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Il caso Pavan
(Editrice San Liberale, 2003)
In copertina: Rachele Tognana, Vele in Laguna (part.), olio su tela, 1934

Donne e uomini. Contrabbandieri e sbirri, contadini e potenti, prostitute, biscazzieri e ladri, teatranti e ciarlatani, borsaioli e artisti. Si muove una folla immensa in questo romanzo, ambientato nel Settecento. Un romanzo multicolore e denso, magico e alchemico. Eppure realistico e duro, talora cupo, come è proprio della narrativa di Mazzocato.

Al centro di tutto è Tomaso Pavan, alias Tomà Marchi, che insegue il senso della propria esistenza, l’evento enigmatico e cruento che l’ha segnata, la sua stessa identità.

Parte, Tomaso, dal paesino abbarbicato al declivio che guarda sui laghi di Revine in cui è nato, approda a Venezia, poi a Treviso. Infine, aggregato ad una compagnia di guitti, sbarca in una delle isole del mare greco, dominio della Serenissima, dove vive un’avventura fisica e spirituale insieme, straniata e profondamente vera.

Scopre, inseguendo il mito di Odisseo, il significato ultimo della sua esistenza, il valore del tempo. Si riappropria, anche, di una paternità che aveva a suo tempo rifiutato. Impara dunque a decifrare il misterioso scorrere del tempo e a cogliere i fili (sottili, talora impercettibili ma resistenti e luminosi, come una tela di ragno) che legano un uomo ad ogni altro uomo.

Gian Domenico Mazzocato offre ne Il caso Pavan una prova alta della sua indagine del mondo veneto, sempre vissuto dalla parte degli ultimi. E ne esce un messaggio di speranza e di grande forza.

La narrazione si affida ad una scrittura di fascino in cui agiscono con intensità assoluta lessico e sintassi della lingua veneta. Si impastano, in questo raccontare, il vigore ancestrale delle leggende della terra veneta e la presenza forte dei grandi miti che attraversano (e spiegano) la cultura mediterranea,

 Da “Il caso Pavan” ecco l’antefatto e il primo capitolo.
Nel corso del tempo gli uomini
hanno sempre ripetuto due storie:
quella di un’imbarcazione sperduta
alla ricerca di un’isola amata
nei mari mediterranei,
e quella di un dio
che si fa crocifiggere sul Golgota.

 

