un torneo, ma chissà quali rimaneggiamenti ha subito da allora. Decidiamo che passeremo la notte in un ampio parcheggio in via Margherita di Savoia perché il segnalato (e liberissimo) park dell’Ospedale Nuovo è decisamente troppo lontano dal centro. Proprio in centro ci aspetta il cosiddetto Colosso. Monta la guardia, imponente. È una statua bronzea giunta da Costantinopoli dopo il Mille. Raffigura probabilmente un imperatore (Valentiniano I? Onorio?). Di impatto: il bizantino ieratico coesiste alla forte espressività romana. Lì vicino sorge il Duomo, dedicato a santa Maria Maggiore. Sintesi unica di stile romanico (le prime quattro campate fino al campanile) e di stile gotico. Infatti il presbiterio e l’abside originari sono stati demoliti e ricostruiti in gotico. La visita alla cripta è un viaggio nelle strutture più antiche della chiesa.

 

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Il Colosso e la Cattedrale

Concludiamo la visita con il Castello svevo. Gli svevi sfruttarono e amplificarono antiche fortificazioni normanne. Qui ha sede il Museo Civico. Fuori del Castello passeggiata sul lungomare.

 

TRANI
La sensazione di forza e di immenso che regala la cattedrale di Trani. Sul mare, luminosa come un faro. Troviamo parcheggio in uno spiazzo a ridosso della scogliera all’inizio della cittadina. Per qualche euro i “gestori” della piccola spiaggia ci guardano i camper. Passeggiamo nella città vecchia ed ecco la grande piazza col castello, il municipio e la Cattedrale. Unica, si diceva, ed edificio estremamente complesso. In realtà si tratta di tre chiese una sopra l’altra: l’ipogeo di san Leucio, la chiesa di santa Maria e la basilica dedicata a san Nicola pellegrino. Saliamo l’ampia scalinata addossata alla facciata, oltrepassiamo il portale in bronzo (l’originale, 32 formelle di argomento vario, opera preziosa di Barisano di Trani, si trova all’interno) e scopriamo che tutte e tre le chiese sono visitabili. Camminiamo attorno al porto e ci facciamo attrarre dal profumo di un panificio: povera nostra dieta ipocalorica! Assaggiamo i taralli appena usciti dal forno, comperiamo una pagnotta e soprattutto una irresistibile focaccia ai pomodori.

Nel pomeriggio, sulla strada che da Bisceglie conduce a Corato, vistiamo il dolmen denominato la Chianca. Anche qui un tortuoso labirinto in mezzo agli ulivi. E la colonna sonora in stereofonia assoluta delle cicale: pare che l’universo intero sia occupato da loro. Il dolmen è un imponente monumento megalitico preistorico, risalente all’età del bronzo. Il nome Chianca deriva dal termine dialettale biscegliese chianghe, cioè lastra di pietra o di lava. È la stessa pietra con cui si coprono i trulli.

Alla sera troviamo rifugio al caldo nell’ospitalissimo agricampeggio Brezza tra gli ulivi. Bisceglie, a due passi dal mare (tel. 3451719400 / www.brezzatragliulivi.it). Accoglienza fantastica tra gli ulivi secolari: pulizia, gentilezza, wi-fi libero, caffè offerto dalla direzione al mattino, 20 euro per notte.

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Il dolmen La Chianca e la cattedrale di Trani

 

BARI
Rapida ricerca in internet e approdiamo al campeggio Baia San Giorgio. Dicono di essere in ristrutturazione: wc e docce lontanissimi (in comune con un bagno pubblico), camperservice fatiscente. Ci costa 28 euro a notte e, a dire il vero, pagheremo una sola notte delle due che ci fermeremo (“scusandomi per disservizio”, dice il gestore).

