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Per una lettura della Germania di Tacito
Ateneo di Treviso, Palazzo dell’Umanesimo Latino, 21 febbraio 2003
 

Ipse eorum opinionibus accedo, qui Germaniae populos
nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos
propriam et sinceram et tantum sui similem
gentem extitisse arbitrantur.

(Tacito, Germania 4, 1)

Ateneo di Treviso, Palazzo dell’Umanesimo Latino, 21 febbraio 2003

Negli anni Venti del XV secolo il grande umanista aretino Poggio Bracciolini entra in contatto con un monaco proveniente dal convento prussiano di Hersfeld, un centro di studio monastico attivo fin dall’VIII secolo, poco a nord di Fulda, sul fiume omonimo.

Il monaco aveva annusato l’aria ed era ben consapevole di quanto potesse valere una buona dritta, giù al sud, in Italia dove i migliori intellettuali e soprattutto i loro sponsor politici movimentavano somme enormi per alimentare il prestigioso mercato delle opere antiche, il cui possesso conferiva immagine, reputazione, autorevolezza.

Cercò entrature presso la curia romana ed incappò proprio nel nostro Poggio Bracciolini che era segretario del sarzanese Tommaso Parentucelli, destinato a salire al soglio pontificio col nome di Niccolò V. È il papa che, con la sua raccolta di codici antichi, pazientemente, amorosamente ma anche dispendiosamente collezionati, avrebbe costituito il nucleo originario della Biblioteca Vaticana.

Nel 1426, dai contatti e dagli incontri tra i due, nacque una notizia che negli ambienti umanistici fece parecchio scalpore: il Tacito noto, cioè quello degli Annales e quello delle Historiae (opere peraltro giunte a noi mutile e lacunose, la seconda molto più della prima) aveva per così dire un fratello ignoto che dormiva proprio nel monastero di Hersfeld e che aspettava solo di essere risvegliato. Nientemeno che un codice con le tre opere minori di Tacito, l’Agricola, il Dialogus de Oratoribus e, appunto, la Germania. Qui mi fermo perché la storia del risveglio di questo Tacito dormiente (o incatenato dai ceppi dell’oblio per usare una immagine cara agli umanisti che amavano pensare a se stessi come ai liberatori dei classici dai ferri e dalla schiavitù dell’ignoranza secolare) diventa un romanzo. Ho intenzione di parlarvene in una prossima conversazione dedicata al Dialogus de Oratoribus perché le vicende di questo romanzo si intricano con una antichissima e irrisolta quaestio della filologia classica, vale a dire la paternità tacitiana o meno del Dialogus stesso.

Tacito scrive la Germania nel 98 d. C., un anno per lui molto fertile perché in quegli stessi mesi andava componendo la raffinata e misteriosa monografia dedicata al suocero Agricola, presagio e premessa dell’opera storiografica maggiore.

Anno 98: è trascorso un secolo e mezzo da quando Giulio Cesare, gettato in poche ore un ponte sul Reno, entra in Germania, la mette a ferro e fuoco e ne trae l’asciutta narrazione documentaria che leggiamo nel De Bello Gallico. Lì Cesare scriveva in una logica che potremmo porre tra propaganda e politica: voleva accreditare se stesso come il nuovo Mario, come colui che aveva reso stabili i confini dell’imperium e anzi aperto nuove prospettive di conquista. Il padre della patria, l’iniziatore di un’epoca di pace.

Quando scrive Tacito, tutto è cambiato, il clima politico è infido. Basti dire che Tacito scrittore intraprende la sua opera di storico avendo alle spalle il terribile principato di Domiziano. E vale la pena di ricordare, a mo’ di spartiacque temporale, che nel 9 d. C., nella selva di Teutoburgo, Arminio, condottiero dei Cherusci, aveva sterminato un grande esercito imperiale, comandato da Publio Quintilio Varo.