Jorge Luis Borges

Dormire qualche minuto, almeno.
Addormentarsi in fretta, il tempo che ci mette il lume a consumare un dito d’olio.
Tomaso si girò sul pagliericcio, cercò di ripararsi con la coperta sbrindellata. Faceva freddo presto alla sera, quell’ottobre, a Treviso. Freddo duro. Aspettava.
Le scale erano silenziose ormai, giù nella sala dei ferri non c’era più nessuno. Vicino a lui dormiva già da un pezzo Bortolo, il borsaiolo di Montebelluna arrestato, come al solito, durante un giorno di mercato. Aveva un ronfo pesante, tranquillo.
Il lume appeso al muro buttava i suoi ultimi baffi di luce fumigosa.
Addormentarsi in fretta, tra poco i pidocchi escono a caterve da ogni fessura, da ogni trave del soffitto, dalle tavole dell’impiantito e allora ha inizio il tormento.
Zuanne Ratti, il custode, aveva già concluso il suo giro, picchiando con la mazza di ferro sui muri e sulle sbarre. Dal Camerin veniva qualche passo soffocato. Doveva essere il Carestiato che chiedeva di passare nella Colombera, la cella più vicina al soffitto e più calda: aveva con sé i due figli piccoli, una tata di neanche due anni dai cappelli rossi e un ragazzetto di cinque con gli occhi come il carbone.
Non gli somigliano in nulla, non un tratto del viso, non il taglio degli occhi o della bocca. La notte li accudisce lui, nella sua stessa cella perché la stanzaccia in cui abita dalle parti di sant’Agostino, poco più in là del braccio grosso del Cagnano, serve libera a sua moglie.
I bambini, pensò Tomaso con una stretta al cuore: la Colombera era vicino alla soffitta vuota, si sarebbero spaventati a morte. Sperò, con un po’ di rimorso, che il Ratti se ne fosse già andato e che il permesso non venisse dunque accordato.
Quanto a Varisco, lo scapinante, forse era già ubriaco e non capiva nulla.
Sentì il conte Craina che si toglieva gli stivali proprio sopra di lui: il vecchio baro pagava lautamente il privilegio di poter stare nella Beata, la stanza più pulita, un po’ di intonaco alle pareti, perfino il pavimento di pietra cotta.
Per quello che gli restava da vivere, proprio agli ultimi era, ormai.
A quanto si diceva la mancia grossa per favorire Craina, al Ratti, la dava qualcun altro, molto in alto, forse un parente. Uno come Craina in gattabuia è proprio al suo posto, inoffensivo e impossibilitato a firmare cambiali. La Beata aveva una grande finestra da cui si vedeva il campanile della chiesa di san Francesco così vicino che pareva di toccarlo.
Quella notte con lui doveva esserci Favaretto, un ladro di Lancenigo con cui aveva battuto brema tutto il giorno, fino ad ora tarda, al trionfo del vino.