Campeggio peraltro servitissimo da autobus di linea. In dieci minuti siamo al Politeama Margherita, proprio sul porto e autentica porta alla città vecchia. Semplicemente straordinaria. Una gioia perdersi nei vicoli e nelle viuzze o passeggiare sul lungomare Imperatore Augusto. Gli slarghi, le mura (la Muraglia: ciò che resta della fortificazione medievale) su cui si cammina, i venditori di pesce fresco, le fontanelle provvide in giorni di calura soffocante. Una sensazione di grande benessere mentale. La prima meta è ovviamente la chiesa di san Nicola, esempio eccelso del romanico pugliese. Quando, nel 1087, dalla città di Mira (Asia Minore) arrivarono le spoglie di san Nicola, si pose subito il problema di costruire una basilica atta a ricevere tale patrimonio morale e religioso. Il via ai lavori fu dato dal vescovo benedettino Elia, grazie all’intervento di Ruggero I d’Altavilla. Imponente la facciata e ampio l’interno, a tre navate, scandite dagli spaziosi matronei.

E poi la Cattedrale, dedicata a san Sabino con il suo stile sintesi di barocco e romanico e la cripta barocca. Quindi san Gregorio, il Portico dei Pellegrini, il Museo nicolaiano, il possente Castello costruito dagli Svevi dopo il 1200 e su preesistenti fortificazioni normanne e bizantine.

Per le strade infinite testimonianze di pietà popolare. I vari tabernacoli e capitelli sono curati e amati con dolce diligenza.

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Devozione popolare davanti ad un capitello.

La giornata successiva la dedichiamo alla città nuova muovendoci tra corso Vittorio Emanuele e corso Cavour. Nella città vecchia torniamo per infilarci in una vecchia trattoria-cantina, Vini e Cucina, dove per due soldi passiamo un mezzogiorno di cortesia e buona tavola. Da segnalare il polpo arrosto (a dire il vero molto diffuso, come piatto, in zona) e un piatto tipicamente barese: cozze, patate e riso (in rete mi sono subito procurato la ricetta). Una sagra di profumo e sapore. La frittura è leggerissima. (Via Vallisa, 23 / tel. 330.433018).

 

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La chiesa di san Nicola e una statua / caricatura del santo veneratissimo da queste parti (ma anche in tutto il mondo, perché stiamo parlando di santa Claus, cioè Babbo Natale)

 

EGNAZIA
Prendiamo la direzione di Brindisi perché la nostra metà è Egnazia, la città di cui parlano Strabone e Orazio, raccontando il suo viaggio con Mecenate verso Brindisi (Gnatia lymphis iratis extructa, Orazio, Satire, 1, 5, 97-98) e che oggi è possibile percorrere in lungo e in largo. Il giro dura un’oretta ed è preceduto dalla visita alle sale del museo. Oggi (giovedì 25 luglio 2013) si può visitare solo in parte perché proprio in serata è prevista l’inaugurazione ufficiale. Egnazia resta uno di quei luoghi (continua la splendida serie di didascalie sui leggii dislocati in vari punti del percorso) che da solo vale la fatica del viaggio. Il sito era frequentato per la sua felice posizione già 1300 anni prima di Cristo in età del bronzo. Vi hanno vissuto Peuceti, Messapi e infine i Romani. Ma non mancano testimonianze ellenistiche: qui davvero passava il mondo intero. Centro commerciale, economico, marittimo. La ricchezza e lo splendore di un tempo sono visibili nelle piazze, nei templi, nelle vie.

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Uno degli splendidi affreschi del museo (ahimè, qui solo temporaneamente, in prestito dal museo di Napoli) e le vestigia del grande foro romano

 