Quando muore Domiziano, è tale il sollievo che Tacito torna a respirare aria pura. Nunc demum redit animus, ci dice nel famoso incipit del terzo capitolo dell’Agricola. Il breve principato di Nerva è già al suo scadere ma il vecchio e saggio principe ha designato in Traiano un successore prestigioso e forte, adeguato a garantire al principato stesso un futuro.

Tuttavia l’eredità morale è pesante. Il principato, come forma istituzionale inesorabilmente portato a identificare princeps e imperium, ha già dimostrato, in assenza anche di una classe aristocratica in grado di consigliare e dirigere, tutti i propri limiti. E, aggiungiamo, anche qualche abisso di abiezione.

L’esibizione muscolare di Cesare non è nemmeno accostabile al panorama politico in cui Tacito inizia la sua scrittura. L’analisi dell’opera, che dalla tradizione manoscritta ci è tramandata col titolo di De origine et situ Germanorum, è frastagliata, segnata da zone d’ombra e soprattutto da interrogativi che corrispondono alle differenti, possibili angolature di esame e di indagine.

Intanto qualche parola sulla struttura della monografia che nella redazione a noi giunta consta di 46 capitoletti culminanti in un finale che più aperto ed enigmatico non sarebbe possibile.

Cetera iam fabulosa: Hellusios et Oxionas ora hominum uultusque, corpora atque artus ferarum gerere: quod ego ut incompertum in medium relinquam.

L’aura di mistero è aumentata da quel cenno a Ellusii e Ossioni che troviamo nominati solo qui.

Dunque: possiamo dividere la monografia in due parti, tutto sommato abbastanza equilibrate come distribuzione del materiale. La prima parte comprende i primi 27 capitoli, la seconda va dal capitolo 28 alla fine.

Dopo un capitolo di introduzione generale che ci affaccia il panorama dilatato dei due grandi fiumi i quali delimitano il territorio germanico, cioè il Reno e il Danubio, Tacito esamina in modo sistematico la storia, il sistema di vita, le istituzioni delle popolazioni che abitano la Germania. Certi capitoli sono vere e proprie micromonografie. La tipologia delle abitazioni, i vestiti, i matrimoni, il cibo, il vino e i vizi, i debiti di gioco, gli schiavi, i funerali per fare alcuni esempi diversi.

Qualche stralcio, a mo’ di esempio.

Dal capitolo V, dedicato alle risorse economiche all’uso della moneta:

“… È una terra abbastanza fertile ma inadatta agli alberi da frutto. Il bestiame abbonda ma è per lo più di taglia minuta. Le bestie poi non sono particolarmente belle e le corna non sono imponenti come dovrebbero: i Germani danno particolare importanza alla quantità e quella delle mandrie è l’unica ricchezza che apprezzano… È possibile, presso di loro, vedere offrire in dono ad ambasciatori o principi dei vasi d’argento che però vengono considerati alla stessa stregua di quelli vili, fatti di argilla… Prediligono le monete vecchie e note da tempo, dentellate e bigate. Fanno più volentieri uso dell’argento che dell’oro, non per una particolare passione, ma perché le monete d’argento sono di uso più facile per chi traffica in merci comuni e di poco valore.”

Dal capitolo VIII, dedicato alle donne, al comportamento in battaglia, alla sfera del divino:

“Si racconta che gli eserciti già vacillanti e in ritirata siano stati ricondotti al combattimento dalle donne che insistevano nelle loro preghiere, opponevano il loro petto, indicavano la minaccia incombente della prigionia: i Germani temono infatti la schiavitù più per le loro donne che per se stessi, a punto che, volendo più efficacemente vincolare le popolazioni, bisogna imporre la presenza, tra gli ostaggi, anche di nobili fanciulle. Pensano anzi che le donne abbiano in sé qualcosa di sacro e profetico: non osano disprezzarne i consigli o trascurarne i vaticini.”