Il conte, naturalmente, aveva sempre in mano la carta giusta, un asso per scarabociare tutte le carte in tavola, o magari un sette per combinare la primiera quando non era di mano e serviva sparigliare il gioco.
Sapeva aspettare e perfino perdere qualche mano per illudere l’avversario, ma poi aveva un suo modo silenzioso e perentorio per mettere la carta vincente in tavola.
Certo, aveva conosciuto tempi migliori e tavoli dove giravano zecchini sonanti e pagherò pesantissimi, ma anche nella Comune delle prigioni di san Vito, vicino ai ferri dove ogni tanto finivano appesi i riottosi e gli evasi, conservava un suo modo regale di vincere.
Allora ordinava al Ratti di aprire il suo magazzino e portargli una bossa di vino rosso.
Recava in capo una parrucca spelacchiata, tarlata da ogni parte che tuttavia egli acconciava ogni mattina con grande deferenza e i suoi vestiti, solo toppe e rammendi, testimoniavano gli splendori antichi.
Ratti correva solerte con le bosse colme. Il conte Craina, beveva e si lasciava andare. Parlava, parlava. Da lui, proprio da lui Tomaso aveva finito per sapere. Guarda i casi della vita.
Dalla Nova, il camerone dove dormivano in sette od otto, veniva ancora qualche voce. Poco più in là il carcere delle donne, con qualche canto ancora.
Nella Nova dormiva anche Artemio, barbiere e cerusico, che Tomaso aveva opportunamente istruito.
Gli aveva passato il materiale che Bernardo, lo scrittore alchimista, gli aveva fatto avere alle sconte. Chissà se aveva fatto il suo lavoro. Non c’era che da attendere.
Avrebbe avvertito prima l’odore del fumo, poi certo si sarebbero messe a suonare le campane a martello e lo scapinante, se non era troppo bevuto, avrebbe cominciato a correre col suo mazzo di chiavi per aprire tutti i porticini e far scendere i prigionieri in strada. Allora…
Tomaso sentì un frusciare diffuso, come di foglie secche e calpestate, e poi i primi morsi dei pidocchi.
Che giro strano, la sua vita. Inseguito e ricercato per anni a causa di un delitto che non aveva commesso, incarcerato per caso, per una storia in cui si era trovato dentro tirato per i capelli.
E nessuno che aveva ricollegato il suo nome a quel fatto di tanti anni prima, nessuno che si fosse accorto, che avesse memoria.
Rimase immobile. Pensò alle poche cose che doveva prendere con sé.
I fogli in cui giorno dopo giorno aveva scritto la sua vita erano ben legati con uno spago, dietro ad alcuni mattoni, nel muro vicino a lui. Lo sfiorò con una mano, saggiò il piccolo movimento dei mattoni.
Chiuse gli occhi, rassicurato.
Tra poco, tra poco il fuoco.