MARTINA FRANCA
Per me, cultore e studioso della figura di san Martino, visita obbligatoria a Martina Franca, tutta dedicata al vescovo ungherese di Tours. Troviamo un parcheggio molto grande davanti alla postazione della polizia municipale. Ci rendiamo conto che il centro storico è a cinque minuti di strada. E poi la chiesa dedicata al santo. Vi si sta preparando un matrimonio e noi, in canotta e calzoncini, siamo decisamente a disagio. Tuttavia… chissà se mai tornerò da queste parti e mi faccio coraggio. San Martino ci accoglie nel gesto immortale di tagliare il suo mantello per darne una metà al povero. Sulla facciata, esemplare del barocco locale (ma il campanile è romanico / gotico), campeggia un grande altorilievo raffigurante il santo soldato che benefica l’indigente col calore del suo mantello. La chiesa è a navata unica, molto ariosa e a dimensione di preghiera. Notiamo, con qualche sorpresa, che sui banchi, in attesa degli invitati al matrimonio, sono distribuiti dei ventagli, tutti rigorosamente bianchi. Evidentemente un fatto egualitario, per evitare esibizioni. Scambio qualche parola col parroco che è così discreto da non farmi notare il mio abbigliamento poco consono nemmeno con uno sguardo. Altra piacevole sorpresa: mi regala un volume sulle bellezze artistiche della basilica. Anche Martina Franca è città molto curata e pulita con i suoi vicoli di candore accecante nel sole estivo. Qui cresce di tutto. Una vigna che reca uva chissà dove tiene radici. E un inno alla fertilità. In via Principe Umberto la facciata ancora barocca della chiesa dedicata a san Domenico, con qualche indulgenza ad un raffinato rococò. All’interno opere pittoriche di pregio: Domenico Carella qui ha il suo capolavoro, la Madonna del Rosario. E Nicola Gliri racconta di una apparizione di Maria (l’apparizione al monaco Soriano).

 

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La facciata della chiesa dedicata a san Martino e una stradina di Martina Franca

 

ALBEROBELLO E OSTUNI

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Locorotondo che si affaccia sulla Valle d’Itria
Ripercorriamo a ritroso la strada fatta il giorno prima. Ammiriamo ancora Locorotondo e puntiamo su Alberobello. Immancabile, ovvio. Troviamo un parcheggio tranquillo nell’area di sosta Nel verde (è davvero così, siamo tra gli ulivi) in via Cadore. 8 euro per 6 ore di sosta con possibilità di carico e scarico. Soprattutto siamo praticamente già nel centro storico. Eccola la mitica Alberobello, coi suoi 1000 trulli, arrampicati sulle erte dei due rioni, Monti e Aia Piccola. Attraversiamo la città vecchia. A dire il vero non c’è trullo che non sia un mercatino del souvenir, ma va bene così. Ecco la chiesa che è a sua volta un trullo (dedicata a sant’Antonio) ed ecco il trullo sovrano, il più complesso con il suo piano sopraelevato. Ecco il trullo siamese. Si scende dalla collina e si sale nella parte meno antica della città accentrata attorno alla basilica dei santi Cosma e Damiano.

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Il trullo siamese e la chiesa dedicata a sant’Antonio

Ci muoviamo verso Ostuni. Per pochi euro troviamo parcheggio nello sterrato vicino alla Madonna della Grada. Non c’è un filo d’ombra e durante la prima serata viene preso d’assalto dalle automobili che si infilano ovunque, ma insomma… Dalla Grada fluisce il salmodiare di un rosario. È la novena dedicata a questa particolare denominazione di Maria. Al mattino seguente una signora mi spiegherà l’arcano. La grada, in dialetto, è la schiena e tutta la vicenda ruota attorno a quel giardiniere che un giorno, mentre accudiva al suo lavoro, si trovò bloccato proprio alle terga. Promise devozione eterna alla Madonna se lo avesse guarito e, ricevuta la grazia, non avendo altro fiore con cui esprimere la sua gratitudine riempì la chiesa di basilico. E ancor oggi, alla luce della tradizione, la chiesa è tutto un profumato verdeggiare di questa erba aromatica che reca in sé nome regale (basileus in greco vuol dire proprio re). Saliamo una scaletta e Ostuni ci accoglie con la sua ottocentesca Guglia di sant’Oronzo. Il santo patrono benedice la città e la vallata. La Cattedrale (ingresso a un euro) è di stile tardogotico e sulla facciata spiccano i tre portali ogivali e l’elaborato rosone. Il soffitto è coperto da tele settecentesche. Passiamo il resto della giornata a zonzo in questa bella città. Girando tra i vicoli troviamo il laboratorio di un artigiano che lavora il legno d’ulivo. Vorremmo acquistare un tagliere ma non ne ha di pronti. Ripieghiamo su un mestolino dalla forma particolare che, giura il nostro nuovo amico, consente di tirar il sugo “anche dagli angoli più scomodi del tegame”. Sarà, stiamo in parola. Nel parco verde della città una serie di stand gastronomici. Comperiamo insaccati e formaggi. Finiamo con un gelato (qui in Puglia li fanno squisiti ovunque) in Piazza Libertà. Oronzo, un Arontius che fu vescovo e subì martirio a Potenza nel primo secolo, ci guarda dall’alto del suo obelisco. La colonna è stata eretta tra il 1756 e il 1771 su decreto dell’università di Ostuni.

