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Inferno Canto VI

Canto VI

INFERNO

CANTO VI

 

(Treviso, Fondazione Cassamarca

Palazzo dell’Umanesimo Latino

17 novembre 2004)

 

Mentre che l’uno spirto questo disse,

l’altro piangëa; sì che di pietade

io venni men così com’io morisse.

 

E caddi come corpo morte cade.[1]

 

L’incontro con Francesca da Polenta e Paolo Malatesta è stato tanto coinvolgente da togliere a Dante la percezione della realtà. Dante sviene e il lettore che si accinge ad abbandonare coi due poeti il secondo cerchio dove sono puniti i lussuriosi e ad entrare nel terzo in cui ricevono il castigo i golosi, si rende conto che lo svenimento è, anche, un gran colpo di teatro.

Siamo nel canto VI e Dante si appresta a rappresentarci un mondo degradato, sconvolto, da leggersi totalmente in negativo. Ha in qualche modo bisogno di azzerare la capacità del lettore di farsi coinvolgere nelle sue emozioni ed ecco il colpo di teatro.

Diciamo subito che stiamo entrando nel canto politico dell’Inferno e aggiungiamo che, come sottolineano tutti gli amanti dei parallelismi e delle simmetrie, questo canto fa parte di una sorta di trilogia che comprende i sesti canti di tutte e tre le cantiche. Qui troviamo Ciacco che ci parla di Firenze, nel Purgatorio troveremo Sordello a illustrarci la condizione dell’Italia, nel Paradiso sarà Giustiniano a tracciare la storia e a indicare il ruolo dell’Impero.

Il dato che rivela con immediatezza questo canto (e sarà un po’ anche la chiave di lettura di questa conversazione) è che la visione dantesca si presenta, in questo momento, tutta in negativo. Serve ricordare che la stesura di questo canto appartiene al primo esilio, quando la ferita era ancora aperta, la speranza di tornare ben viva nel cuore di Dante, i legami con amici e parenti rimasti ancora strettissimi.

Ma naturalmente non basta. Da questo canto in poi Dante comincerà a costruire la sua società ideale in cui ognuno svolge il compito cui è stato chiamato, in cui onestà morale, franchezza e rigore sono la regola, in cui è perfettamente riconoscibile quel disegno provvidenziale che deve realizzare il massimo di benessere per ogni singolo individuo. Una città ideale, ma non utopica, che avrà la sua celebrazione altissima nella trilogia di Cacciaguida, nel cielo di Marte, dove, non a caso di sicuro, vivono la loro gloria eterna i combattenti per la fede.

Per ora questo canto VI gli serve per azzerare i conti, per dimostrare al lettore attraverso l’immagine di una Firenze deformata fino al grottesco, quale abisso di abiezione possa raggiungere l’azione politica degli uomini quando questi prendono a perseguire solo interessi di parte.

Dante torna in sé.

 

Al tornar de la mente, che si chiuse

dinanzi a la pietà d’i due cognati,

che di trestizia tutto mi confuse,

 

novi tormenti e novi tormentati

mi veggio intorno, come ch’io mi mova

e ch’io mi volga, e come che io guati.

 

Io sono al terzo cerchio, de la piova

etterna, maladetta, fredda e greve;

regola e  qualità non l’è mai nova.

 

Grandine grossa, acqua tinta e neve

per l’aere tenebroso si riversa;

pute la terra che questo riceve.[2]

 

Se il lettore ricorda, anche il cerchio dei lussuriosi da cui Dante è appena uscito, era attraversato da una terribile tempesta, pena dei dannati e immagine della stessa passione amorosa che li aveva travolti. Dunque il mutamento è minimo. Ma quale diversità di accenti! Qui orrore e tenebra vengono moltiplicati. Come se ce ne fosse bisogno, Dante ci ricorda che questa piova è etterna. E poi amplifica l’orrore di questa condanna senza appello in tre aggettivi durissimi: maladetta, fredda, greve. Perfino la penombra appare più spessa e impenetrabile. Pioggia fetida e nera che fa puzzare il terreno su cui cade, grandine e neve: questo è il cerchio dei golosi, uomini retrocessi al rango di bestie, immersi nel fango e, anzi, una cosa unica con esso. Dante li vede muovere da ogni parte, ovunque volga lo sguardo. Un panorama che non facciamo fatica ad immaginarci sulla scorta della durezza del lessico usato da Dante e delle grandiose visibilità e spettacolarità che tale lessico garantisce. In mezzo a questo terreno putrido ecco Cerbero.