CAPITOLO
PRIMO

La porta era così bassa che per entrare Tomaso, lungo allampanato com’era, dovette abbassarsi. Sfiorò con la sinistra l’architrave, appoggiando il palmo aperto, l’altra mano alla cintola, vicina al coltello. Rimase immobile qualche istante, per abituare gli occhi.

La stanza era semibuia, le pareti segnate dal fumo, rumore di stoviglie e chiacchierio diffuso, passi strascicati, qualche imprecazione. Una canzone dall’angolo vicino al focolare accompagnata da qualche accordo di guzle, una melodia semplice e disadorna, piena di malinconia, che raccontava di un delitto, di un innocente catturato al posto del vero colpevole, di fughe e abbandoni.

***

L’Orlando Spinoso stava, come un grosso cane acquattato e in attesa della preda, su uno spuntone di roccia, poco prima che la strada tortuosa e ripida che scendeva dal valico di sant’Ippolito confluisse nella Valmarena.
Un posto sicuro (a patto di essere conosciuti), lontano dai rischi e da occhi indiscreti, l’Orlando Spinoso. Lo frequentava gente di ogni risma e soprattutto i contrabbandieri che venivano dal bellunese e dal goriziano, pronti a tutto, a infliggere un colpo di daga allo stomaco, a scaricare una archibugiata alle spalle, o un colpo di pistola.
Ma anche a battaglie vere e proprie, se serviva. Sicché gli sbirri si tenevano alla larga e si facevano vedere, senza uniforme, solo in qualche rara occasione. Beninteso dopo aver lasciato da qualche parte, distante, il loro archibugio,
Ogni tanto, ad esempio, nella Valmarena si spargeva la voce che nella locanda era andata a stabilirsi una prostituta che aveva ancora qualche bel vestito da sciorinare e un barlume dell’antico splendore, non del tutto consumato nei casini della Serenissima.
C’era sempre di che concludere qualche buon affare all’Orlando Spinoso. Tomaso si sedette in un angolo e ordinò un po’ di vino. Chiese se sul fuoco c’era qualcosa di caldo. Una donna, seduta dalla parte opposta, gli fece un cenno, ammiccando. Aveva una cuffietta tutta sdrucita, ma si capiva ugualmente che aveva pochi capelli, davanti le mancavano tre denti. Sorrise, portandosi una mano sulla bocca.
Lì i prezzi si facevano in lire, in ducati, ma anche in reali spagnoli. Perché le lane migliori, buone per tessere i famosi pannilani della Valmarena, proprio dalla Spagna venivano. E se c’era un posto dove si poteva sapere in anticipo dell’arrivo di qualche nuovo carico, questo era proprio la locanda.
Dalle stanze del piano superiore giungeva il consueto tramestio di gente che andava e veniva, di porte aperte e chiuse. Qualche risata, e subito dopo il parlottare serrato del prezzo da concordare. Allora un cliente si profilava, in alto, nella penombra della scala riassettandosi le vesti. E un altro si preparava a salire.
Tomaso continuava a guardarsi attorno. Ad un tavolo era seduto Renosto. I due si sbirciarono per un attimo, con odio.
E nella stanza piccola, dietro al focolare, quella riservata al gioco dei dadi e delle carte, si intravvedeva di spalle, uno mai visto da quelle parti. Tomaso chiese all’oste chi fosse.
Craina, conte Craina.
Almeno così si era presentato, a piedi, due giorni prima in compagnia di due donne. Male in arnese e impolverati, ma, aveva spiegato il conte, la loro carrozza aveva sbattuto contro un sasso qualche miglio prima ed era stato impossibile riparare la ruota. Erano arrivati alle prime ombre della sera.
Craina si era fermato fuori della porta e aveva chiamato, a gran voce, osto, locandiere, i servitori. Quando gli era parso di essere circondato da sufficiente attenzione, aveva girato lo sguardo sulle due donne che lo seguivano con gli occhi bassi e visibilmente stanche. Aveva fatto tintinnare la sua borsa e chiesto una stanza per le sue compagne, quella notte soltanto. Il tempo di far venire un fabbro e riparare la ruota. Quanto a lui, si sarebbe accontentato di una sedia vicino al focolare, perché il freddo e l’umido di quelle strade…
Aveva mangiato e pagato in anticipo per la notte.
E il giorno dopo, quando ormai si era saputo che non c’era da alcuna parte una carrozza da riparare e che il terzetto veniva di sicuro da Venezia ma che, a quanto si diceva, aveva bazzicato qualche tempo a Treviso, Craina aveva già piazzato le sue baldracche nelle due stanze migliori della locanda e messo su banco: ogni gioco gli andava bene.
Bassetta, picchetto, lanzichenecco, il proibitissimo biribis, faraone.