 

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Nel segno di sant’Oronzo. La Guglia si cui sorge la sua statua e i suoi copatroni ospitati nella navata sinistra della Cattedrale: con Oronzo, Biagio e Agostino

 

LECCE
Il barocco di Martina Franca e Ostuni ci preannuncia Lecce. Ovviamente preferiamo strade che attraversano paesi, anche se l’abitudine a posteggiare ovunque rende certi passaggi davvero impervi. Io sono solito dirmi che dove passano camion e autobus posso passare anch’io. Anche per questa volta nemmeno un graffio al camper. Passiamo Carovigno, San Vito dei Normanni, Mesagne, san Dònaci, Campi Salentina. Troviamo parcheggio in via dell’Università, tra porta Napoli e porta Rudiae. Cinque euro per le 24 ore, ma la notte si rivelerà intollerabile per il calore emanato dal fondo in asfalto.
La celebrazione alta del barocco, dunque. Che fiorisce in ambito controriformistico. La religiosità popolare aveva bisogno di esprimersi trasformando in spettacolo ed enfatizzando qualsiasi manifestazione artistica. Soprattutto l’architettura: le chiese diventano dei teatri, abbellite da stucchi, marmi, statue, suppellettili preziose. L’influenza spagnola si fa pure sentire ed eccellenti architetti/scultori trovano qui il terreno fertile per la loro creatività e fantasia: Gabriele Riccardi, Cesare Penna, i due Zimbalo (nonno e nipote: Francesco Antonio e Giuseppe) Giuseppe Cino, i due Manieri (Mauro e suo figlio Emanuele). L’esuberanza di forme e di artifici scultorei fu favorita anche dalla particolare consistenza della pietra di Lecce, un calcare tanto tenero da poter essere lavorato perfino con la lama di un coltello.
Piazza Duomo è forse l’esempio più fulgido e palmare. Il duomo dell’Assunta ha due facciate: una guarda sulla piazza (ma piuttosto laterale rispetto all’orientamento interno della basilica), l’altra, più semplice e lineare, guarda verso l’Episcopio. All’interno (croce latina, tre navate) ecco gli altari realizzati da Giuseppe Zimbalo, Cino e Penna. Se il duomo è la meta principale, la passeggiata per le vie del centro attraversa mille altre bellezze. La chiesa dei santi Niccolò e Cataldo, dallo splendido rosone settecentesco; porta Napoli, monumentale e preceduta dall’obelisco dedicato a Ferdinando I; il teatro romano, portato alla luce nel 1929 e ora magnificamente inserito nel contesto del centro storico e ristrutturato per ospitare spettacoli; la chiesa del Rosario (ma chiedere della chiesa di san Giovanni Battista, con questo nome è qui chiamata); la chiesa del Carmine con la facciata riccamente decorata. E poi l’edificio in cui il barocco leccese trova forse la sua realizzazione più compiuta, la basilica di santa Croce. Iniziata nel 1549 dal Riccardi, fu portata a compimento (almeno nella parte esterna) più di un secolo e mezzo dopo. A colpire è soprattutto la facciata, affollata di ornamenti, attorno alle sei colonne e alla balaustra con i suoi 13 putti. All’interno, a tre navate, l’Adorazione dei pastori di Gian Battista Lama e l’altare dedicato a san Francesco di Paola, opera eccelsa di Francesco Antonio Zimbalo. Qui si trova anche la cinquecentesca Trinità di Gianserio Strafella che fu allievo di Michelangelo. Ma le vie di Lecce sono una scoperta continua. Impera l’arte della cartapesta, con cui si fa tutto, dalle statue dei santi e degli angeli ai presepi. Si organizzano perfino corsi per cartapestai con tanto di diploma.
E poi il pizzo, che non è la tangente da pagare alla mafia, ma il pane locale fatto con cipolla, pomodoro e un po’ di peperoncino. E olive: attenzione perché non sono snocciolate. Sulle bancarelle troviamo piante grasse invasate in recipienti di pietra di Lecce. E abbondano i negozi che vendono cose sfiziose in ceramica. Comperiamo per gli amici dei piattini zigrinati che servono a tritare l’aglio per le bruschette e dei favolosi scolamozzarelle. In pratica ciotole forellate che fanno defluire il liquido nel piatto sottostante.