 

Cerbero, fiera crudele e diversa,

con tre gole caninamente latra

sovra la gente che qui è sommersa.

 

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra

e ‘l ventre largo, e unghiate le mani;

graffia li spirti ed iscoia e isquatra.[3]

 

Si tratta dello stesso Cerbero che troviamo nell’Eneide[4], dove però il mostro ha la funzione sacrale di portinaio dell’Averno e una dimensione magica, tanto è vero che Enea lo ammansisce gettandogli nella triplice strozza una focaccia impastata di miele e misteriose erbe medicinali. Qui no. Cerbero è qualcosa di diverso. Per togliere ogni dubbio al lettore, Dante fa agire Virgilio che compie un gesto analogo, ma anche profondamente diverso da quello che aveva fatto compiere ad Enea.

 

E ‘l duca mio distese le sue spanne,

prese la terra, e con piene le pugna

la gittò dentro a le bramose canne.[5]

 

Non più la dolcissima, soporifera e propiziatrice focaccia di Enea, dunque, ma fango puzzolente, quasi a dire che Cerbero vale esattamente come la fanghiglia in cui affonda le sue sordide zampe. Certo Dante ci vuole dire che sta per introdurre i peccatori che hanno fatto uso smodato della loro gola. Ma vuole suggerire anche molto altro, perché in realtà canto ed episodio sono incentrati sulla degradazione dell’uomo investito e travolto dal peccato, in poche occasioni come questa, individuato come forza regressiva e maligna che travolge la razionalità umana e la retrocede a livello di belva.

Il peccato di gola è solo un pretesto. Introducendo un goloso fiorentino Dante muove all’analisi e alla ricerca del peccato che pesa su Firenze e sembra condizionarne e determinarne il clima di violenza, la sua perpetua condizione di guerra.

La forza straordinaria di Dante emerge sempre. Attraverso il suo dramma personale racconta il dramma della storia, i problemi dell’intera umanità. In lui dimensione morale e azione politica sono così strettamente connesse da apparirci un tutt’uno. Dante nel 1300 (ricordiamo che proprio nella settimana santa di quell’anno viene immaginato il viaggio nell’oltretomba) è stato priore, ha avuto incarichi delicati e complessi, ha svolto ogni suo compito animato da disinteresse e da amore al bene comune. Ne ha avuto in cambio esilio, false accuse, pesanti condanne. Ricordo che il 1300 è anche l’anno di una ferita per lui dolorosissima, l’esilio a Sarzana del suo più grande amico, Guido Cavalcanti. Anche questo aiuta a capire il clima doloroso.

Un destino di rovina ha travolto lui e la sua città.

E il peggio deve ancora venire, per lui e per la sua città. Ma cosa è accaduto a Firenze? Come spiegare questa forza maligna che ha sommerso e travolto tutto? Come spiegare l’angoscia profonda che non lascia speranza e impedisce, onda enorme, di vedere un possibile approdo?

La pioggia, la grandine, la neve che sommergono i golosi.

Firenze, la sua Firenze e la sua stessa vita, sono travolte e sommerse dalla superbia, dall’invidia e dall’avarizia. Che qui non sono le tre belve che lo hanno minacciato mentre saliva il colle su cui si è smarrito nel mezzo del cammino della sua vita. Qui sono qualcosa di ben più preciso. La superbia è la forza malefica che si identifica con l’aristocrazia: gli aristocratici non sono nemmeno lontanamente depositari della grazia e della cortesia delle antiche signorie feudali. Spaventati dall’avanzata di nuove dinamiche sociali, gli aristocratici si sono arroccati nella difesa dei loro privilegi e vivono all’insegna della vendetta e della sopraffazione. L’avarizia identifica la nuova classe dei mercatanti diventati ben presto banchieri. Voraci, tesi a guadagnare presto e in fretta, corruttori e corrotti, immorali e generatori di immoralità. Non è questa la borghesia contenta del giusto e attenta ai valori che Dante vagheggia e che troveremo così ben delineata, ai limiti dell’utopia, nelle parole del suo avo Cacciaguida.