Ma il faraone, aggiungeva per farsi amici e complici i potenziali compagni di partita, era un gioco da ricchi, molto meglio e molto più semplice la zecchinetta, che si poteva giocare con quanti mazzi si voleva e garantiva pari possibilità al banco e ai giocatori.
Dalla stanza dietro il focolare lo si sentiva parlare, con voce impostata, come da cantante. Tomaso lasciò il suo tavolo, si avvicinò, fermandosi appena dentro la porta. Comprese che Craina lo aveva misurato in un attimo, quanti soldi poteva avere in tasca e quanta voglia di spenderli, lì davanti a lui o nelle stanze del piano di sopra.
Craina era sui trent’anni, basso di statura, paffuto e flaccido, due rughe profonde attorno alla bocca, gli occhi scavati e cerchiati di nero. Si muoveva piano, con fare solenne, come se giocare fosse un rito. Aveva mani piccole, ma dita nervose, scheletriche.
Sembrava sfiorare le carte, senza mai dare l’impressione di stringerle un attimo di troppo, proprio un campione a zecchinetta. Chiedeva, con quanti mazzi questa mano, cinque, meglio sei, si gioca con più rischio ma c’è più soddisfazione. Sapeva perdere quando era il momento giusto. Scopriva le carte una dopo l’altra, faceva lievitare le scommesse su quelle scoperte già in tavola, intanto decantava le bellezze e le abilità delle sue amiche, su in camera.
Due tette straordinarie, la Maria, da aver voglia di tirarci il latte con la bocca e sempre allegra, sempre a ridere. Certo, un po’ magrolina, la Filumena, ma che temperamento, del resto se una viene da Napoli…
Tomaso guardò i giocatori, cinque in quel momento. Ognuno di loro sperava che il mazziere scoprisse una carta identica a quella che stringevano tra le dita, per allungare le mani sul mucchio di monete, in mezzo al tavolo.
Ogni volta che Craina pescava dal mazzo una regina aveva il pretesto per tornare a parlare di Maria e della napoletana. Era chiaro che ora aveva adocchiato il giocatore alla sua destra, un vinaio di Follina, che Tomaso conosceva di vista e che pareva bene in soldi. E tuttavia non era tranquillo e pareva esitare a salire i gradini. Il conte veneziano estrasse dal mazzo un asso di quadri e gli occhi del vinaio si illuminarono.
Se era studiata, pensò Tomaso, era davvero un colpo da maestro. Il vinaio imboccò le scale convinto che era la sua grande serata. Craina lo guardò salire con un sorriso.
Un posto libero. Sembrò accorgersi solo in quel momento dello spilungone che stava sulla porta, gli fece un cenno col mazzo in mano indicandogli la sedia vuota. Tomaso era tentato. Aveva un po’ di soldi in tasca e una vincita gli avrebbe spianato qualche difficoltà. Pensò al vinaio che stava scegliendo tra la grassona e la magrolina e a come sarebbe stato spennato fino all’ultimo centesimo quando avesse ridisceso le scale.
Ne aveva viste troppe, Tomaso, per non sapere che a tavoli come quelli non si vince mai. Scosse la testa e tornò nella sala grande. Renosto era sempre al suo tavolo, ma guardava in direzione della saletta da gioco. Pareva attratto. Almeno se li vedesse scappar via di brutto, i suoi maledetti soldi, pensò Tomaso. Girò gli occhi.
I contrabbandieri si riconoscevano a prima vista, anche se evitavano di fare gruppo. Ognuno di loro aveva qualcosa di strano nel suo abbigliamento, una sorta di segno distintivo, un giro d’argento attorno al cappello a larga tesa, una giubba con intarsi colorati o magari uno spadino di acciaio lavorato e traforato appeso davanti, a ballare come un pendaglio di collana. Oppure un giro di medaglie militari sul petto, frutto di chissà quale scambio, rapina o magari delitto, o un orecchino lunghissimo di crine di cavallo, cuoio e pietre preziose.
All’Orlando Spinoso erano di casa, tranquilli.
E del resto che male poteva esserci nel fare una passeggiata con un sacco di tabacco sulle spalle, già tritato o magari ancora in foglia, si chiedevano tutti nella Valmarena. Finché si limitavano a portar tabacco… Erano guardati senza sospetto, come se commerciassero pezze di stoffa o pentole di coccio, perfino invidiati.
Eppure per quella passeggiata si rischiavano mesi e anni di galera. Tomaso era amico di due contrabbandieri che andavano e venivano attraverso le ripide e malsicure mulattiere del passo di sant’Ippolito. Uno aveva il lobo dell’orecchio destro forato e attraversato da uno spillone d’oro, l’altro, guercio d’un occhio, aveva tempestato di perline e pietre la benda che copriva la caverna vuota.