Dal capitolo X, dove si parla di auspici, sortilegi, vaticini e presagi:

“La normale procedura per interrogare la sorte è assai semplice. Tagliano dei piccoli pezzi da un ramoscello tolto da un albero fruttifero, li segnano con certi simboli e li spargono in modo casuale e fortuito sopra una candida veste. Poi il sacerdote della tribù (nel caso di un pubblico vaticinio) o anche il padre di famiglia (se il vaticinio è privato) prega gli dèi innalzando gli occhi al cielo. Quindi tira su, uno alla volta, tre pezzetti e li interpreta secondo il segno precedentemente impressovi. Se il responso è negativo, per quel giorno, non si procede più nel cercare auspici; ma se il responso è favorevole, si richiede anche la conferma degli auspici. Queste genti sanno anche interpretare il canto e il volo degli uccelli, ma una loro caratteristica usanza consiste nel trarre presagi ammonitori anche dai cavalli.”

Il capitolo XI è dedicato alla gestione del potere e alla ripartizione dei compiti sociali:

“Sugli affari di minor conto decidono i principi, su quelli più importanti tutto il popolo (ma anche tutto ciò che è competenza del popolo viene preventivamente trattato dai principi). A meno che non accada qualche evento fortuito o improvviso, si riuniscono in giorni predeterminati, in coincidenza del plenilunio o del novilunio… Dal loro modo di vivere assai libero hanno tratto questo difetto: quando devono trovarsi in assemblea non vi si recano tutti insieme o come persone che abbiano ricevuto un ordine; in questo modo, per l’indugio dei partecipanti, si perdono due o tre giorni.”

Di tribunali e giustizia si parla nel capitolo XII (dove tra i reati è indicata in modo preciso anche l’omosessualità):

“È anche consentito presentare delle accuse e intentare un processo capitale davanti all’assemblea. La gravità della pena dipende dalla gravità della colpa. I traditori e i disertori vengono impiccati a qualche albero; gli ignavi, gli imbelli, gli omosessuali vengono annegati nel fango di una palude, stesovi sopra un graticcio.Si tratta di due supplizi diversi perché la punizione dei delitti deve essere visibile a tutti, la punizione delle azioni turpi deve rimanere nascosta. Per le colpe meno gravi vi sono pene proporzionate. I rei pagano una ammenda in cavalli o bestiame: una quota va al re o alla tribù, una quota all’offeso o ai suoi parenti. Nelle medesime assemblee vengono designati anche quei personaggi che amministrano la giustizia nei cantoni e nei villaggi. Ognuno di essi viene assistito da un senato popolare di cento membri che gli fornisce consigli e ne sostiene l’autorità.”

I Germani svolgono una politica di taglio prettamente militarista e, anzi, la guerra viene avvertita come la migliore delle educazioni. Se ne parla al capitolo XIV, noto e antologizzato perché in qualche modo racchiude tutta la (non troppo) segreta ammirazione che Tacito ha per questo popolo:

“Quando si viene a battaglia, è disonorevole per un principe essere battuto in valore dal suo seguito, ma è anche disonorevole per i membri del seguito non uguagliare il valore del principe. Costituisce poi motivo di infame obbrobrio ritornare dalla battaglia, sopravvivendo al proprio principe. Il più forte obbligo morale sta nel difendere e proteggere il principe, nell’ascrivere a gloria sua anche i propri atti di coraggio: i principi combattono per la vittoria, i gregari per il loro principe. Se la tribù in cui sono nati si intorpidisce in una pace lunga e oziosa, molti giovani nobili, di loro iniziativa, raggiungono altre tribù che sono in stato di guerra… E come stipendio vale l’imbandigione di banchetti, non certo raffinati ma sicuramente abbondanti. Guerre e saccheggi consentono tale liberalità. Non si potrebbe certo indurre facilmente questi giovani ad arare la terra e ad aspettare le stagioni”.