E l’invidia è il tratto caratteristico di quei popolani che ritengono che qualsiasi disordine, qualsiasi sovvertimento, qualsiasi violenza vadano bene pur di arrivare a spartire gli altrui privilegi, ad abbassare la altrui fortune.

Se riusciamo ad inquadrare le cose in questi termini, nella concretezza di tre classi sociali, ognuna tesa ad un tornaconto di parte, ci rendiamo conto che superbia, avarizia e invidia formano una miscela esplosiva. E alimentano un clima di irreversibile violenza in cui l’uomo perde le sue caratteristiche umane e diventa belva: qui Dante lo racconta attraverso il supplizio orribile e deformante dei golosi. Unica occupazione possibile è quella di riempire la propria pancia, di dare soddisfazione al proprio istinto. Come le bestie, appunto. Ed ecco Cerbero, a dirci quale magma infuocato si muove nell’animo addolorato di Dante in questo momento.

Già ce ne siamo accorti. Dante lo ha raffigurato come gli scultori del suo tempo scolpivano certi orribili capitelli all’interno delle chiese romaniche: il mostro genera orrore e richiama l’atavica, ossessiva paura per il maligno. Il pericolo sempre incombente, la minaccia da cui guardarsi. Il mostro è vorace, volgare, feroce, dominato dall’unica ossessione di rimpinzarsi.

Credo che immagine e realtà ormai siano delineati in modo chiaro. Dante per esemplificare tira in ballo un suo concittadino, certamente non un protagonista della vita sociale e politica della sua città. Anche questo è significativo: Dante sceglie uno tra i tanti, uno come tanti.

Cerbero mangia e si quieta. Dante non perde occasione per dirci che la belva/demonio è parte stessa della pena inflitta ai golosi perché il suo abbaiare è così forte

 

                                        che ‘ntrona

l’anime sì,  ch’essere vorrebbero sorde.[6]

 

Cerbero ci appare dunque come entità brutale. Nella rappresentazione dantesca è rintracciabile una trama precisa di simboli. Intanto la sua triplice forma (tre gole e quindi tre teste) sarà sicuramente, in questo mondo rovesciato che è l’Inferno, una rappresentazione grottesca e caricaturale della trinità. Segno e immagine del male che insidia il bene e vorrebbe soppiantarlo. Porta la barba che fa parte della tradizionale rappresentazione dei demoni. È cane, anzi tre cani: nel medioevo il cane serve spesso a rappresentare la fedeltà feudale. Qui si vorrà rappresentare lo stravolgimento dell’ideale della cortesia e della cavalleria che sono il portato più nobile della cultura feudale. E però è anche verme, che ci richiama ancora la simbologia satanica. Unghie e zanne lo rendono ancora più mostruoso.

E in generale la situazione è davvero brutale, bestiale. Dante e Virgilio camminano, come dire?, su un pavimento umano. Anime distese a terra, forse accartocciate. Una si leva al passaggio di Dante e gli chiede se lo riconosce. No, risponde Dante, non è possibile, perché sei troppo diverso da qualsiasi persona che io abbia mai conosciuto. Sei troppo deformato dall’angoscia. Usa proprio questo termine, angoscia, che è da intendere non come dato psicologico, ma come sinonimo di sofferenza fisica. Allora l’anima si presenta, parla della pena che lo affligge. E poi cade in un silenzio assoluto.

 

Noi passavam su per l’ombre che adona

la greve pioggia, e ponavam le piante

sovra loro vanità che par persona.

 

Elle giacean per terra tutte quante,

fuor d’una ch’a seder si levò, ratto

ch’ella ci vide passarsi davante.

 

«O tu che se’ per questo ‘nferno tratto,

mi disse, riconoscimi, se sai:

tu fosti, prima che io disfatto, fatto».

 

E io a lui: «L’angoscia che tu hai

forse ti tira fuor de la mia mente,

sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.

 

Ma dimmi chi tu se’ che ‘n sì dolente

loco se’ messo, e hai sì fatta pena,

che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».

 

Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena

d’invidia sì che già trabocca il sacco,

seco mi tenne in la vita serena.

