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Francesco Fontana

Orfano di mio figlio

(Francesco Fontana)

 

 

 

 

 

 

 

 

Il 15 gennaio 1996 moriva, in un tragico incidente stradale, Roberto Fontana.  Roberto era giovane, viveva il primo periodo di una gratificante esperienza professionale, che lo appagava.

Sette anni dopo quel tragico evento, Francesco Fontana, il padre, stimatissimo dirigente scolastico, ha fatto forza al suo dolore e ha cercato di proporre la figura del figlio nella logica di un richiamo forte ad una diversa concezione dello stare sulle strade e dell’educazione stradale. Ne è uscito un libro che è straordinaria testimonianza.

I proventi della vendita del libro sono devoluti alla costruzione degli impianti sportivi della trevigiana parrocchia di san Lazzaro.

Per informazioni: francofonte@inwind.it

 

 

Questo libro provoca già dal titolo. 

La condizione di un padre orfano del proprio figlio sta ad indicare un rovesciamento dell’ordine naturale delle cose, un sovvertimento delle regole più profondamente incise nelle coscienze individuali, il segno di una distruzione, la prova tangibile di una sacralità affettiva profanata.

Profanata da chi? Da un destino avverso? Da un gioco del caso che ti ferma a bere un caffè in autostrada e fa collimare il preciso istante del tuo transito col volo di una macchina impazzita? Dall’imperizia di un guidatore che trasforma di colpo un’automobile in un proiettile folle e va a troncare la vita di due ragazzi?

La scrittura è sempre un tentativo di decifrare l’indecifrabile, e pagine di assoluta verità come queste lo dimostrano in modo perentorio.

Francesco Fontana, parola dopo parola, si interroga. Si chiede perché si sopravviva ad un figlio, perché a due genitori sia inflitta questa terribile condanna, perché mai si spezzi un filo di affetto unico, si interrompa una continuità, cada il testimone che una generazione porge alla generazione successiva.

Domande legate al mistero ultimo dell’esistenza, e dunque destinate a rimanere senza risposta. Destinate magari ad una loro sublimazione.

Che però deve attraversare il calvario del dolore più profondo, la macerazione delle notti senza sonno, la sofferenza di chi condivideva l’amore per la persona: il dolore degli altri non consola, non divide il fardello, non attutisce. Semmai amplifica il proprio dolore.

Ma sono sempre lì, le domande. Sono un fuoco che non si estingue, perennemente vivo. Se talora sembra dormire sotto la brace è perché si prepara ad un nuovo assalto, a divampare più terribile.

Bisogna accontentarsi allora di rispondere a domande più semplici.

Per esempio: perché si scrive? perché dopo anni trascorsi nel ricordo, dopo ore e giorni contati e numerati come gli infiniti e tutti uguali granelli di una clessidra, si decide di mettere sulla carta la memoria ancora viva e dolorante?

 

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Francesco Fontana mi ha coinvolto nel gioco duro e tuttavia affascinante di questi perché.

Provo a dire, come viene, e senza cercare di mettere in odine (una fatica miope e, alla fin dei conti, perfino inutile) di gerarchia, di priorità, di importanza.

Si scrive, intanto, per restituire all’evento la sua dimensione di esemplarità.

Mai più un dolore come questo, una lacerazione simile, in nessun luogo e in nessun tempo. Impossibile? Inutile? Chi ha conosciuto questo abisso di dolore comprende che vale la pena di compiere uno sforzo, sebbene costi sangue. Per evitare, magari, anche una sola ripetizione dell’evento stesso.

Si scrive (come negarlo?) per cercare una colleganza con esperienze consimili. Per tentare una via di guarigione (diciamo un po’ meno: di razionalizzazione del dolore, di convivenza con esso) attraverso la comunicazione, il dialogo, se possibile la confidenza con chi ha subito dalla vita un agguato simile.

Si scrive, dunque, per recuperare una memoria ad una luce nuova, in qualche modo più serena. Per farlo (Francesco Fontana ha atteso/ ha dovuto attendere sette anni) bisogna aspettare che il tornado dell’anima, la buriana del dolore si placassero un po’. Anche questa attesa, questo indugiare dell’affetto lacerato sono parte integrante dell’esperienza che prima giunge a maturazione e poi si finalizza nella scrittura.

Si scrive, in una dimensione di fede, per tentare il recupero di una misura provvidenziale in quanto è accaduto, nella concatenazione dei fatti, nell’essersi trovati (perché proprio io, perché mio Dio, perché hai scelto me e mia moglie?, sembra chiedersi ad ogni riga l’autore) bersaglio di una simile folgore.

Francesco Fontana scrive per raccontare Roberto, per restituirlo a tutti, per riproporlo, per dire grazie a quanti lo hanno amato e hanno pianto la sua morte. Per dire che straordinaria persona fosse, quali pensieri albergassero nella sua anima grande, generosa, intelligente, e però timida, introversa, paurosa di aprirsi. Un uomo che stava sbocciando e che avrebbe dato tanto a tutti.