La tipologia delle abitazioni dei Germani (che non vivono in città, come annota Tacito, perché non sopportano le case ammassate l’una all’altra) è l’argomento del capitolo XVI:

“…non fanno uso né di pietre squadrate né di tegole; per ogni cosa si servono di legno rozzamente sgrossato, senza alcuna preoccupazione di eleganza o di piacevolezza. Però rivestono molto diligentemente alcune parti di una terra così fine e rilucente, che riesce a dare l’impressione di un legno dipinto. Usano anche scavare dei sotterranei caricandovi sopra abbondante letame; è un modo per sfuggire al freddo invernale e mitigarlo e anche per conservare le messi; e poi, quando sopraggiungono i nemici invasori, costoro devastano i luoghi accessibili, ma quelli nascosti sotto terra vengono ignorati o sfuggono alla ricerca proprio perché bisogna andarli a trovare.”

La foggia dei vestiti nel capitolo XVII:

“Tutti vestono un saio, trattenuto da una fibbia, o, in mancanza di quella, da una spina. Nudi in ogni altra parte del corpo, trascorrono intere giornate davanti al focolare acceso. I più ricchi si distinguono per la loro veste (che non è svolazzante come usano Sarmati e Parti) ma molto aderente per mettere in risalto ogni parte del corpo. Portano anche pelli di fiere… Le donne vestono allo stesso modo degli uomini, anche se talora si ricoprono con sopravvesti di lino, guarnite di stoffe rosse.”

I matrimoni e la famiglia (qui vige la monogamia assoluta) sono l’argomento dei capitoli XVIII e XIX:

“…non vi è tra le loro consuetudini una che potrebbe essere maggiormente lodata. Essi infatti sono paghi di una moglie ciascuno… Non sono le mogli a portare la dote al marito, ma i mariti alla moglie. Alla cerimonia assistono genitori e parenti che valutano i doni scelti non per appagare i capricci muliebri né per dare di che adornarsi alla nuova sposa: si tratta invece di buoi, di un cavallo bardato di tutto punto e di uno scudo con framea e spada… La moglie non deve sentirsi estranea ai pensieri di eroiche azioni e alle vicende belliche: a questo scopo, proprio all’inizio del matrimonio, gli stessi auspici rituali la ammoniscono che essa viene associata alle fatiche e ai pericoli e che tanto in pace quanto in guerra soffrirà come il marito e dovrà avere il suo stesso coraggio. È questo il significato dei buoi aggiogati… Le donne vivono in una castità ben difesa, non corrotte dalle seduzioni di alcuno spettacolo e dagli stimoli di alcun banchetto… In mezzo ad un popolo tanto numeroso, gli adulteri sono pochissimi: la pena è immediata e demandata al marito. Egli taglia le chiome alla moglie davanti ai parenti, la scaccia di casa e la insegue a sferzate per tutto il villaggio… Lì i vizi non suscitano complici ilarità e non si usa dare il nome di moda al corrompere e all’essere corrotti”.

Nel capitolo XX si parla della organizzazione giuridica della famiglia, e di particolare interesse è il capitolo XXI in cui si affrontano gli argomenti della faida e dalla ospitalità:

“Viene avvertito come un obbligo addossarsi sia le inimicizie che le amicizie del padre o anche di un parente. Ma gli odi non sono irriducibili, al punto che perfino l’omicidio può essere riscattato con un determinato numero di buoi e di pecore… Nessuno può essere respinto da una casa e ciascuno ammette l’ospite alla sua tavola imbandita come le sue possibilità gli consentono… nessuno si mette a sindacare se un ospite è conosciuto o sconosciuto. È usanza concedere a chi si congeda da una casa quanto abbia eventualmente chiesto ed è reciproca schiettezza nel chiedere: tutti si compiacciono dei doni ma nessuno mette in conto ciò che ha dato o si sente obbligato da ciò che ha ricevuto.”