 

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco…»[7]

 

Chi sia Ciacco, noi non sappiamo. Non sappiamo nemmeno se sia un nome o un soprannome. Potrebbe essere un diminutivo di Jacopo, potrebbe significare quello che significava il termine ciacco nel linguaggio del trivio, cioè il porco. Qualcuno lo identifica con l’omonimo protagonista della novella che Boccaccio ci racconta nella nona giornata del Decameron, e per qualcuno è Ciacco dell’Anguillara, un rimatore del Duecento.

Come al solito, in Dante, nemmeno i dubbi e le indeterminatezze sono casuali o prive di senso. Ciacco è il personaggio che Dante vuole qui ritrarre e null’altro. Dobbiamo invece notare che è il primo fiorentino che Dante incontra.

Una lunga teoria di suoi concittadini d’ora in poi Dante ci farà sfilare davanti: quasi tutti ribaldi incalliti,  quasi tutti condannati alle pene infernali. Vorrà dire qualcosa su Firenze, certo.

Su questa autopresentazione di Ciacco si esaurisce la prima parte del canto. La seconda (il canto è, assieme all’XI dell’Inferno,  il più breve  del poema, 115 versi appena) riferisce la risposte che Ciacco dà alle incalzanti domande di Dante. Che sono tre: quale destino attende Firenze, c’è qualche giusto tra i suoi cittadini, soprattutto quali sono le ragioni che hanno determinato la lacerante situazione attuale.

 

«…ma dimmi, se tu sai, a che verranno

 

li cittaddin de la città partita;

s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione

per che l’ha tanta discordia assalita».[8]

 

Esamineremo con calma le risposte di Ciacco, incalzato da Dante. Ma dobbiamo fare un piccolo salto in avanti: c’è infatti un elemento che va valutato subito per comprendere l’insieme. Qui si rievocano le figure di grandi fiorentini dei quali è indiscutibile l’impegno profuso per pacificare la città, per ingrandirla, per darle prestigio, per farne un luogo di giustizia. Sono personalità che hanno dato prova di grandi virtù civili, di saggezza, di equilibrio. Se ci sono degli esempi ai quali rifarsi per capire, per ricostruire qualcosa, per trovare un’unità culturale propria, solo questi grandi fiorentini con la loro scia prestigiosa possono prestarsi utilmente. Sono personaggi che certamente hanno combattuto i grandi mali e i guasti della convivenza civile. Superbia, invidia, avarizia appunto.

Ed è a questo punto che Dante pone a Ciacco la domanda più terribile e traumatica dell’intero canto. Dobbiamo scandirla con attenzione dentro di noi, questa domanda, perché essa marca tutta la ricerca di Dante (e non solo nella Commedia) e ne connota profondamente l’ideologia. Le dà quel taglio di pessimismo da cui è tanto difficile risalire.

 

         «Ancor vo’ che mi ‘nsegni

e che di più parlar mi facci dono.

 

Farinata  e il Tegghiaio, che fuor sì degni,

Iacopo Rusticucci, Arrigo e ‘l Mosca

e li altri ch’a ben far puoser li ‘ngegni,

 

dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;

ché gran disio mi stringe di savere

se ‘l ciel li addolcia o lo ‘nferno li attosca».

 

E quelli: «Ei son tra l’anime più nere;

diverse colpe giù li grava al fondo:

se tanto scendi, là i potrai vedere».[9]

 

Insomma: tutta questa gente si è salvata o si è perduta? Dante pone l’alternativa con una delle sue metafore così dense e, ad un tempo, così immediate. Essi godono della dolcezza del paradiso o sono avvelenati dall’inferno?

Ecco passarci davanti Farinata degli Uberti, il grande capo ghibellino; Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, podestà di Arezzo e personaggio determinante a Firenze per arrivare allo scontro di Montaperti; Iacopo Rusticucci, un influente fiorentino che ebbe incarichi di prestigio per quasi un trentennio tra il 1240 e il 1270; Mosca Lamberti, capo dei ghibellini nella prima metà del 1200 e, nel giudizio di Dante, responsabile del dissidio tra guelfi e ghibellini. Troveremo Farinata tra gli eretici, Tegghiaio e Iacopo tra i sodomiti, Mosca tra i seminatori di discordie. Del quinto, Arrigo, non troviamo invece traccia nel prosieguo del poema e nemmeno sappiamo bene chi sia, visto che già i commentatori antichi avevano difficoltà ad identificarlo.