***

Tempo da lupi, fuori, e da brividi. La montagna aveva una voce terribile e minacciosa.
Nella parlata della gente della Valmarena, Ippolito, il santo vescovo morto martire per mano dell’imperatore di Roma, era diventato san Boldo e sui misteriosi e cupi rumori notturni che si avvertivano nei canaloni e nelle forre del passo in notti come quella, si raccontavano storie tremende.
Orlando, il grande paladino di Carlomagno che da quelle parti doveva essere proprio di casa, ogni tanto tornava e percorreva col suo largo passo i sentieri del san Boldo. La sua armatura pesante sbatteva contro i macigni della montagna e lui veniva, a quanto si diceva, a liberarsi lo stomaco e l’intestino delle carni di tutti i saraceni infedeli che aveva divorato in giro per il mondo. I rumori misteriosi, che rombavano come tuoni, provenivano dalle profondità del suo ventre.
Ma a spiegare i rumori misteriosi che, nel buio, si udivano attorno all’Orlando Spinoso, anche altre storie si raccontavano. C’era la leggenda gentile di Odilia, la cui anima inquieta tornava spesso da quelle parti, soprattutto a Tovena, ai piedi delle rampe del san Boldo. Un misterioso pellegrino aveva nella notte dei tempi abbandonata la sacra reliquia della sua testa. Odilia era cieca dalla nascita e aveva vissuto santamente in un convento per tutta la vita: le donne di Tovena e dei dintorni la invocavano ogni volta che i loro figli avevano mal di testa o qualche orbariola agli occhi.
Ma ben altre erano le storie che tenevano banco all’Orlando Spinoso.
Storie dure, di rapine e vendette. Ogni qual volta il Magistrato dei Cinque Savi o l’Inquisitore al Tabacco mandava fuori uno dei suoi proclami che promettevano pene crescenti ai contrabbandieri, c’era qualcuno che progettava un assalto punitivo agli sbirri della Ferma Tabacchi o, più semplicemente, si chiedeva dove trovare i soldi per ungere le ruote e corrompere gendarmi e magistrati.
Gli sbirri si accontentavano di poco e magari si organizzavano per trasportare un po’ di tabacco in proprio ma erano soprattutto i magistrati i più esosi, quelli che chiedevano sempre di più per tenere gli occhi chiusi.
Tomaso pagò il primo giro per i suoi amici. Il vinaio di Follina era sceso dalle scale con passo malfermo ed era andato a farsi rubare gli ultimi soldi al tavolo di zecchinetta. Pescò un fante di picche, una carta maledetta come tutti sanno, lo si sentì bestemmiare.
I due contrabbandieri portavano con loro una storia terribile e che non faceva presagire nulla di buono.
Nemmeno l’Orlando Spinoso in una situazione del genere poteva dirsi sicuro e anche gli sbirri più corrotti potevano essere costretti a fare i duri. Anzi sono proprio quelli più abituati a prendere la mandola che al momento giusto tirano fuori i denti, disse il Rosso, il contrabbandiere guercio, perché devono dimostrarsi a posto.
Era successo a Conegliano, pochi giorni prima. E non la solita squadra, di tre o quattro persone veloci a muoversi e dunque inafferrabili, ma una banda grossa. In dieci, forse dodici erano scesi in città armati fino ai denti, daghe, schioppi, pistole, e avevano fatto blocco proprio nella piazza centrale e nelle vie adiacenti. Avevano esibito i pani di tabacco, così alla luce del sole, fino a smerciarli tutti, fino all’ultima fibra, all’ultima fogliolina.
Ridevano e si sostenevano l’un l’altro, attingendo vino e coraggio dalle loro fiasche.
Le autorità di Conegliano avevano fatto partire un messaggero ventre a terra. Recava una informativa con tutti i particolari scritti sopra, annotati per filo e per segno. Da Venezia, la risposta dal Consiglio dei Dieci non sarebbe tardata. Il messaggio conteneva un elenco di nomi lunghissimo: i banditi che erano scesi in Conegliano, tutti noti e tutti riconosciuti, qualcuno che imperversava da anni con una taglia pesante sulla testa, ma anche parecchi altri.
Perché guardare tanto per il sottile, commentava amaro l’altro, quello che aveva l’orecchio infilzato. Era o non era l’occasione buona per fare un po’ di pulizia, rimettere al loro posto i contrabbandieri, sfoltirne un po’ i ranghi, costringerli a pagare senza stare troppo a discutere? L’unico modo utile a regolare il mercato della merce proibita.
Lo conoscevano tutti per Liuto, perché si diceva che avesse una gran mano per suonare il violino, anche se poi non erano in molti a poter dire di averlo davvero sentito.