 Interessante il capitolo XXIV che affronta il tema di quello che doveva essere una sorta di vizio nazionale, il gioco con relativi debiti:

“… Giocano a dadi da sobri e con grande serietà. Sia che vincano sia che perdano, il gusto per il rischio li coinvolge a tal punto che, quando hanno dato fondo a tutto, con un ultimo e definitivo colpo mettono in gioco la loro libertà personale. Se uno perde anche questo colpo, affronta una volontaria schiavitù; anche se è giovane e robusto si lascia legare e mettere in vendita… Gli schiavi acquisiti in questo modo, vengono venduti ad altri perché il loro padrone vuole liberarsi dalla vergogna.”

E di notevole interesse è anche il capitolo XXVI, in cui Tacito racconta come i Germani, non certo inclini a trasformarsi in pacifici contadini, gestiscano la terra:

“Prestar denari a interesse fino a praticare l’usura è attività del tutto ignota ai Germani; ne sono dunque immuni, meglio che se fosse vietato per legge. Le singole tribù occupano a turno, in proporzione al numero dei coltivatori, il terreno da lavorare, il quale viene poi ripartito secondo la condizione sociale di ognuno. La grande disponibilità di spazi favorisce la distribuzione dei terreni. Ogni anno vengono occupati nuovi campi e questi non vengono mai a mancare… non piantano frutteti, non delimitano prati, non tracciano canali per irrigare giardini. Alla terra non si chiede altro che grano. Per questo fatto non si prendono nemmeno la briga di dividere l’anno in quattro stagioni come facciamo noi. Conoscono il significato e il nome di inverno, primavera ed estate, ma dell’autunno ignorano il nome e i possibili frutti.”

Il capitolo XXVII parla dei funerali che non sono mai occasione di ostentazione e che si concludono con la cremazione del defunto, con una cura particolare dedicata alla scelta (con significato sacrale?) del legno usato per la costruzione della pira. Si noti il paragone evidente, anche se implicito, con l’inutile sfarzo romano. E il lettore della Germania coglie qui una singolare e perfino poetica coerenza con quanto Tacito aveva detto in un precedente capitolo, parlando dei templi. I Germani non costruiscono templi perché pare loro in qualche modo contro natura costringere la divinità entro il chiuso di quattro mura:

“…Durante la costruzione della pira non aggiungono né vesti né profumi. Ognuno ha le sue armi e qualcuno brucia anche il cavallo. Il sepolcro non è altro che un cumulo di zolle: disdegnano l’onore dei monumenti funebri innalzati con grande fatica perché pensano che sia un peso per i morti.”

Tacito chiude il capitolo dicendo che queste sono le notizie che ha appreso. Ci si potrebbe interrogare dunque di che mano è il materiale usato.

Il successivo capitolo XXVIII si apre con un accenno a Cesare, qui menzionato come autorevolissimo storico, che funge da sutura con la seconda parte:

“Il divo Giulio, la cui autorità di storico è massima, ci tramanda che in passato la potenza dei Galli era maggiore: si può dunque congetturare che anche i Galli siano passati in Germania. Ben misero ostacolo poteva essere un fiume: appena un popolo prevaleva sugli altri, tendeva ad occupare o a cambiare sedi non ancora definite nei confini e non entrate nella sfera di influenza di alcun regno.”

Notiamo quell’accenno al fiume esiguo che non può fermare un popolo, perché sarà un tema dominante della nostra riflessione.

Nella seconda parte Tacito descrive l’origine e la distribuzione geografica delle diverse etnie. Si comincia con i Batavi, i Mattiaci, i Catti e si finisce con le due favolose popolazioni citate poco fa. In generale (e in conclusione, da questo punto di vista) Tacito dimostra buone conoscenze e consultazione accurata di fonti spesso di prima mano.