Ma non abbiamo dubbi, anche lui, come tutti gli altri attoscati, sarà  tra i peccatori più neri dell’Inferno. La risposta è brutale, una sorta di colpo di falce alle facili teorie politiche e civili. Ciacco non spiega né potrebbe farlo. E il problema si affaccia perentorio alla mente del lettore di Dante, che proprio dal suo autore si è appena sentito dire che fuor sì degni e che a ben far puoser li ‘ngegni. Personaggi di grande dignità, dunque, e capaci di operare con passione e dedizione sulla base di quelle virtù civili da cui la società trae linfa vitale e giovamento. Promuovendole anzi, tali virtù.

Condannati senza appello, per l’eternità.

Che fossero brava gente è dato dunque di cui umanamente non si può dubitare. E siccome l’altro dato di cui non si può dubitare è che Dio sia giusto, anzi sia la giustizia stessa, evidentemente c’è qualcosa che sfugge alla comprensione umana.

Allora forse è il caso di formulare l’interrogativo in maniera diversa. Bastano le virtù civili e perfino il retto intendere per la salvezza eterna? La risposta non può essere affermativa. Per dirla con Tommaso Di Salvo, un critico che spia con acutissima sensibilità il procedere del cammino di Dante,  “comincia a farsi strada in lui il principio che la politica di per sé, nella sua autonomia, è una realtà implicitamente demoniaca: ha bisogno di essere collocata nella grande, unificante e significante cornice della religione, se vuol positivamente finalizzarsi.”[10] La conquista di aree di autonomia, da parte della politica, sarà una delle grandi, faticose realizzazioni dell’era moderna attraverso le esperienze durissime di Bruno e Campanella, di Machiavelli e Guicciardini, della scuola empirista, dell’Illuminismo.

Adesso possiamo anche tornare indietro e vedere cosa Ciacco risponde alle tre domande di Dante.

 

E quelli a me: «Dopo lunga tencione

verranno al sangue, e la parte selvaggia

caccerà l’altra con molta offensione.

 

Poi appresso convien che questa caggia

infra tre soli, e che l’altra sormonti

con la forza di tal che testé piaggia.

 

Alte terrà lungo tempo le fronti,

tenendo l’altra sotto gravi pesi,

come che ciò pianga o che n’aonti.

 

Giusti son due, e non vi sono intesi;

superbia, invidia e avarizia sono

le tre faville c’hanno i cuori accesi.»[11]

 

Parafrasiamo e un po’ anche amplifichiamo le parole di Ciacco.

Dopo un lungo contrasto, dopo lunghe contese non particolarmente dure, i cittadini della città divisa tra le fazioni dei Bianchi e dei Neri, giungeranno ad uno scontro diretto e cruento. La parte selvaggia, i selvatici, riusciranno a cacciare fuori città gli altri, accompagnando l’esilio con grandi offese. Multe, confische di beni, incendi di case, persecuzioni dei familiari. I selvatici sono i Cerchi, capi di parte bianca, venuti dal contado. Il fatto cui qui si allude avvenne il primo maggio del 1300, quando Ricoverino, membro della casata dei Cerchi, ebbe il naso mozzato da un colpo di daga. Così la strada del sangue fu aperta e vieppiù rovinosa. Anche se il contrasto tra Bianchi e Neri tendeva a riproporre quello tra Guelfi e Ghibellini, nella ricerca di una misura di autonomia più o meno marcata dalla curia romana, noi non dobbiamo pensare a questi schieramenti nei termini dei moderni partiti. Erano più che altro consorterie, clientele condensate attorno agli interessi di qualche famiglia, veri e propri gruppi di potere e pressione in cui l’elemento ideologico fungeva da ben povera copertura ad interessi particolari.

Prosegue la profezia di Ciacco: dopo appena tre anni i Bianchi, provvisoriamente vincitori, soccomberanno ai Neri con l’aiuto di un tale che in questo momento (vale a dire nel 1300), piaggia, cioè si barcamena tra le due parti.