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Il teatro romano in centro di Lecce e un elefantino, capolavoro in cartapesta

 

CALIMERA E OTRANTO
Sempre il mio amore per san Martino mi porta in una cittadina dal bel nome greco, Calimera (Calimera in greco vuol dire buongiorno). Calimera ha per patrono san Brizio del quale si celebra la festa proprio tra 28 e 30 luglio. San Brizio, che ebbe vita burrascosa e rapporti contrastati con san Martino, ne fu il successore come capo della comunità e anche come vescovo di Tours. Nella mattinata in cui ci fermiamo noi si esibisce un buonissimo complesso bandistico nella piazza adornata di lucernarie. Però nel caffè a due passi, un gruppo di anziani gioca imperturbabile a tressette. Non sbagliano un colpo. A fine smazzata, a turno, uno ripassa le varie fasi del gioco incurante delle note della Cenerentola di Rossini.

A Otranto, sulla punta più orientale d’Italia, approdiamo al campeggio Mulino d’acqua, un po’ fuori della città, ma funziona un servizio navetta a 8 euro (montano 4 persone che dividono la quota). Il gestore ci fa fare anche un giro panoramico della parte più nuova. Abbastanza caro il campeggio, 44 euro a notte (e non comprende le docce). Ma troveremo di peggio.
Accediamo all’interno delle mura di Otranto attraverso porta Alfonsina, con le sue due torri a montare di guardia. Subito una grande piazza affollata di bancarelle e artisti di strada. La cattedrale ha una facciata molto semplice ma è l’interno a tre navate a riservare la grande sorpresa. Il pavimento è interamente occupato da un mosaico realizzato tra il 1163 e il 1165: un incredibile albero della vita in cui trova spazio, per immagini, tutto il sapere medievale. Scienza e leggende, letteratura e miti. Il simbolo generale è evidente (la strada dal peccato alla salvezza attraverso un processo di conoscenza) ma i singoli dettagli sono ancora oggi un rompicapo per gli studiosi. Nella chiesa sono conservate anche le ossa degli 800 idruntini che furono massacrati dai turchi nell’estate del 1480 dopo un assedio durato 15 giorni. La chiesa di san Pietro, con i suoi affreschi, è davvero un piccolo capolavoro di epoca bizantina. Ma desidero visitare soprattutto il castello perché Horace Walpole ha ambientato qui (Il castello di Otranto, 1764) uno dei romanzi più importanti del cosiddetto filone gotico. Visita doppiamente gradita perché in questi giorni è ospitata una mostra dedicata a Giorgio De Chirico. Non molto materiale, ma sceltissimo, come è giusto: muse inquietanti e piazze d’Italia. La metafisica di De Chirico si respira benissimo.
Nei vicoli aprono bar e ristorantini. Invitanti, invitanti.