Detto così il profilo dell’opera sembrerebbe già disegnato con precisione: siamo davanti ad un’opera storico-etnografica. Nata, forse, come un pollone delle Historiae e poi diventata tanto importante e corposa da acquisire fisionomia e struttura autonome. E i brani proposti a mo’ di esemplificazione documentano oltre ogni ragionevole dubbio di una grande curiosità, di una voglia di conoscenza che va al di là del semplice dato scientifico.

Dunque opera storico-etnografica?

Così non è. Ci serve fare un passo indietro. Già abbiamo detto di Traiano, successore designato di Nerva. Quando viene annunciata la successione (siamo nel 97), Traiano è governatore della Germania superiore. Sul suo nome è confluito il consenso di quella parte della classe senatoria che non si era compromessa nel quindicennio del principato di Domiziano: ma non mancano i contrasti, il trapasso –possiamo immaginare- è tutto fuor che scontato, incombono gravi dilemmi e problemi di ordine politico.

Quando Nerva muore, scoppiano sedizioni pretoriane e il bersaglio è proprio lui, Traiano, il successore designato. Qui però gli eventi subiscono una svolta strana, indecifrabile a prima vista e collegabile con la lungimiranza e l’abilità politica di Traiano, che tenta il gioco grande.

Traiano non torna affatto a Roma, assorbito com’è dagli impegni militari e politici sulla frontiera renana. Rivela in questo, come del resto nelle successive mosse, una straordinaria abilità politica. Nomina suoi satelliti nei posti chiave delle magistrature civili e dell’amministrazione pubblica; reprime la rivolta pretoriana e si spiana la via per una successione tutto sommato indolore. Quanto egli sia politicamente ben piantato e anche quanto il suo prestigio sia alto, lo si intuisce dal coraggio con cui prende un provvedimento decisamente impopolare: riduce della metà il tradizionale donativo concesso per l’ascesa al trono di un nuovo principe. In questo modo fa capire che sarà anche un oculato amministratore.

In questo contesto, proprio nei mesi in cui Roma attende il nuovo imperatore e mentre costui si attarda nelle operazioni militari sul fronte germanico, Tacito scrive la Germania.

Basta questa coincidenza per dire che non si può trattare solo di una monografia storico-etnografica. Sarà anche opera di propaganda, tanto per cominciare.

Già, ma propaganda a favore di cosa? Possiamo fare delle ipotesi. Un consiglio, una esortazione a Traiano a compiere una azione militare decisiva prima di dedicarsi alle cure complessive del principato: l’azione dovrebbe ridimensionare e riscattare la storica sconfitta di Teutoburgo che risale a novanta anni prima ma è ancora ben viva negli incubi e nelle paure dei Romani. Oppure, di contro, potrebbe essere il riflesso della volontà di preparare il terreno politico perché Traiano possa agevolmente e con tutta calma consolidare prudentemente il confine.

Possiamo, appunto, solo formulare ipotesi. Perché non sappiamo come fossero distribuite o stratificate in Roma le diverse sensibilità politiche. Non sappiamo se a Roma esistessero una corrente favorevole alla belligeranza estesa e continua nel settore germanico e magari, contrapposta a questa, una corrente tendente ad un più prudente contenimento della minaccia barbarica.

Da questo punto di vista la monografia tacitiana ci aiuta pochissimo.

Abbiamo, a dire il vero, nel contesto del capitolo 33, una annotazione inquietante, anche se di non facile interpretazione: urgentibus imperii fatis, un ablativo assoluto in cui io sento predominante il valore causale su quello temporale. Traduco: poiché il fato incombe sull’impero.

Tacito ha in mente Livio che nel libro V della sua storia di Roma usa due espressioni analoghe, praticamente identiche anzi. La prima volta Livio usa l’incombere del fato per spiegare la fine della città etrusca di Veio, la seconda, in una situazione che presenta qualche analogia con il testo tacitiano: sono le fasi cruciali in cui l’orda dei Galli sta per sommergere Roma negli anni attorno al 390 a. C. Ma il testo liviano racconta in modo epico tempi favolosi. Le parole di Tacito sono preoccupate, doloranti, angosciate.