L’allusione è a Bonifacio VIII, il quale, dopo la cacciata dei Neri, intravide la possibilità di egemonizzare Firenze che gli faceva particolarmente gola, visti i capitali che la nascente borghesia mercantile e bancaria andava accumulando. Bonifacio si presentò come moderatore e pacificatore. Si mise però in segreti accordi col re di Francia il quale inviò Carlo di Valois: non di pacificazione in realtà si trattava, ma di volontà di distruggere il potere della parte bianca, molto più incline a rimanere autonoma rispetto alle voglie papali. Il Valois seppe sfruttare i dissidi interni alla stessa parte bianca e instaurò il terrore in Firenze: uccisioni, saccheggi, stupri, fughe, esili in nome della pax papalina. Il resto lo fecero i Neri fuoriusciti al loro ritorno, in termini di private e pubbliche vendette. Dante fu appunto la vittima più illustre, ma a sparire furono anche tanti altri uomini di cultura. A Firenze serviranno almeno trent’anni per riprendersi da questa emorragia di forze fisiche, morali e intellettuali. I Bianchi, almeno come gruppo, non torneranno mai più in città.

Anche se si trattava appunto di consorterie più che di partiti organizzati attorno ad un nucleo ideologico, o forse proprio per questo, vale la pena di analizzare cosa davvero significava la contrapposizione tra Bianchi e Neri nella Firenze a cavallo tra Due e Trecento.

I Neri propugnavano una politica espansionistica del comune fiorentino ed una alleanza con tutte le forze guelfe d’Italia: si tratta soprattutto di banchieri che vedono forti potenzialità di sviluppo nell’alleanza con il reame di Napoli e nella protezione e funzione equilibratrice di Roma. Napoli era allora una vera capitale, la città più famosa dell’area mediterranea, autentico crocicchio commerciale e culturale. Non sarà un caso che proprio a Napoli il giovane Boccaccio sia mandato dal padre banchiere a fare il suo tirocinio professionale che sarà anche, e soprattutto, tirocinio culturale e sentimentale.

Non vi è dubbio che il partito avverso a Dante fosse quello più lungimirante, più aperto al nuovo.

Nel 1289 era fallita la cosiddetta Gran Tavola dei Bonsignori, la massima banca e compagnia di affari senese. Un tentativo di rivitalizzarla ebbe vita e fiato corti e, proprio negli anni di Dante, nel 1304, la banca chiuse definitivamente i battenti. La crisi irreversibile dei Bonsignori apriva spazi enormi alle mire di espansione economica dei banchieri fiorentini. Si delinea proprio in questi anni il progetto di un grande stato fiorentino, capace di stare alla pari di Milano, Venezia, Roma e Napoli.

La verità è che a questa politica bisognava sacrificare l’orizzonte culturale tanto caro a Dante, le sue utopiche dinamiche sociali, la sua società perfetta modellata sui tempi dell’avo Cacciaguida. In una parola il comune e l’ideologia comunale.

La strada è praticamente obbligata: il comune non ha strutture tali da reggere il passo di una politica internazionale di così alti obiettivi; dovrà diventare la signoria di una sola famiglia di banchieri. Bisogna buttare lo sguardo molto lontano, ben al di là delle mura comunali.

In questo contesto si capisce bene come la parte bianca, che voleva gestire l’esistente sulle piccole dimensioni comunali, fosse su posizioni di retroguardia, irreversibilmente destinate alla sconfitta. Buoni e avveduti amministratori fin che si vuole, onesti magari fino allo scrupolo come fu Dante, ma battuti in partenza sul piano delle idee e del progetto politico. I Bianchi erano proprietari terrieri i cui fondi non potevano certo combattere una battaglia vincente col mobilissimo e spregiudicato capitale bancario. Erano anche piccoli artigiani e addetti al minuto commercio cittadino cui le mura comunali servivano soprattutto da difesa rispetto alle grandi fluttuazioni dei mercati mondiali. Insomma mentre Mercato Vecchio di Firenze andava assurgendo al ruolo di Wall Street del medioevo come ebbe a dire con felice immagine Vittore Branca, i fiorentini di parte bianca restavano tagliati fuori dalla loro stessa miopia politica ed economica dal grande processo di trasformazione in atto.

Mentre il fabbro di parte bianca soffiava sul fuoco della sua piccola bottega, mentre lo speziale tesseva strane alchimie nei suoi bugigattoli, mentre  il cuoiaio tagliava e cuciva i guanti per qualche cacciatore col falcone, i banchieri fiorentini pagavano il soldo dei fanti che combattevano le battaglie papaline o la angioina guerra del Vespro. Da una parte la bottega, dall’altra la fitta rete di alleanze, complicità, ricatti basati sul potere irresistibile del fiorino d’oro che scorreva a rivoli inesauribili nelle tasche senza fondo del papa romano e del re napoletano.