Ma, a quanto si diceva, nella missiva inviata a Venezia c’era la richiesta di una ducale, il terribile ordine scritto che consentiva alle autorità locali di agire col potere del Consiglio dei Dieci. La procedura secondo l’implacabile Rito dell’Eccelso: mai la pena poteva essere convertita in ammenda pecuniaria e contro la sentenza non esisteva appello.
C’era da aver paura. Tomaso era inquieto. Era lì per sentire di qualche balla di lana e rischiava di essere coinvolto in una operazione di polizia. L’ora era tarda e all’Orlando Spinoso, ormai, non si sentiva altro che la voce del baro veneziano, un po’ impastata dal vino, e le risate delle donne, su delle scale. Ai tavoli qualcuno dormiva, la testa sulle braccia. La lastra del focolare era coperta da una cinigia spessa e fumigosa, i tizzoni quasi spenti. Renosto era entrato nella saletta da gioco e Craina lo stava puntando, come un cane da caccia.
Il vento urlava nei canaloni del san Boldo, rabbioso e cattivo come il demonio in persona.
La porta si spalancò di colpo, una folata di freddo, uno sbuffo di pioggia ghiacciata.
Alta, col viso avvolto in una sciarpa nera, le spalle larghe, da uomo quasi, e le gonne grandi lunghe, tutte a pieghe. Maria Scattona, la contrabbandiera.
Qualcuno si svegliò, l’osto alzò gli occhi dal bancone e capì che non sarebbe andato a dormire quella notte, perfino Craina smise per un istante di blaterare: donne maledette e perdute, le contrabbandiere, diceva, peggio, molto peggio, delle prostitute.
Ma se hanno il coraggio giusto, ne hanno di numeri per quel mestiere, lo sapeva bene la gente della vallate della Piave, della Brenta e del Tagliamento. Coraggiose, sfrontate, puntuali, dure che non si fermano mai davanti a niente.
Quando serve barattare il silenzio degli sbirri hanno qualcosa di più degli uomini. E la merce la infilano e la nascondono dappertutto, nei tasconi sotto le gonne, dentro la camicia.
Maria si piantò a gambe larghe in mezzo alla stanza. Scosse l’acqua dai vestiti, si tolse la sciarpa, buttò indietro il cappuccio. Aveva capelli neri, lunghi e lucidi.
Col ferro mosse la cenere, radunò qualche brace, ci buttò sopra una mezza fascina di legnetta per fare caldo alle svelte, come fosse padrona.
Non portava buono, la contrabbandiera. Non era la compagna giusta per quel mestiere e così gli altri trafficanti, quando la incontravano, cercavano di fare il minor tratto possibile di strada assieme a lei. Difficile dire che età avesse, cinquanta forse. Gli occhi erano dolci e chiari, e quando sorrideva le si spianavano le rughe sul viso bruciato dal sole. Aveva una bellezza strana, senza tempo, il viso affilato e malinconico, da lupa solitaria.
Famosa, la Maria Scattona, e alle stazioni della Ferma Tabacchi la conoscevano tutti gli sbirri. Di solito facevano finta di niente, ma qualcuno con la scusa di perquisirla metteva le mani dappertutto. Aveva ancora un seno sodo e il corpo, arrotondato ma non sformato dagli anni e dalla fatica, sembrava disegnato dalla mano di uno scultore.
La Maria Scattona era una donna altera e intelligente. Decideva lei a chi dare confidenza. Così non si sapeva mai davvero il motivo per cui finiva qualche giorno dietro le sbarre, se per aver reagito alle perquisizioni invadenti o perché tra le pieghe della sua sottana era stata trovata una quantità di tabacco superiore a quanto previsto dalla licenza dell’Impresario dei Tabacchi. Tra Tomaso e la contrabbandiera corse un sorriso, uno sguardo di intesa. Quella donna che poteva avere vent’anni più di lui gli era entrata nel sangue.
Dalla sala da gioco uscì Renosto. Salì trascinandosi dietro la sua gamba mezza morta. Lo zoppo sembrò ancora più piccolo di quanto fosse in cima alle scale. Dall’alto gettò uno sguardo sulla stanza: aveva vinto al gioco, naturalmente, e adesso avrebbe speso i suoi soldi con due puttane di Venezia, tutte e due con lui, nello stesso letto. Craina, ubriaco, ghignava alle sue spalle.
Tomaso teneva gli occhi fissi sulla contrabbandiera, che ogni tanto gli volgeva le spalle per ravvivare il fuoco. Non era capitato all’Orlando Spinoso solo per sapere se dall’Estremadura o magari anche dalla Linguadoca era in arrivo qualche buona balla di lana. La Scattona buttò un ciocco grosso sulle braci appena rifatte.