Tacito sembra quasi pronunciare la fase a mezza voce, in un contesto del tutto inatteso e dopo aver proposto al lettore una immagine così forte e brusca da far quasi sbiadire la considerazione sui fati che incombono sull’impero.

Infatti Tacito sta passando in rassegna le popolazioni germaniche e, dopo Usipi e Tencteri, è la volta di Bructeri, Camavi e Angrivari. A questo punto l’immagine choc: …seu fauore quodam erga nos deorum; nam ne spectaculo quidem proelii inuidere. Super sexaginta milia non armis telisque Romanis, sed quod magnificentius est, oblectatione oculisque ceciderunt. Maneat, quaeso, duretque gentibus, si non amor nostri, at certe odium sui, quando urgentibus imperii fatis nihil iam praestare fortuna maius potest quam hostium discordiam.

Tacito gioisce dei nemici in lotta fra di loro, a procurare mutua rovina e morte. È chiaro allora che siamo all’interno di una analisi politica: il punto chiave viene dalla speranza che gli avversari si uccidano tra di loro, togliendo difficoltà forse altrimenti insormontabili all’esercito romano. Non si illude, Tacito, che Roma possa essere amata. Non resta che sperare che si acuisca sempre più l’odio interno alle popolazioni germaniche.

Il dato è importante e la sua centralità è affermata da due luoghi del tutto analoghi dell’altra monografia tacitiana di questi mesi, L’Agricola. Nel primo Tacito, riflettendo in prima persona, dice a sottolineare il punto debole del nemico: Nec aliud aduersus ualidissamas gentis pro nobis utilius, quam quod in commune non consulunt. Nel secondo mette le sue riflessioni addirittura in bocca a Calgaco in un passaggio fondamentale del discorso in cui l’indomito capo dei Britanni incita i suoi alla resistenza all’invasore: …nostris illi dissensionibus ac discordiis clari uitia hostium in gloriam exercitus sui uertunt.

A voler ulteriormente contestualizzare viene in mente un altro passo tacitiano, questa volta attinto dalle Historiae. Galba, successore di Nerone e peraltro principe per pochi mesi tra il 68 e il 69, vede declinare il suo potere. Sa bene che …quae fato manent, quamuis significata, non uitantur.

Si tratta di giri di parole e di frasi abituali per Tacito, dunque. Un giro di pensiero che connota profondamente la sua analisi negativa del momento politico. Allora riassumendo in qualche modo: un destino tremendo pesa sull’impero perché ai suoi confini urge un grande, bellicoso, indomabile popolo. Questo popolo può essere contrastato soprattutto (o soltanto?) sfruttandone i dissidi interni.

La visione politica si arricchisce del motivo etico. Ma solo a questo punto: l’ammirazione, e diciamo anche l’invidia, la nostalgia, per l’incorrotta virtù patria delle varie genti germaniche non possono essere assunte come unica motivazione della monografia.

È nota (ed è anche affascinante nella sua icastica brevità) la definizione di A.A. Lund il quale nella sua introduzione alla Germania del 1988, parla di mundus inuersus. Da tradurre più come una esortazione del tipo “guardiamoci allo specchio, noi Romani”, che alla lettera cioè “il mondo ribaltato” o cose del genere. Definizione comunque da accogliere: pare evidente che Tacito ammira/teme del popolo germanico la grande forza, lo slancio guerriero, la solidità delle strutture sociali, i forti vincoli familiari, la uirtus in contrapposizione alla civiltà romana inaridita in un vuoto formalismo e sostenuta ormai soltanto dalla fame di ricchezza, benessere, successo personale.

Insomma la civiltà emergente che minaccia la civiltà che ha esaurito o sta esaurendo il suo slancio vitale.