Questo ci spiega perché i Bianchi, col terreno che franava sotto i loro piedi, fecero scelte sempre più vicine al ghibellinismo.

Quante volte Dante mette sotto accusa l’avidità papale ed angioina! E quante volte invoca l’aquila imperiale contro i gigli di Francia! In fondo non si tratta che dell’urlo disperato di chi tenta di tenere viva la tradizione municipale ed è irreversibilmente condannato alla sconfitta.

Il resto è quanto storicamente accadde allora. Dante e con lui tanti leader del partito Bianco si infiammano di speranza (andando incontro a quali delusioni ben sappiamo) quando scende in Italia Arrigo VII. Negli stessi anni i Neri, cominciano a pensare addirittura a creare un contraltare al nord della loro politica verso sud e si allargano alla lega lombarda. Sui mercati di Brescia e Cremona comincia a circolare il fiorino. Insomma i Neri sono il vero partito guelfo che sta perseguendo una politica di respiro nazionale. Dante persegue la sua utopia di impero universale e i capi di parte nera mettono le basi per una solida e secolare politica italiana.

Dante farà parte a sé, inevitabilmente. Perché solo facendo parte a sé, allontanandosi anche dai suoi stessi compagni di sventura, potrà accarezzare e amare la sua utopia politica.

 

Ma torniamo a Ciacco.

Infatti i Neri, continua il goloso, riusciranno a dominare la città per lungo tempo, tenendo i loro nemici sotto gravi pesi, insensibili ai lamenti dei loro avversari, più forti dei tentativi di rivalsa. Nelle parole del goloso fiorentino è registrato, con sintesi straordinaria e assoluta durezza, il triennio terribile di Firenze, da quel Calendimaggio di cui si è detto,  alla discesa di Carlo di Valois.

La risposta alla seconda domanda di Dante (se cioè sia rimasto qualche giusto in Firenze) è, per il lettore moderno, più complessa di quanto si possa supporre. Non tanto perché sia impossibile identificare i due giusti inascoltati rimasti in Firenze: questione che sarebbe perfino oziosa visto che, se questa è l’interpretazione corretta, due starà a dire semplicemente che sono così pochi che è impossibile sentire la loro voce.

Il fatto è che è possibile intendere in altro modo, certamente più denso, perentorio, suggestivo. Alcuni critici, sulla base di precise rispondenze, interpretano giusti come sostantivi, alludendo alla duplicità della giustizia. Esiste infatti un diritto naturale ed esiste anche la sua forma legale, quella che ne è espressione e si traduce in pratica. Insomma tutta l’espressione suonerebbe così: a Firenze non si osserva (non sono intesi, per dirla col termine dantesco) più né il diritto naturale né quello legale. Come dire che è morta ogni giustizia: francamente è una interpretazione che a me piace molto; la trovo convincente e, per così dire, molto “infernale”, molto consona al clima della cantica, alla durezza del dettato di Ciacco, alla terribilità generale del disastro politico e morale di cui Firenze è vittima.

Infine la risposta alla terza domanda (le cause che hanno portato all’attuale situazione), già la conosciamo: superbia, invidia e avarizia. Sono faville, fuochi divampati nei cuori dei singoli e poi diventati incendio che ha bruciato l’intero tessuto sociale fiorentino.

Proprio qui, nel nome di Farinata, parte la drammatica rassegna dei fiorentini illustri che noi abbiamo già percorso.

Ciacco si avvia alla fine della sua drammatica profezia. Conclude con parole piuttosto strane, anche se finisce con un ringhio di sgarbo.

 

«Ma quando tu sarai nel dolce mondo

priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:

più non ti dico e più non ti rispondo».[12]

 

Strane parole. Saranno consuete sulla bocca delle anime purganti, destate da un interesse preciso, quello di avere preghiere di suffragio che accorcino la permanenza nel luogo di temporanea punizione. Ma qui siamo nel luogo della pena eterna. Il fatto è che Ciacco è anima dolente, se si può dire così di un dannato, fatta pensosa dai grandi temi dell’esilio, della morte, della sofferenza. Il lettore ricorda bene: dolce e amaro sono le connotazioni, proprio in queste canto, del premio paradisiaco e della punizione infernale. Nelle parole di Ciacco, dolce è il mondo, con una venatura di nostalgia che di colpo conferisce una inattesa profondità psicologica al personaggio. Poi Ciacco torna ad essere quello che è: un uomo fatto bestia dal peccato in terra e reso bestia per sempre dalla sua pena infernale. Spiritualmente cieco, come sottolinea Dante.