***

Prometteva burrasca grande quella notte, forse la prima neve. E poteva succedere di tutto, là fuori sulla montagna nera e misteriosa.
Non doveva esserci solo il fantasma di Orlando, di fuori, arrabbiato e violento, il divoratore di infedeli. Doveva esserci anche lui, il santo.
Perché Ippolito, il santo martire guerriero, era nelle favole della Valmarena un fantasma inquieto, al pari di Orlando.
Nei capitelli, sul biforcarsi di qualche sentiero, il santo era raffigurato nel momento terribile del suo martirio. Decio, l’imperatore al cui cospetto Ippolito aveva rifiutato di bruciare l’incenso, lo aveva fatto trascinare per le strade di Roma da una quadriglia di cavalli. I carnefici li avevano resi furiosi con tizzoni ardenti cacciati a forza nelle orecchie e nelle froge. Tornava in notti di acqua e tuoni come quelle, Ippolito, con lo strepito fragoroso e assordante della sua armatura sbattuta nelle gole e negli orridi della montagna.
Correva furioso e disperato per sentieri e mulattiere, sui crinali che andavano verso il Praderadego, attraverso i pendii che scendevano bruschi e scoscesi dal col dei Moi e più in là fino alla montagna del Crep e al Cesen.
Tomaso rabbrividì, il cuore stretto da un brutto pensiero. Si alzò dal suo tavolo e andò a mettersi vicino alla Scattona. La donna si era lasciata cadere su una panca, presso il focolare. Ansimava, tremava quasi. Non era da lei. Aveva un odore acre, la donna, che impregnava le vesti, di tabacco e sudore, ma sapeva anche di erba e di acqua. Un odore forte che stordiva e metteva voglia di stendersi al buio vicino a lei, con la testa sul grembo, accarezzandole i seni e assecondando il movimento del suo respiro. La donna aveva un ansimare trattenuto, teneva socchiusa la sua bocca triste da lupa selvaggia.
Le mani della Maria Scattona erano ruvide, abituate ad aggrapparsi agli spuntoni di roccia e a reggere le cavezze dei muli, tirandoli a forza su per sentieri che neanche le capre percorrevano. Ma erano capaci di carezze dolci, calde e tranquille.
Tomaso chiuse gli occhi, le sfiorò le mani. La contrabbandiera prese a parlare, un sussurro franto e impaurito.
Va bene la Valmarana, che era feudo dei Brandolini e dunque non era proprio territorio della Serenissima Repubblica e aveva leggi sue, cui era più facile scappare, ma nessun luogo era sicuro in quel momento.
La Scattona portava notizie terribili, di che preoccuparsi davvero.
I contrabbandieri che avevano terrorizzato Conegliano, si erano sparpagliati tutto intorno, col primo buio della notte. Avevano sparato e certo avevano ferito e ucciso qualcuno degli sbirri.
Ma erano anche entrati nelle case e avevano malmenato i padroni. Messi alle strette, disperati, avevano urlato di essere Ministri di Giustizia, come facevano di solito per intimorire e farsi aprire le porte, che stavano cercando quei maledetti e porci contrabbandieri assassini e quando era stato loro aperto…
Avevano anche ammazzato. Due morti, forse tre, gente innocente, disse la Scattona, con il pianto nella gola. E adesso c’era da aspettarsi il peggio.
L’urlo del vento si quietò. Nella stanza grande dell’Orlando Spinoso non si sentiva altro che il ronfo sordo di chi dormiva e il crepitio leggero delle braci che andavano consumandosi.
L’irruzione improvvisa degli sbirri, quattro, uno dava ordini secchi, ma certo altri erano fuori della porta, fu come una brusca e inattesa salva di archibugi, un agguato, una imboscata.
Non c’era scampo.

***

Uno dei gendarmi salì di corsa le scale. Prese a spalancare le porte a calci, sempre con l’archibugio spianato. Urlava, un po’ ubriaco, e per farsi coraggio, pauroso di quello che avrebbe trovato nelle stanze, una pistolettata o un colpo di stocco a tradimento, tra le scapole.
Quando, di colpo, ammutolì al piano basso dell’Orlando Spinoso fu chiaro a ognuno che era accaduto qualcosa.
Tutti alzarono la testa. Lo sbirro si affacciò sul ballatoio. Le candele mandavano una luce fumosa, incerta. La faccia dell’uomo, sfregiato da una cicatrice tra gli occhi, praticamente senza naso, era di pietra.
Farfugliò qualcosa all’indirizzo del suo capo, un ansimare roco e franto. Cercavano contrabbandieri, sbandati, dio volesse briganti con una taglia sopra, magari, e invece…
Solo allora, nel silenzio, si udì un singulto, quasi un rantolo.

Craina, il conte veneziano, ebbe un fremito. Tomaso che gli era vicino, lo vide impallidire. La napoletana, disse Craina, in un soffio, anche la napoletana.

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