I matrimoni dei Germani non si prestano a calcoli di interesse, le loro donne sono caste, i figli vengono allevati in casa (e a questo argomento viene dedicata una larga sezione dell’opera, addirittura tre capitoli tra il 18 e il 20); i liberti (notoriamente sentina di ogni malvagità e perversione) non hanno lo strapotere che detengono nella società romana. Dice Tacito, apertamente giocando con le parole sulla libertà e su quella sorta di deformazione della libertà stessa che sono i liberti: …impares libertini libertatis argumentum sunt. E i giovani dei Germani ricevono scudo e framea alla stessa età in cui gli adolescenti romani vivono l’imbelle cerimonia di indossare la toga uirilis.

E poi il discorso sulla ricchezza che attraversa l’intera monografia. Tacito si chiede se non sia stato un beneficio degli dèi aver negato ai barbari la consapevolezza del valore dell’oro e dell’argento: Argentum et aurum propitiine an irati dii negauerint dubito. Poi riflette amaramente sul fatto che i Germani hanno imparato dai Romani ad apprezzare gli oggetti preziosi: Iam et pecuniam accipere docuimus.

Infine, per limitarsi a pochi esempi, chiude con un bruciante epifonema uno degli ultimi capitoli. Che potrebbe essere la risposta ad una domanda come questa: come esercitano i Romani la loro auctoritas? Raro armis nostris, saepius pecunia iuuantur, nec minus ualent. Siamo verso la fine della monografia. Tempo di concludere ed è forse questa l’estrema sintesi della visione tacitiana: puntiamo sui conflitti interni dei nostri avversari e li corrompiamo col nostro denaro.

Solo a questo prezzo, è possibile neutralizzare il pericolo che viene da gente dall’integra vita morale, giustamente ambiziosa, pronta al mutamento. È uno dei tanti approdi, realisticamente aspro e dolorante, dell’indagine storiografica tacitiana.

Che però non è solo questo. Tocca a me concludere e lo faccio con una curiosità che attesta come multiforme sia la materia anche di una tutto sommato breve monografia come questa. Si tratta di un brano assolutamente poco noto, mai antologizzato perché pone (soprattutto se letto assieme ad un brano per così dire gemello, come farò tra un istante) oggettivi problemi di interpretazione e anche il traduttore più smaliziato rischia di trovarsi a malpartito.

Si tratta della prima parte del capitolo 45 che vi propongo nella mia traduzione:

“Oltre il territorio dei Suioni si estende un altro mare: torpido, quasi immobile, dal quale si crede sia cinta e chiusa tutta la terra, perché l’estremo fulgore del sole al tramonto vi dura fino all’alba con una luce tanto chiara da offuscare quella delle stelle. La credulità popolare aggiunge anche che è possibile udire il rumore del sole che sorge dall’acqua, scorgere le sagome dei suoi cavalli e i raggi intorno al capo”.

Insomma, il sole a mezzanotte. E siccome sono praticamente gli stessi giorni in cui scrive l’Agricola, a completare la descrizione, leggo un passaggio del capitolo 12 di quella monografia che affronta lo stesso tema:

“Sento dire perfino che, se le nubi non velano il cielo, si può vedere di notte il fulgore del sole, il quale non sorge e non tramonta, semplicemente trascorre nel cielo. Certo nelle più settentrionali distese della terra, a causa delle ombre che sono basse, le tenebre non si levano in alto e la notte non raggiunge lo spazio delle stelle”.

Passo di infinita oscurità. Tacito afferma che le terre di cui sta parlando sono molto basse e dunque non producono grandi ombre. Quando il sole vi transita le tenebre non si possono levare alte e rimangono rasenti al terreno senza arrivare ad oscurare il cielo. Un arzigogolo assoluto, ma leggere Tacito significa anche affrontare questi piccoli misteri.

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