Virgilio aggiunge che resterà così fino al giorno del giudizio universale, quando ogni dannato vedrà apparire un Dio diventato ormai irreversibilmente nemico, tornerà alla sua tomba, riprenderà il suo corpo, pronto a ricevere la sentenza definitiva.

 

Li diritti occhi torse allora in biechi;

guardommi un poco e poi chinò la testa:

cadde con essa a par de li altri ciechi.

 

E ‘l duca disse a me: «Più non si desta

di qua dal suon de l’angelica tromba,

quando verrà la nimica podesta:

 

ciascun rivederà la trista tomba,

ripiglierà sua carne e sua figura,

udirà quel ch’in etterno rimbomba».[13]

 

Come è sua abitudine stilistica, Dante fa seguire a un passaggio di grande dramma ed estrema tensione, un riflessione più pacata, un momento di discesa nell’impegno intellettuale ed emotivo del suo lettore. E in effetti l’ultima parte del canto è attraversata da una domanda di carattere filosofico e teologico e dalla conseguente, rigorosa risposta di Virgilio. Ma serve ricordare che in Dante nulla è passaggio, tessuto connettivo, materiale per così dire minore. Anche la questione che egli pone contribuisce al clima di dramma eterno che si respira qui, al peso di un destino ineluttabile, all’angoscia senza fine di quegli uomini che hanno imboccato la via del male e non hanno saputo o voluto uscirne.

Dante chiede: le pene inflitte  come saranno dopo il giudizio finale? Minori, maggiori, pari alle attuali? Virgilio risponde che anche la scienza umana ha una risposta al quesito. Quanto più una cosa è perfetta (in questo caso un’anima che ritrova il suo corpo) tanto più avverte il bene o il male, il premio o la punizione. E siccome quando si parla di scienza, il riferimento è sempre ai testi della filosofia aristotelico-tomistica, serve precisare che è improprio parlare di perfezione, visto che la vera, autentica perfezione è quella dell’anima che, una volta raccolte le sue spoglie mortali, si ricongiunge a Dio.

 

Sì trapassammo per sozza mistura

de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,

toccando un poco la vita futura;

 

per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti

crescerann’ei dopo la gran sentenza,

o fien minori, o saran sì cocenti?».

 

Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza,

che vuol, quanto la cosa è più perfetta,

più senta il bene, e così la doglienza.

 

Tutto che questa gente maladetta

in vera perfezion già mai non vada,

di là più che di qua essere aspetta».[14]

 

Poi Dante e Virgilio si incamminano verso il prossimo incontro. Scendono dal terzo al quarto cerchio dove trovano Pluto, il gran nemico. Due volte nemico, anzi: perché il maligno è il perenne avversario dell’uomo e perché Plutone  è simbolo delle ricchezze e del loro degenerato uso, cioè della minaccia più grave che tende agguati all’uomo sulla sua via verso la salvezza.

 

Noi aggirammo a tondo quella strada,

parlando più assai ch’i’ non ridico;

venimmo al punto dove si digrada:

 

quivi trovammo Pluto, il gran nemico.[15]

 

Plutone li accoglierà pronunciando con la voce chioccia le parole più enigmatiche dell’intero poema.

 

«Papè Satàn, pape Satàn aleppe».[16]


 


[1] If  V 139-144

[2] If VI 1-12

[3] If VI 13-18

[4] Eneide, VI 419-421

[5] If VI 25-27

[6] If VI 32-33

[7] If VI 34-52

[8] If VI 60-63

[9] If VI 77-87

[10] LA DIVINA COMMEDIA, a cura di Tommaso Di Salvo, Zanichelli, Bologna, 1987, pag, 100

[11] If VI 64-75

[12] If VI 88-90

[13] If VI 91-99

[14] If VI 100-111

[15] If VI 112-115

[16] If VII 1

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