 

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San Brizio e il porto di Otranto visto dai bastioni del Castello

 

GALLIPOLI
È lunedì 29 luglio. Prendiamo la litoranea verso Santa Maria di Leuca. L’apoteosi del parcheggio selvaggio su un asse viario che è già stretto e tortuoso per conto suo. Un tale, sul cui capo devono essersi addensati i malefici controauguri di migliaia di persone, ha parcheggiato in curva, messo la stagnola paraluce sul cruscotto ed, evidentemente, imboccato la strada per la sottostante e solatia scogliera. I malcapitati di passaggio debbono mettersi in coda e dare il via ad un vero e proprio senso unico alternato. Mi fermo a Taviano che ha come patrono san Martino e visito la chiesa a lui dedicata, quindi ancora litoranea verso Gallipoli. La “bella città” come recita il suo etimo greco. Bella davvero. Troviamo posto nel camping La vecchia torre, sulla strada provinciale per Santa Maria del Bagno, vicino alla vecchia torre Sabea. Funziona, la sera, una navetta per chi vuole godersi la città fino alle 23. Altrimenti, di giorno, le non numerose corse giornaliere del pullman di linea che viene da Lecce. Campeggio un po’ esoso, 52 euro a notte.
Gallipoli la visitiamo il giorno dopo. Attraversiamo il Ponte Civico ed eccoci nell’isola su cui è insediato il centro storico. La prima visita è alla pescheria. Su un banco un tonno enorme appena pescato, su un altro una montagnola di ricci di mare che un addetto taglia al momento e porge crudi a chi ama questo tipo di cibo. Lì riceviamo un consiglio per il pranzo di mezzogiorno. Ottimo, come constateremo. La cattedrale è dedicata a sant’Agata, la patrona. A croce latina, ospita capolavori di Giovanni Andrea Coppola (un pittore locale) e del napoletano Nicola Malinconico. Visitiamo il Castello e passeggiamo lungo la Riviera che fa il periplo dell’intera isola. Sul mare, in riviera Nazario Sauro, è affacciata la chiesa dedicata a san Francesco d’Assisi in cui si conserva il Malladrone, il cattivo ladrone, parte di una crocifissione lignea. Gabriele D’Annunzio lo volle esaminare nel cuore della notte e con una candela che illuminava il solo volto. Disse che era di una orrida bellezza. Merita, per un paio di euro, la discesa nel sottosuolo di Gallipoli: nel mulino ipogeo si produceva olio lampante, cioè olio per illuminazione. Siamo sotto palazzo Granafei. Vengono i brividi a pensare che fino a non molti anni fa lì coabitavano, per giorni e giorni, gli asini che facevano girare la mola e le maestranze che preferivano stare là piuttosto che affrontare lo scomodo viaggio verso casa. Un gelato in via De Pace, poco oltre Piazza della Repubblica e poi trattoria Capitan Nemo, con tavolini all’aperto ma ben riparati dal sole. Grande ospitalità e piccolo conto. I tagliolini ai frutti di mare sono squisiti e il trancio di pescespada alto due dita è grigliato al punto giusto (tel. 3493618233).

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Un venditore di spugne nella Gallipoli vecchia e uno scorcio del borgo antico

 