Per dire e rinnovare la sorpresa della scoperta avvenuta dopo la morte: quanto era amato e benvoluto questo ragazzo, che pure aveva fatto della riservatezza un suo stile di vita.

Questo rimanda al perché iniziale. Quello di fondo, quello che ci lascia senza risposte.

 

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All’inizio pensavo che il padre terminasse qui il suo dire. La figura di Roberto, così caldamente delineata, rivissuta con amore, trasmetteva già testimonianze alte, messaggi forti. Emergeva chiaro un figlio più amato, un giovane uomo più significativo.

Ma il “Padre Orfano”, nel rivivere drammi e assenze, sente l’insufficienza di questo dire: l’omaggio a Roberto gli pare incompiuto se non va oltre il dramma privato. Se non pone un aggancio con le criticità del presente. Se non chiama in causa, soprattutto, il problema quotidiano dello stare sulle strade, del domani dei nostri figli, ad incominciare dai bambini. Allora cerca comunione con le molte altre sofferenze derivanti da tragedie analoghe. Emerge irrefrenabile davvero lo stillicidio delle vittime sulle strade. È terribilmente tragico, colpevolmente assurdo.

Francesco Fontana opera esemplificazioni, analisi critiche aperte e pungenti. Come sente e può esprimere, pure con caparbietà, chi deve scaricare pesi dell’anima scaricatigli da altri.

Sono pagine in cui si avverte, riprende voce robusta, lo spirito dell’uomo di scuola. Che continua ad animare questo padre, insieme a sensibilità sociali ed impegno civile esemplari

L’educatore sottolinea, dunque, l’urgenza di azioni formative che scuola e famiglia sono in grado di produrre in questo versante, se attuate con sistematicità e sintonie d’intenti. L’obiettivo guida è di guidare i giovani ad una vera “cultura della strada”, come riqualificazione civile.

La celebriamo come molto evoluta, questa nostra civiltà , ma, come sottolinea Francesco Fontana, anche la realtà quotidiana della strada smentisce in continuazione tale ottimismo, che decade pure in presunzione.

Sono pagine che scoprono nervi dolenti: dovrebbero far riflettere tutti, scuotere ciascuno.

 

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Mi resta da dire qual è stato il mio ruolo in tutto ciò.

Francesco Fontana ha scritto un grande libro, in cui ha profuso amore e (lui, per tanti anni uomo di scuola) immensa, partecipata esperienza di educatore. Ha fatto, con immaginabile fatica, un grande dono a sua moglie, alle sorelle di Roberto, ai suoi parenti, agli amici suoi e di Roberto, a tutti quelli che lo hanno conosciuto.

Ha fatto, anche, un grande dono alla società civile, accettando di mettere in gioco e in vetrina la sua avventura esistenziale. Per molti, dopo questo libro, sarà meno aspro riandare col pensiero a Roberto e riflettere su quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Così altri come lui, troppi.

Alcune pagine sono memorabili, inducono allo strazio. Io che le ho lette per primo mi sono sentito un privilegiato (l’amicizia che è maturata tra Franco e me –prima ci conoscevamo appena, di superficie, e per motivi del tutto diversi- grazie alla stesura di questo libro, è, appunto, un privilegio straordinario), mi sono sentito un vaso troppo piccolo per raccogliere tutto il tracimare dell’umanità di Francesco.

Un padre che corre per vedere il corpo straziato di suo figlio. Un padre che vuole riportare a casa quanto prima quel corpo -è terribile, sembra quasi di parlare di una cosa- ma non può, è costretto ad attendere adempimenti di altri.

E quando, dopo due giorni, gli danno il permesso, non sa dove accoglierlo, perché ormai è sera. Il funerale sarà possibile il giorno dopo. Lui si terrebbe la bara in casa.

È il prete, il suo parroco e parroco, dunque, anche di Roberto, che gli dice: “No, portalo qui in chiesa, per questa notte”. E quella sera gli amici di Roberto vegliano e pregano attorno a lui, insieme ai genitori, alle sorelle. Un universo di sensazioni, sentimenti, ricordi comuni e condivisi.

Francesco Fontana racconta tutto questo. Un dono incommensurabile, come dicevo, di cui gli sono grato. Una esperienza di scrittura per me importante.

Io ho avuto solo il compito di arginare il fiume dei ricordi e l’incalzare delle istanze.

Ho anche chiesto al padre “orfano di suo figlio” di proporre, in una sorta di appendice, una scelta degli scritti di Roberto.

Per dire.

Questi erano i sogni di un ragazzo che si accingeva a vivere la sua condizione adulta, a testimoniare la sua onestà e la sua tensione morale nel lavoro e nella sfera degli affetti domestici. Che avrebbe dato tanto perché tanto aveva da dare, con ricchezza e generosità.

Sogni infranti, appunto.

 

Grazie, amico Franco, per avere trovato la forza di raccoglierne i frantumi e rimetterli insieme. Il risultato, credimi, è un vaso di cristallo luminoso e purissimo. Le attaccature sono fatte con la colla dell’amore, e non si vedono proprio.

Ma si intuiscono, stai tranquillo.

 

(Treviso, dicembre 2003)

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