MASSAFRA E MOTTOLA
La bellezza inattesa e unica delle chiese rupestri. Qualche disagio a girare per le vie di Massafra (sempre parcheggio alla dove tira il vento). Ci rivolgiamo all’ufficio informazioni. Abbiamo fortuna perché la guida è subito pronta. La quota è di dieci euro. Massafra è sorta attorno alla gravina e ad essa è abbarbicata. Scendere nelle cappelle scavate nella roccia, dove rito orientale e rito latino hanno convissuto a lungo, è scendere nel ventre della città. Le chiese rupestri sono state luogo di culto fino all’Ottocento. Ecco la cripta della Candelora, risalente al XII secolo, con affreschi mirabili. Soprattutto la Presentazione di Gesù al tempio e la Madonna Glikophilousa (alla lettera, amante della dolcezza). La cripta di san Marco, dal poderoso impianto architettonico, con gli affreschi dedicati al santo eponimo e ai Santi Medici. Chiudiamo con la cripta di sant’Antonio che nasce dall’accorpamento di due chiese distinte ed è situata sotto il vecchio ospedale di Massafra (in tempi relativamente recenti ne è stata la lavanderia). È la più grande tra le chiese visitate ma anche la più deteriorata negli affreschi ormai quasi del tutto illeggibili a causa dell’umidità. Una visita alla candida chiesa dei santi Medici, cioè Cosma e Damiano. Di ritorno verso il camper ci attrae il profumo di un piccolo laboratorio caseario: nodini di mozzarella e scamorze affumicate dai mille sapori.
Il passo verso Mottola è breve. Qui l’ufficio turistico è fortunatamente alle porte della cittadina. E anche qui ci va di lusso: la guida asserisce che vuole fare questa visita col fresco della sera. Per noi va benissimo. La signora Vita sale in camper con noi. A differenza di Massafra, Mottola si è sviluppata distante dalle gravine e quindi le chiese rupestri si trovano in un contesto del tutto diverso, in aperta campagna. Uno sguardo dall’alto nella gravina: il villaggio rupestre si dipana ai nostri occhi nel sole del tramonto. Immaginiamo scenari antichissimi. Sulla strada che ci conduce alla chiesa di san Nicola gustiamo i fichi maturi che cogliamo al bordo del sentiero. San Nicola è la Cappella Sistina delle chiese rupestri. Gli affreschi risalgono ad un periodo tra XI e XIV secolo. Mirabile il Cristo, la Verginè con Anà peson, la santa Parasceve e poi santo Stefano e san Nicola. Copiosi gli affreschi anche nella chiesetta di Santa Margherita, di cui è raffigurato il martirio. La calotta dell’abside raffigura il consueto Pantocrator. Poi san Michele arcangelo e san Nicola che opera un miracolo. Protagonista è la Madonna con due maternità e una immagine abbastanza rara dell’allattamento di Gesù. Conclusione con la chiesa seminterrata di san Gregorio. Siamo tornati alle porte di Mottola e la nostra guida ci consiglia il parcheggio ampio vicino alla caserma dei carabinieri. Passeremo una notte tranquillissima.

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Massafra sulla sua gravina. Il Pantocrator della chiesa rupestre di san Nicola a Mottola.

 

TROIA
Troia, ultima tappa del nostro giro pugliese. Riprendiamo l’autostrada verso nord e usciamo a Foggia, poi direzione Campobasso. A Troia ci aspetta la sorpresa di una area camper perfettamente attrezzata, pulitissima e con l’elettricità gratuita. Davvero un gran bel biglietto da visita. Dalla cattedrale di Troia ci separano solo i gradini di una scaletta. L’impianto architettonico si presenta a croce latina, senza il braccio di crociera di destra. Ha due bellissimi portali bronzei ma a colpire è uno dei più bei rosoni del mondo. Un merletto, altro che pietra, un ricamo. E la stupenda Dormitio Verginis di impianto moderno. Visitiamo anche il più antico luogo di culto della città, la chiesa di san Basilio.
La nostra ultima notte in Puglia ci offre uno spettacolo indimenticabile. La piana verso Foggia è costellata dai fuochi. È l’antica e inestirpabile tradizione delle genti della terra daunia di bruciare le stoppie per preparare la nuova semina. I contadini sono bravi, usano la tecnica della “precisa” scavando un solco attorno al campo cui danno fuoco. E assicurano che non una sola favilla passa il confine. Mah. Certo è che le ordinanze di proibizione sono meno ascoltate delle gride manzoniane. Nel buio pulsano i faretti rossi delle pale eoliche e in lontananza si disegna contro il cielo la linea sottile del Gargano. Fa malinconia pensare che domani si lascia questa splendida terra.

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Il rosone della cattedrale di Troia. La DormitioVerginis

 

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